Intervista
5 settembre 2010

QUESTO SISTEMA PLEBISCITARIO AFFONDA IL PAESE. UN’ALLEANZA CON CHI VUOLE TORNARE IN EUROPA<br><br>

Intervista a Claudio Sardo - Il Messaggero


ROMA – “La crisi economica e sociale è più grave di quanto dica il governo. L’Italia ha bisogno di riforme, di scelte impegnative su infrastrutture, politica industriale, ricerca, sostegno al lavoro delle donne e dei giovani. Ma con il populismo e la sondaggiocrazia non si affrontano i problemi strutturali dei Paese. Il nostro sistema politico, subita la torsione plebiscitaria, è ormai un impedimento per il Paese”. Parlare di istituzioni oggi è poco sexy. Massimo D’Alema però insiste sul nesso tra «qualità della democrazia» e capacità dell’Italia di rimettere in moto le energie per la crescita. E’ anche la chiave della sua risposta a Giulio Tremonti, che ha dichiarato conclusa l’emergenza e proposto un patto all’opposizione per rilanciare la competitività.

“Non ho mai pensato –dice D’Alema- che l’Italia sia come la Grecia, soprattutto grazie alle scelte coraggiose che l’Ulivo ha compiuto con Prodi e Ciampi. Tuttavia la crisi c’è. E quell’agenda di riforme di cui parla oggi Tremonti è stata del tutto accantonata in questi anni. La sfida riformista ci interessa, eccome. Spero che Tremonti riesca a spiegare a Berlusconi quali sono le priorità del Paese, visto che si occupa dei suoi processi e delle sue prescrizioni”.

Si torna così alle istituzioni. “Il sistema politico ed elettorale ha molto a che fare con le riforme economiche e la competitività. E’ arrivato il tempo di fare
un bilancio di questi 15 anni. In nome di un modello di democrazia diretta, estraneo alla tradizione europea, abbiamo creato l’illusione di un primo ministro eletto dal popolo, cancellato il ruolo del Parlamento, colpito l’equilibrio costituzionale dei poteri. Si era promessa almeno stabilità, invece abbiamo governi inefficaci e nuove spinte alla frammentazione».

D’Alema vuole rispondere alle critiche, ricevute anche in casa propria, dopo aver riproposto la riforma sul «modello tedesco». Ma premette che la legge elettorale è solo «una parte del problema» e che «fa bene Bersani a dire che non bisogna impiccarsi ad un modello», perché il confronto va portato avanti «con serenità» guardando soprattutto agli «equilibri complessivi delle istituzioni».

Sul tavolo di D’Alema, nell’ufficio di piazza Farnese, c’è la fotocopia di un’intervista di Silvio Berlusconi ad Augusto Minzolini. È del 19 novembre 2007: il Cavaliere, allora all’opposizione del governo Prodi, si dichiara favorevole al sistema tedesco. «Con questa legge non si può governare», dice. Con il Porcellum si passa da un ricatto all’altro. «È successo prima a me, ora succede nella sinistra», sottolinea. «Adesso sta accadendo di nuovo a lui - chiosa D’Alema. - Chissà che non abbia una resipiscenza».

Non spererà ancora di fare un accordo con Berlusconi, magari sulla legge elettorale tedesca?

«Il fallimento del governo è sotto gli occhi di tutti. L’Italia ha i record della recessione più grave in Europa, della ripresa più lenta, del tasso di occupazione più basso tra donne e giovani. Anche la crisi che si è aperta nel Pdl non pare sanabile: l’idea che Fini ha del centrodestra è molto diversa da quella di Berlusconi. Il voto anticipato sarebbe la soluzione logica, normale. Ma questo sistema deformato rischia così di abbattersi anche sulla prossima legislatura».

Cosa propone?

«La strada maestra è quella di un governo di transizione, che affronti le emergenze economiche del Paese e aiuti a ricostruire gli istituti della democrazia rappresentativa, dando vita ad un bipolarismo di tipo europeo. Temo che Berlusconi dica di no: ma sarebbe un grave errore. Se tornassimo al voto con questa legge, la questione democratica diverrebbe anch’essa un’emergenza e credo che tutte le forze estranee alla cultura plebiscitaria debbano assumere un impegno comune per riportare l’Italia ad uno standard compatibile con il costituzionalismo dell’Occidente».

Immagina un’alleanza aperta a Casini e Fini?

«Fini lavora ad una destra europea e moderna. Non è un uomo di sinistra, non facciamo confusione, anche se può essere un interlocutore importante nel confronto sulle riforme. La coalizione partirà dall’opposizione di oggi, però il programma di un possibile governo di transizione potrebbe trasformarsi in un programma elettorale».

Già è scritta la replica: D’Alema parla di democrazia rappresentativa perché vuole togliere ai cittadini il diritto di scegliere i governi. Guardi che anche a sinistra non mancano discorsi di questo tipo.

“La semina del populismo è stata vasta e ha riguardato anche il nostro campo. Ma ci sono energie politiche e culturali per condurre questa battaglia. I governi si formano in Parlamento in tutti i Paesi europei, compresa la Gran Bretagna. Si formano sulla base dei risultati elettorali, dopo che i partiti ovviamente hanno messo in chiaro cosa intendono fare: mai nessuno però ha contestato la legittimità del Parlamento di dar vita ad un governo. Anche la Thatcher e Blair sono stati sostituiti. Da noi invece la delegittimazione del Parlamento è sospinta da un vento di anti-politica. E il combinato tra il premio di maggioranza e le liste bloccate ha ormai trasformato le Camere in una sorte di coorte del Capo. Poi il Capo, in questo contesto, finisce per occuparsi solo di sondaggi anziché del governo».

Non si può dire che l’elezione diretta dell’esecutivo sia estranea alla democrazia.

«Certo che no. Ma va detto chiaramente che questo è presidenzialismo. Non lo dico con tono di sfida: il presidenzialismo è democratico. Richiede però contrappesi parlamentari molto forti, a partire da una distinta elezione legislativa. Simulando invece il presidenzialismo con la maschera del premio di maggioranza entriamo in uno schema plebiscitario e ci allontaniamo dall’Europa».

Forse tutto ciò è il contrappasso dell’eccesso di instabilità e di parlamentarismo della Prima Repubblica.

«Se si cerca la stabilità, ci sono istituti molto efficaci che non stravolgono gli equilibri costituzionali. In Germania la sfiducia costruttiva garantisce di norma governi di legislatura».

La Germania non è l’Italia, è l’obiezione.

«Non condivido questo pregiudizio verso l’Italia. La sfiducia costruttiva funzionerebbe da noi come in Germania. In un sistema di quel tipo, i governi si formerebbero in Parlamento attorno al leader del partito più grande e con coalizioni del tutto comprensibili agli elettori. Purtroppo il pregiudizio contro l’Italia viene usato per irrigidire norme e istituti. Le Costituzioni invece hanno bisogno di flessibilità e l’eccesso di coazione produce molto spesso risultati opposti: basti pensare all’aumento della frammentazione e del trasformismo in questi anni».

Perché D’Alema sostiene il modello tedesco quando il Pd ha espresso la sua preferenza per il doppio turno francese?

«Io sostengo la posizione del Pd. Credo che il bipolarismo sia irreversibile e che dobbiamo costruirne uno diverso, di tipo europeo. La mia prima scelta è per il doppio turno: è la soluzione migliore per comporre, senza coercizioni e ricatti, coalizioni capaci di governare. Anche se allora non trovammo un’intesa sulla base uninominale, la proposta di riforma elettorale al tempo della Bicamerale fu comunque strutturata su un doppio turno. Magari si arrivasse oggi al modello francese in un sistema parlamentare rafforzato. Penso però che sia più facile una convergenza su un modello simile a quello tedesco. È una seconda scelta che potrebbe calzare bene al nostro Paese»

C’è un appello per l’uninominale-maggioritario a un turno. Perché lei è contrario?

«Il professor Giovanni Sartori ha descritto, in modo impeccabile, perché il modello anglo-sassone produrrebbe in Italia coalizioni coatte con un forte incentivo alla frammentazione. Aggiungo che non sono solo teorie: al tempo del Mattarellum (uninominale-maggioritario per il 75% dei seggi) siamo arrivati a 14 partiti».

Non manca nel centrosinistra chi dice: meglio tenerci il Porcellum che tornare al proporzionale.

«È un imbroglio dire che una riforma sul modello tedesco sarebbe un ritorno al passato. Lo sbarramento produce razionalizzazione e la sfiducia costruttiva garantisce una stabilità che il nostro sistema non ha mai avuto. Ma voglio segnalare il rischio paradossale a cui andremmo incontro seguendo queste posizioni, per fortuna minoritarie: il Porcellum è talmente sgangherato che, se pure Berlusconi vincesse le prossime elezioni, potrebbe non tornare a Palazzo Chigi perché privo di una maggioranza in Senato. Tuttavia potrebbe utilizzare quel premio di maggioranza alla Camera concepito per la governabilità, proprio per farsi eleggere al Quirinale. La questione è molto seria: sono in gioco le stesse istituzioni di garanzia che la Costituzione affida alla legittimazione parlamentare».

L’accordo sul modello tedesco allude ad un’intesa con l’Udc su Casini candidato premier?

«Spero che il confronto sul modello tedesco favorisca un’intesa politica con l’Udc, peraltro maturata in un’esperienza comune di opposizione al governo. In un sistema di tipo tedesco, la normalità comunque è la formazione del governo attorno al leader del partito che ottiene più voti».

Anche alcuni popolari hanno avuto parole di critica nei suoi confronti. Se il modello tedesco porta ad un’intesa parlamentare tra sinistra e centro, il progetto del Pd rischia di saltare. Cosa risponde?

«Che per me anche il Pd è irreversibile. Ho più fiducia di alcuni miei critici: il Pd ha ormai radici profonde, nasce dai governi dell’Ulivo, non può neppure concepirsi senza le culture che lo hanno fondato. Il Pd resisterà a qualunque legge elettorale. Anche se va detto che il doppio turno di collegio, al pari del sistema tedesco, ne valorizzano molto il ruolo mentre invece in un sistema a turno unico il Pd non presenterebbe neppure il suo simbolo alle elezioni. Quanto al Centro, credo che Casini possa ampliare i suoi orizzonti, vista la profondità della frattura nel Pdl. Tuttavia non tornerà la Dc, né un Grande Centro. Penso che il ruolo dei centristi in un sistema di tipo tedesco possa essere simile a quello svolto dai liberali. Arbitri resteranno gli elettori. E lo saranno di più in sistemi costituzionali con il giusto grado di flessibilità».

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