Discorso
6 settembre 2010

Presentazione del libro “I Servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelligence del XXI secolo” di Giuseppe De Lutiis – Intervento di Massimo D'Alema

Festa CGIL - Terme di Caracalla, Roma



Ho avuto il piacere di leggere questo libro una ventina d’anni fa, in una forma ridotta e dal titolo “Storia dei Servizi segreti”. L’ho riletto in questi giorni, trovandolo arricchito di nuovi capitoli e con un titolo diverso: “I servizi segreti in Italia”. In effetti, a mio giudizio, non si tratta propriamente di una storia dei Servizi, soprattutto perché non c’è la possibilità di consultare gli archivi. E questo, dal punto di vista di uno storico, è una mancanza non piccola.
Il libro di De Lutiis affronta una questione per certi aspetti più ampia dei Servizi segreti: la dimensione occulta dello Stato. Una dimensione che certo in parte coincide con i Servizi, ma in parte va oltre. In diversi passaggi si racconta, infatti, di comportamenti che hanno investito vertici militari o altre strutture, come l’Arma dei carabinieri, che hanno rappresentato nel corso del Dopoguerra un grumo potente della dimensione occulta dello Stato.
E’ un libro importante per capire la storia d’Italia, per comprendere non soltanto la storia di determinati apparati ma in quale quadro di condizionamenti e di vincoli si è sviluppata la democrazia italiana nel Dopoguerra. Vincoli e condizionamenti che sono derivati fondamentalmente dalla Guerra fredda.
Infatti, si sbaglierebbe a considerare la vicenda dei Servizi segreti, e in generale dei comportamenti occulti degli apparati dello Stato, in un’ottica esclusivamente italiana. Il soggetto principale, a ben vedere, non è l’Italia, ma è la lealtà di questi apparati alle potenze occidentali, fondamentalmente agli Stati Uniti d’America.
La fase iniziale di riorganizzazione dei Servizi, che è documentata molto bene nel volume, è avvenuta sotto l’egida degli inglesi, soprattutto in funzione anticomunista attraverso il recupero di personale che proveniva direttamente dagli apparati fascisti. Dietro la ricostruzione degli apparati vi è stata la regia alleata volta a recuperare dal regime fascista non solo personale ma anche concezioni e visioni, al fine di organizzare strutture concepite innanzitutto quell’obiettivo.
Si potrebbe dire che la mission dei Servizi segreti era innanzitutto quella di garantire la lealtà atlantica del nostro Paese e di contenere il rischio che la sinistra, e da un certo momento in poi il Partito comunista, potessero mettere in discussione l’appartenenza atlantica dell’Italia. Questo è stato il compito fondamentale assegnato ai nostri servizi. E per questo che, credo, per molti aspetti, non si debba parlare di deviazioni.

Fino alla fine degli anni ’70, il Servizio segreto italiano è stato esclusivamente militare e rigidamente inquadrato in una logica atlantica. Era il nostro Paese, infatti, il territorio “estero” nel quale si misurava la capacità operativa del Servizio perché proprio qui era la frontiera della lotta contro il nemico storico, il comunismo.
Se storicamente questo tipo di deviazione è persino comprensibile, non si può dire altrettanto dei suoi effetti collaterali che sono stati molto profondi.
La Guerra fredda, l’anticomunismo, hanno costituito certamente una delle ragioni di questa configurazione dei Servizi. Ma penso ve ne sia anche un’altra, maggiormente legata alla storia nazionale, costituita dal carattere ristretto delle basi dello Stato italiano. Mi riferisco, innanzitutto, al peso politico di consorterie, all’influenza che alcuni gruppi o settori della massoneria hanno avuto nella storia del nostro Paese, ma anche alla diffidenza verso i partiti popolari e di massa da parte dei vertici militari. E, infine, mi riferisco alla presenza di determinate oligarchie nell’apparato dello Stato.
Il rapporto con le oligarchie economiche ha rappresentato certamente uno dei tratti peculiari di questa dimensione occulta dello Stato. Basti pensare al ruolo cruciale che ebbe un ufficiale come il col. Rocca, che rappresentava proprio il tramite tra questi apparati e grandi gruppi industriali nell’organizzazione di una strategia illegale, extracostituzionale, di difesa della stabilità atlantica in chiave anticomunista. Questa tradizione peculiare italiana, che è stata un limite storico, ha avuto un’influenza molto forte sul costituirsi di legami tra vertici militari, oligarchie economiche, pezzi di apparati dello Stato e potenze straniere.
Tutto ciò è magistralmente descritto nel libro di De Lutiis che ricostruisce molto bene i passaggi cruciali di questa vicenda.
Una dimensione poco esplorata nel volume e che, invece, io ritengo fondamentale analizzare se si vuole scrivere una storia dei Servizi segreti italiani, riguarda il loro ruolo internazionale. Un ruolo che, nel bene o nel male, c’è stato ma di cui ho trovato pochi riferimenti nel libro. Ad esempio, il tema del rapporto con la realtà mediorientale è appena sfiorato.
Il libro si concentra molto sulla funzione che i Servizi segreti hanno svolto nella vicenda politica italiana, che certamente è stato un aspetto cruciale della loro funzione, ma non esclusivo. Appunto, al di fuori di ogni dietrologismo, credo che in questo testo ci si occupi di quelle verità storiche che appartengono, oramai, al patrimonio conoscitivo collettivo e che non siamo riusciti a trasformare in verità processuali se non in casi eccezionali, aprendo degli squarci.
Come disse Pasolini “io so”, noi potremmo dire “noi sappiamo”. Oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia capito che dietro la strategia della tensione c’è stata l’opera di settori occulti dello Stato, che la strage di piazza Fontana non è stata né opera degli anarchici né di un pazzo estremista di destra isolato, o che un certo estremismo neonazista era organicamente legato ai Servizi segreti nel nostro Paese.
Tutti ormai sanno che la vera dialettica all’interno degli apparati di sicurezza era tra un’ala apertamente golpista, che riteneva che si dovesse fare un colpo di Stato di tipo militare, e una parte che ha alimentato la strategia della tensione ai fini di stabilizzazione del potere democristiano. Si trattava di una dialettica che non riguardava se mettere le bombe o no, ma il metterle a quale fine. Si potrebbe dire che quelli che mettevano le bombe per difendere la Dc appartenevano all’ala democratica dei Servizi segreti.
Certe dispute, pensiamo al conflitto che lacerò il Servizio segreto militare tra il gen. Miceli e il gen. Maletti, avevano esattamente questo significato: la volontà di liquidare l’ala golpista, che era quella che si era organizzata in una certa fase intorno a De Lorenzo e che poi, successivamente, aveva alimentato il tentativo Borghese.
E’ chiaro, quindi, che dentro questi apparati ha operato una componente apertamente golpista, mentre altre forze più leali al potere democristiano hanno pensato che la strategia della tensione potesse essere utilizzata alimentando l’idea degli opposti estremismi, ma a scopi di stabilizzazione dei governi del nostro Paese.
Vista in una prospettiva storica, la cosiddetta Prima Repubblica si è basata su una doppia conventio ad excludendum: c’era una democrazia costituzionale, fondata sull’esclusione dell’estrema destra neofascista e che comprendeva il Partito comunista nel cosiddetto arco costituzionale, e c’era una dimensione occulta dello Stato che, invece, comprendeva la destra neofascista ed era fondata sull’esclusione dei comunisti e della sinistra.
In questo delicato equilibrio si è basata la tenuta della Prima Repubblica, cioè di un sistema che aveva una dimensione democratico-parlamentare fondata sull’antifascismo e una dimensione occulta dello Stato fondata sull’anticomunismo. In fondo è persino comprensibile, sempre assumendo una prospettiva storica, che in un mondo diviso in due, il nostro sia stato un Paese a sovranità limitata nel quale esistevano strutture preposte a evitare che l’Italia potesse cadere sotto l’influenza sovietica.
Tutto sommato, il merito della Democrazia cristiana è proprio quello di aver saputo contenere entro certi limiti democratici questo tipo di pressione che è stata esercitata, in forme spesso illegali, sulla vita politica italiana.
Il problema è che questa dimensione occulta, proprio perché ha praticato sistematicamente il terreno dell’illegalità in funzione anticomunista, costruendo rapporti con gruppi terroristici, con nuclei neofascisti, con organizzazioni della criminalità organizzata, ha finito per sedimentare legami tra determinati apparati dello Stato e illegalità. Legami che si sono proiettati ben oltre la ragione originaria per cui erano nati.
In fondo, perché la mafia entrò in un rapporto positivo con gli americani? Perché fece la scelta antifascista e preparò il terreno per lo sbarco anglo-americano in Sicilia. Il problema è che il rapporto con la mafia ha condizionato la storia italiana ben oltre le ragioni di quel patto originario.
Questo praticare l’illegalità in funzione anticomunista ha finito per influenzare la vita democratica del Paese e per generare condizionamenti reciproci la cui ombra si è spinta ben al di là della conclusione della Guerra fredda, quando oramai era venuta meno ogni giustificazione.
A mio giudizio, in realtà, la giustificazione era venuta meno già all’inizio degli anni ’70, cioè nel momento in cui si era spezzato il legame organico tra il Partito comunista italiano e l’Unione Sovietica ed erano venute meno le ragioni di quel patto di garanzia atlantica che aveva sorretto anche la riorganizzazione di questi apparti dello Stato.
Come ho già detto, quel tipo di collegamento che si era venuto costruendo ha continuato a condizionare pesantemente la vita politica italiana. Penso alla P2 che è stata in un certo momento una sorta di nulla-osta atlantico, per cui soltanto chi vi faceva parte poteva accedere a determinati livelli dell’apparato di sicurezza del Paese, o comunque chi vi accedeva era tenuto a iscriversi alla P2, come se l’appartenenza a quel club fosse una specie di sigillo di garanzia.
Il problema è che quando sono venute meno le ragioni di quella garanzia, e sono venuti meno anche i protettori internazionali che non erano più interessati, quella ha continuato ad agire come una struttura di potere, condizionando fortemente la politica italiana. E’ questo uno degli aspetti a mio parere più inquietanti: l’ombra lunga della dimensione occulta dello Stato ha continuato a proiettarsi sulla vicenda più recente della nostra storia, con il perdurare di un certo rapporto tra apparati dello Stato e grande criminalità organizzata.
In questo senso, speriamo che le indagini in corso sulla individuazione dei responsabili delle stragi del ‘92 che coinvolgerebbero appartenenti o ex appartenenti ai servizi, consentano di compiere un accertamento.
Per quanto ci riguarda, l’aspetto più importante del nostro compito istituzionale è di far sì che i Servizi collaborino pienamente con la magistratura.
Alcuni degli accertamenti fatti nel corso dell’attuale indagine ad opera dei pm di Caltanissetta, sono stati possibili proprio perché il Servizio sta collaborando come mai nel passato era accaduto.
Ad esempio, il riconoscimento di certe persone non sarebbe stato assolutamente possibile se i Servizi non avessero fornito il materiale fotografico necessario. Perciò quello che mi preoccupa è la collaborazione dell’intelligence, nello spirito della riforma. Una riforma che abbiamo voluto fortemente.
De Lutiis in questa nuova edizione del libro indica la riforma come una grande opportunità per il Paese anche se, giustamente, ne mette in luce le difficoltà di una concreta attuazione. Si tratta, in effetti, di una riforma cruciale per dare all’Italia Servizi segreti che abbiano una nuova missione, che siano concepiti in modo diverso.
In questa prospettiva vorrei segnalare un provvedimento che è passato quasi inosservato, ma che considero di grandissima importanza e per il quale ci siamo battuti. Il comitato interministeriale ha adottato la decisione di effettuare, nei prossimi due anni, un radicale turn over che potrà facilitare un effettivo rinnovamento.
Questo è, a mio parere, un passaggio fondamentale: favorirà un ricambio generazionale, l’assunzione di giovani e l’acquisizione di nuove competenze. D’altra parte, il compito di un organismo parlamentare è anche quello di sollecitare un rinnovamento reale e profondo.
Certamente i Servizi segreti sono molto importanti nell’epoca attuale. Ci troviamo in un mondo che, sebbene non sia più diviso dalla Guerra fredda, è attraversato da molti altri conflitti. Penso, ad esempio, a quanto sia importante oggi la tutela degli interessi economici del Paese, un campo che ci vede in competizione non soltanto con il nemico, come accadeva in passato, ma con tutti, compresi molti nostri alleati.
In questo scenario si aggiungono nuovi obiettivi, oltre naturalmente a quelli fondamentali della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. Ridefinirne la missione, riorganizzarne la struttura, favorire un ampio ricambio del personale è, sulla base della riforma del 2007, il compito con il quale noi ci dobbiamo misurare.
Su questa strada c’è un nodo importante. La riforma, infatti, introduceva una novità molto coraggiosa, stabilendo che allo scadere di trent’anni al massimo (quindici anni più quindici di eventuale proroga), venisse meno il segreto di Stato e fosse quindi garantita l’accessibilità ai documenti coperti da tale misura. La questione è molto complicata ed è importante non fare confusione perché oltre al segreto di Stato c’è anche il problema dei documenti classificati. In linea generale, lo spirito della riforma era di favorire, dopo un tempo ragionevole, la trasparenza e l’accesso.
La riforma, promossa dal governo Prodi, è stata fatta dal centrosinistra con un accordo ampio ed è entrata in vigore quando è cambiato l’esecutivo. Il fatto che scadesse il segreto di Stato ha determinato, come prevedibile, molta curiosità e immediatamente l’attuale governo si è trovato a dover gestire varie domande di accesso. Gli archivi dei Servizi segreti, che non si sapeva bene nemmeno dove e cosa fossero, stavano per essere invasi da un esercito di giornalisti, studiosi, ricercatori, curiosi…
Di fronte a questo il governo si è spaventato e ha bloccato tutto, nominando una commissione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che avrebbe dovuto lavorare ad una proposta per regolamentare l’accesso. Questa commissione avrebbe dovuto lavorare sei mesi, che sono diventati un anno, poi un anno e mezzo, fino a quando, gli ultimi giorni di luglio ha varato un documento orientativo. A mio giudizio, si tratta di un testo che propone qualcosa di inaccettabile: l’ipotesi che allo scadere del segreto di Stato, l’autorità che ha formato il documento, cioè lo stesso Servizio, possa prolungare il divieto di accesso con altri mezzi.
Ora, mentre il segreto di Stato è una decisione politica, di cui è responsabile il presidente del Consiglio ed è comunque discutibile in sede politica, l’idea che il segreto di Stato possa essere in qualche modo prolungato attraverso le classifiche di segretezza, e quindi con una decisione burocratica della stessa struttura dei Servizi segreti è francamente insostenibile. Con tutto il rispetto per gli eminenti costituzionalisti che hanno firmato questo parere.
Nel suo libro il professor De Lutiis affronta in maniera molto critica un altro tema delicato che ci riguarda, ovvero la decisione del governo Prodi di confermare l’opposizione del segreto di Stato ai magistrati di Milano in relazione alle indagini sul rapimento di Abu Omar. Io stesso fui partecipe di quella decisione, nella mia qualità di ministro degli Esteri, e tutt’ora la difendo. Tra l’altro la Corte costituzionale ci ha dato clamorosamente ragione. Quando i magistrati di Milano, con un’iniziativa piuttosto imprudente, hanno fatto ricorso alla Corte, hanno ottenuto, infatti, una sentenza pesantissima di difesa del potere di opporre il segreto di Stato da parte del presidente del Consiglio. Una sentenza che è andata persino ultra petita, il che dimostra che in questo caso i magistrati di Milano, con tutto il rispetto, hanno compiuto un errore. La vicenda del rapimento di Abu Omar, comunque la si voglia giudicare, era senza dubbio una questione che toccava un tema delicatissimo, quello della collaborazione tra Servizi segreti italiani e stranieri, in questo caso americani. Tema tipico sul quale è ragionevole opporre il segreto di Stato.
Viceversa, più recentemente, abbiamo avuto altre decisioni che avrebbero meritato ben altra reazione dell’opinione pubblica e degli studiosi. Mi riferisco alla decisione di confermare l’opposizione del segreto di Stato nel processo Mancini-Tavaroli-Cipriani a Milano o nel processo di via Nazionale che coinvolgeva Pio Pompa. Nulla a che vedere con la protezione di segreti dello Stato e molto a che vedere con l’impunità di funzionari che certamente non hanno agito nell’interesse dello Stato.
Sul segreto di Stato, quindi, ritengo che si debba trovare un giusto equilibrio tra le ragioni della trasparenza della giustizia e l’inevitabile tutela della sicurezza e dei rapporti internazionali del Paese.
Sulla strada della ricerca di questo equilibrio, nelle prossime settimane ci sarà una discussione impegnativa e difficile su come scrivere un regolamento che consenta finalmente l’accesso alla documentazione agli storici e studiosi che vogliano conoscerla. Perciò intendo promuovere una consultazione, che non si tenga soltanto nelle sedi politiche, ma che coinvolga anche le associazioni degli storici contemporaneisti, la Federazione della stampa italiana e le associazioni dei familiari delle vittime di stragi, perché anch’essi, giustamente, sono coinvolti. Un precedente, in questo senso, si ha nell’accesso ai documenti coperti da segreto di Stato recentemente consentito ai familiari dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo.
Dunque, a mio parere, ci sono segreti che non hanno più ragione d’essere e verità che bisogna portare alla luce. Una democrazia ha bisogno di verità e non di misteri. Credo che il nostro obiettivo sia questo, un compito da svolgere in modo delicato, perché non si può neanche pensare di sfasciare la struttura…
E, attenzione, lo dice uno che era dall’altra parte della barricata. Tutte quelle manovre di cui abbiamo parlato erano rivolte contro di noi. Mi ricordo quella notte del 1974, quando ero un giovane funzionario del Pci, e il servizio d’ordine del partito mi prelevò per portarmi in un luogo sicuro, perché avevano avuto notizia che si stava organizzando un colpo di Stato. Anche noi avevamo i nostri “Servizi”, eravamo pronti a difenderci in un mondo diviso in due.
Oggi, il mondo è cambiato. E’ importante conoscere la storia del passato, ma ciò che è ancora più importante è che quella storia sia finita e che le sue ombre non ostacolino più il cammino verso il futuro. Non è tollerabile che si usi ancora la conventio ad excludendum anticomunista come strumento di potere nell’Italia di oggi, e questo deve essere impedito con le riforme.

La richiesta avanzata dal comitato di audire il presidente del Consiglio, appare anche nella relazione annuale al Parlamento sull’attività svolta dal Copasir che abbiamo presentato lo scorso 29 luglio. Personalmente credo che Berlusconi sia poco interessato a questo tema, però è giusto che venga a discutere con noi, avendo lui determinati poteri.
Il punto più delicato della relazione al Parlamento è però un altro, riguarda i poteri reali del Copasir. Esso è un comitato di controllo che può audire i dirigenti dei Servizi, ma non ha alcun vero potere di svolgere indagini. Da questo punto di vista, altra cosa è la commissione Antimafia, un organismo parlamentare di inchiesta che dispone dei poteri della magistratura.
L’efficacia del lavoro di questo comitato dipende dunque dal rapporto con il Dis, l’ex Cesis, e con il servizio ispettivo.
In definitiva, a mio giudizio, le ipotesi sono due: o si attribuisce al Copasir il potere di attivare una funzione ispettiva, con la possibilità di avere una reale conoscenza, oppure si dovrà chiedere inevitabilmente una riforma che attribuisca al comitato i poteri di una commissione d’inchiesta. Altrimenti il rischio è di non essere nelle condizioni di compiere quegli accertamenti della verità che rappresentano l’unico vero modo di esercitare un controllo che non sia puramente formale, esteriore e inefficace.
In America, per esempio, il comitato parlamentare ha poteri rilevantissimi, compreso quello di esercitare un controllo sulle operazioni in corso, alcune delle quali non possono neppure essere effettuate senza l’autorizzazione del comitato stesso. È evidente che quello americano rappresenta un modello estremamente penetrante di controllo parlamentare.
Da noi, purtroppo, a differenza dell’America il Parlamento non conta un granché. Credo però che in questo campo la riforma meriti di essere messa a punto, includendo una riflessione sul controllo parlamentare, che così com’è concepito può funzionare soltanto a condizione che il Dis e il servizio ispettivo collaborino pienamente.
Siamo in una fase sperimentale ma è stato comunque utile porre il problema nella relazione.
A questo proposito, vorrei sottolineare che il Copasir è per legge un organismo paritetico, è cioè composto da cinque rappresentanti dell’opposizione e cinque della maggioranza. Per questo quando si esprime come comitato deve trovare un equilibrio, che proprio per la sua composizione, è complicato raggiungere.
Grazie

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