Discorso
27 maggio 2010

Rubes Triva - Intervento di Massimo D'Alema pubblicato nel volume di Andrea Giuntini e Giuliano Muzzioli "Rubes Triva, politico e amministratore nella grande trasformazione. 1946-1972" (Edizioni Apm, 2010)

- ore 18, Modena


Ho letto con piacere il libro su Rubes Triva, un volume molto interessante perché attraverso la storia di un uomo racconta la storia di un’intera comunità. Una forte personalità come Triva, infatti, ha lasciato nella vita della sua città un’impronta ancora oggi estremamente attuale.
Il merito dello studio di Andrea Giuntini e Giuliano Muzzioli è per l’appunto quello di collocare nel vivo della storia della comunità modenese la biografia di Triva, amministratore fra i più apprezzati di questa regione e uomo comune, benchè pienamente consapevole del proprio ruolo e delle proprie qualità. In un passaggio del libro si definisce questa consapevolezza come “narcisismo”, termine cui è ricorso uno dei testimoni interpellati nel testo. Piuttosto, io preferirei definirla “coscienza di sé, coscienza del proprio ruolo”.
La vicenda personale di Triva è collocata al centro della storia di questa città, di questa comunità, di questa provincia, in un momento fondamentale del suo recente passato. Rubes Triva ha saputo incarnare lo spirito di questa collettività, conferendole una fisionomia assai rilevante in una fase decisiva di sviluppo, modernizzazione, crescita della ricchezza e organizzazione della società modenese.
D'altro canto, come ha scritto Antonio Gramsci, si può stimare la grandezza di un uomo distinguendo fra “grandi ambizioni” e “piccole ambizioni”. La grande ambizione sta nel dedicare la propria vita a un disegno collettivo. Al contempo, esiste l'ambizione personale, che – sarebbe sciocco e ipocrita negarlo – è una molla importante dell’agire umano. Nel caso di Triva, però, l’ambizione personale ha coinciso con un progetto collettivo e con un processo di emancipazione comune. Non è certo stata “narcisisticamente” ripiegata sul proprio vantaggio.
Mi fa piacere, in quest’occasione, rendere omaggio alla mia fugace “modenesità”, alla quale il libro fa cenno nel ricordare la breve esperienza che vide mio padre alla testa della Federazione comunista modenese fra il 1953 e il 1955. Egli dette un impulso non secondario a quel processo di rinnovamento e di ricambio generazionale che, a partire dal mitico sindaco della generazione della Resistenza, Alfeo Corassori, col quale Triva stesso aveva collaborato nel governo e nell’organizzazione della macchina comunale, culminò con l’ascesa di Rubes alla carica di sindaco. Allora io avevo quattro o cinque anni, ricordo che abitavamo nei pressi del circuito delle automobili e che a volte per il rumore non si poteva dormire. In particolare, ricordo benissimo il mio primo giorno di scuola vissuto in questa città, dalla quale fummo poi trasferiti a Roma. Sono tuttavia rimasto molto legato a Modena, dove hanno continuato a vivere i miei nonni e i miei zii. Lo zio cardiologo era il medico dell’azienda municipalizzata, dunque in qualche modo un protagonista della vita cittadina. La mia personale “modenesità” è stata dunque assai fuggevole rispetto a quella della mia famiglia, ma per tutti noi è stata una vicenda importante. Anche per questo sono lieto di rendere omaggio a queste radici.
Triva è stato protagonista di un momento fondamentale dell’esperienza emiliana. Egli ha segnato il superamento dell’emergenza del dopoguerra, quando le istituzioni locali, in primo luogo il Comune, sono state chiamate a dare assistenza a una società povera e stremata dal conflitto. In quegli anni le istituzioni locali si sono trasformate, anche grazie a politiche di programmazione economica democratica, in centri propulsivi dello sviluppo, cuore di un riformismo che certamente ha saputo forgiarsi anche su una rete associativa di cooperative, di sindacati, di associazioni, ma che ha avuto il suo centro principale nelle istituzioni.
Questo primato delle istituzioni è un tratto del riformismo italiano e principalmente emiliano, che merita di essere ricordato, poiché esse hanno saputo promuovere uno sviluppo senza fratture. Da qui la caratteristica peculiare e positiva del Partito comunista italiano, il partito della lotta di classe, il quale, tuttavia, come forza di governo locale ha promosso pace sociale e collaborazione fra i ceti produttivi. Da qui la capacità di tenere insieme le ragioni dello sviluppo e della crescita economica, quindi del mercato, con le ragioni della coesione sociale e della partecipazione democratica. Infondo si tratta di quella “quadratura del cerchio” di cui parlò Ralph Dahrendorf a proposito dell’esperienza socialdemocratica europea.
D’altra parte l’esperienza storica del socialismo reale è fallita laddove non ha saputo tenere insieme le istanze dell’eguaglianza con quelle della crescita e dello sviluppo. È proprio in Emilia che l’esperienza del riformismo europeo di successo ha conosciuto una delle sue versioni più significative di promozione, di produzione e di redistribuzione della ricchezza.
Nel libro ho apprezzato, inoltre, la descrizione della battaglia per conquistare margini di autonomia nel governo municipale, per esempio rispetto alla leva tributaria, allo scopo non soltanto di finanziare l’azienda comunale, ma anche di redistribuire la ricchezza. E a proposito di promozione dello sviluppo e redistribuzione della ricchezza sono rievocate grandi lotte, come quella contro il centralismo della politica dell’ENI e a favore dell’uso del metano, risorsa necessaria per la crescita, di cui legittimamente il sistema locale intendeva appropriarsi. O come quelle per le infrastrutture, la cultura e la scuola, ritenute fondamentali leve dello sviluppo moderno.
Metano, autostrada del Brennero e facoltà di Economia: in ognuna di queste tre grandi realizzazioni compare l’impronta di Triva. Basterebbero queste tre opere per affermare quanto egli abbia rappresentato per la storia di Modena: parliamo di un’esperienza che tutt’ora rappresenta, in campi diversi, una serie di aspetti cruciali delle ragioni della crescita e del successo di questa comunità.
Ho ascoltato una bella citazione tratta da un saggio recente di Luciano Cafagna, che mi sembra estremamente appropriata per l’argomento di cui tratta il libro.
Del vecchio PCI – sostiene Cafagna – troppo spesso si dimentica il carattere effettivamente originale dal punto di vista storico, che nulla ha a che vedere con il legame che tutti i partiti comunisti, incluso quello italiano, avevano con l’Unione Sovietica. Questa originalità può essere riassunta nelle grandi scelte togliattiane che furono fondamentalmente tre:
- il rapporto con i cattolici,
- il compromesso culturale gramsciano con lo storicismo crociano e la sociologia weberiana, cioè un marxismo non dogmatico ma capace di misurarsi in modo inclusivo con le grandi correnti culturali del Paese;
- l’eredità socialista del modello emiliano, tema che qui ci interessa di più.
Di solito ci si limita a considerare come peculiare caratteristica del comunismo italiano solo il primo di questi tre punti, cioè il rapporto con i cattolici. Gli altri due sono invece trascurati, in particolare il terzo, che riguarda una cattura ante litteram al mondo della tradizione socialista e socialdemocratica della sua eredità. Un vero e proprio scippo, afferma Cafagna, storico socialista e intellettuale fortemente anticomunista, che però in questo caso concede un riconoscimento importante al PCI.
In Italia i comunisti hanno occupato sin da subito quello spazio che né Pietro Nenni, né Bettino Craxi riuscirono mai a recuperare. Si trattava dell’eredità degli Andrea Costa, dei Camillo Prampolini, dei Gregorio Agnini e dei Giuseppe Massarenti.
Successivamente, in qualche misura, il territorio italiano fu cosparso di tracce del modello emiliano, quelle tracce che a Napoli si chiamarono Maurizio Valenzi, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano, in Sicilia Emanuele Macaluso e Pio La Torre.
È una riflessione interessante, che lascia intendere come l’Emilia abbia svolto una funzione dirigente anche senza occupare significative posizioni di vertice nel partito. Una funzione dirigente di fatto.
Utilizzo il termine “modello emiliano” per semplificare, perché esso è l’emblema di una cultura e di un’educazione politica fatta non solo d’intelligenza, ma anche di virtù civiche e organizzative diffuse, opposta al tradizionale clientelismo della cultura democratico-borghese.
Il punto è ricongiungere alla questione morale la tradizione socialista. Qui il modello emiliano dei Costa e dei Prampolini è visto da Cafagna come un’esperienza oggi da rinverdire, perché è su questo piano che è possibile avvicinare il meglio della tradizione socialista, nella quale egli ricomprende l’esperienza del PCI, o perlomeno parte di essa, alla tradizione democratico-cristiana.
In questo si coglie un dato reale. Il modello emiliano è qualcosa che non si è realizzato solo in Emilia, ma che in Emilia ha conosciuto la sua espressione più significativa, rappresentando la forma italiana della socialdemocrazia, del riformismo della sinistra. Mi riferisco a quella combinazione fra democrazia partecipativa –ricordiamoci che sono nate qui le prime esperienze di partecipazione diretta intorno all’istituzione locale –, programmazione dello sviluppo, crescita economica, valorizzazione dei ceti produttivi in termini di cultura d’impresa e giustizia sociale. Tutto questo attraverso tante forme di produzione e redistribuzione della ricchezza con la costruzione di una moderna rete di servizi.
Questo, a mio parere, è uno dei motivi per cui un grande Partito comunista non è crollato sotto il peso del fallimento dei regimi comunisti. Certo, una delle ragioni principali è stata la sua capacità di trasformarsi in una sinistra democratica. Una trasformazione che non è nata soltanto nella mente di un gruppo dirigente, ma è scaturita da un’esperienza storica vissuta da una grande massa di militanti e dirigenti, percepita come credibile da milioni di cittadini.
È un’esperienza che, in qualche modo, ha anticipato e preparato il terreno del rinnovamento della sinistra italiana e la possibilità di salvarla dal duplice fallimento che rischiò di travolgerla tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta: il fallimento del comunismo e del craxismo, la sconfitta del Partito socialista italiano.
La sinistra ha saputo uscire da questa duplice sconfitta storica grazie alle sue radici ben piantate nella società, in virtù di un passato che aveva rappresentato concretamente, al di là delle repliche della storia, la nostra ideologia. Una forza che aveva cambiato la vita di milioni di persone con un pragmatismo illuminato da valori e da convinzioni profonde, capace di non rimanere prigioniero in gabbie ideologiche. Un pragmatismo in grado di dare risposte, fornire soluzioni nel rapporto con i cittadini, interpretare i processi reali di cambiamento e l’evoluzione degli schemi culturali.
Ebbene, il lavoro di Triva come amministratore locale e la successiva fase della sua vita, che condusse nella dimensione politica nazionale, trovano spazio all’interno di questa vicenda storica, di cui egli fu ottimo interprete. Triva fu prima l’uomo dell’autonomismo della finanza locale e poi, nell’ultimo periodo, nelle vesti di presidente di Federambiente (organizzazione che riunisce le aziende locali impegnate nel settore ambientale), lavorò in continuità con la sua formazione di amministratore e difensore del sistema delle autonomie.
Un altro tema che voglio affrontare è quello del federalismo, oggetto di un dibattito che ha un carico impressionante di ideologia: mai come in questo momento se ne parla, mentre al contempo, nei fatti, si persegue una politica opposta, fortemente centralistica. Basta osservare il profondo divario tra la propaganda e la chiacchiera federalista da una parte, e la concretezza di una politica centralista che soffoca gli spazi reali di autonomia dall’altra.
Nella tradizione della sinistra emiliana la parola federalismo non è mai stata usata, ma il modo in cui è stato coltivato e perseguito l’obiettivo dell’autogoverno, la concretezza delle battaglie condotte, rappresentano conquiste altrettanto rilevanti rispetto al dibattito sul federalismo dei nostri giorni. È una cultura dell’autonomia che in questo momento la sinistra dovrebbe rivendicare con forza.
In Emilia l’esperienza regionale è sempre stata vissuta dentro quell’idea della sussidiarietà che fa del Comune, in definitiva, l’articolazione fondamentale dell’autonomismo, quella più vicina ai cittadini.
L’autonomismo italiano, per la sua cultura e la sua storia, non potrà mai coincidere con l’idea di “Regione-Stato” o di “macro Regione-Stato”, di cui è portatrice la Lega, secondo un’idea che deriva dal pensiero di Gianfranco Miglio.
Proprio per questo è mia convinzione che non dobbiamo farci etichettare come centralisti: l’esperienza di vita di un uomo come Rubes Triva ci insegna che non lo siamo mai stati. Dobbiamo, invece, rivendicare l’originalità dell’autonomismo della sinistra italiana e anche del mondo cattolico contro un’idea di divisione del Paese che – ripeto – nulla ha a che vedere con la reale esperienza autonomistica. Infatti autonomismo significa valorizzazione delle istituzioni a partire dalla dimensione locale. Un principio di sussidiarietà che nell’ottica degli amministratori emiliani è un principio guida delle politiche e della cultura istituzionale da tantissimi anni, ben prima che arrivassero a pretendere di insegnarcelo i teorici della Lega.
Un altro aspetto che emerge bene dal racconto del cammino politico di Triva riguarda la cultura di governo. Un tratto importante da rivendicare, perché la parte migliore della nostra tradizione sta nell’aver saputo dare al Paese uomini di governo, uomini di Stato, nonostante l’appartenenza a una forza politica collocata all’opposizione nell’arco costituzionale.
Dunque, egli fu innanzitutto uomo di governo, capace di interpretare il percorso di maturazione della democrazia e dei processi decisionali. Viceversa, in questi anni ha preso forma una cultura della decisione, che porta al sacrificio dei riti della democrazia. È una cultura insieme autoritaria e populista, in cui il decisore politico si pone in un rapporto diretto con il popolo. Secondo questa idea, le istituzioni, il Parlamento in primis, rappresentano un appesantimento, un fardello superfluo, un’inutile liturgia rispetto al rapporto diretto tra decisore e popolo. Si tratta di una concezione della politica in rapporto alla quale tutta l’esistenza di Triva è l’esatto contrario. Egli dimostra certamente di possedere capacità di decisione, maturata tuttavia attraverso le istituzioni, il dialogo, la concertazione sociale. Come ben si comprende sono due culture della decisione politica diametralmente opposte.
La visione autoritaria e populista, viceversa, contiene un rischio antidemocratico, al quale si aggiunge un altro aspetto non sufficientemente evidenziato: essa non porta ad alcuna decisione. Il populismo, infatti, non decide, e non decide per sua natura.
In Italia, in questa cosiddetta Seconda Repubblica, abbiamo complessivamente registrato le peggiori performances di governo che si siano avute nella storia del Paese. Nonostante esecutivi fortissimi, capi di governo scelti dal popolo, sindaci che dispongono di solide maggioranze, non abbiamo mai avuto nessuna riforma. Questo è un apparente paradosso.
Ricordo che nel 1978, l’anno drammatico dell’uccisione di Aldo Moro, l’apice di quello che è stato considerato il male della Prima Repubblica era il consociativismo. Ebbene, proprio in quel periodo fu emanata la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, la legge 180 che prese il nome di Franco Basaglia e che portò alla chiusura dei manicomi, la riforma sanitaria. Tre riforme che hanno inciso profondamente sulla struttura del Paese e sulla vita di milioni di italiani.
In questi ultimi quindici anni di democrazia diretta, con il capo eletto dal popolo attraverso maggioranze plebiscitarie, non è stata realizzata neanche una sola riforma, nonostante gli sforzi del centrosinistra, che pure quando era al governo qualcosa di importante ha fatto.
Perché succede questo? Perché il populismo, basato sul sondaggio quotidiano, è un meccanismo attraverso il quale non si decide. Con il sondaggio quotidiano ci si limita a galleggiare e fare propaganda. Le riforme, invece, richiedono processi sociali, costruzione del consenso. Esse toccano determinati interessi che comportano sacrifici oggi per vantaggi domani. Senza istituzioni, partiti e partecipazione dei cittadini le riforme non si fanno.
Da questo punto di vista, emblematica è la cultura di governo dimostrata da Triva nella gestione di importanti processi di trasformazione della società. Egli governava e organizzava interessi e processi senza mai assumere le pose gladiatorie del “capo voluto dal popolo”, bensì attraverso il dialogo: dibattiti fino a notte fonda nei consigli comunali, confronto con le forze sociali, con gli imprenditori, con i sindacati, con le associazioni e i consigli di quartiere.
Un metodo, quello di Triva, che non rappresentava un pesante orpello, bensì l’unico sistema attraverso cui assumere decisioni in grado di cambiare la società.
È questo, a mio parere, un punto fondamentale, perché anche noi siamo stati influenzati da una certa cultura istituzionale, da una determinata politica del decisionismo, secondo cui bisogna semplificare, ridurre i passaggi democratici nella convinzione che il popolo debba scegliere direttamente da chi vuol essere governato. Una cultura antiparlamentare i cui effetti alla lunga si esauriscono. Infatti, se scegliessimo di misurarci su questo terreno, vi troveremmo una persona molto più capace a vincere di noi, ed è esattamente il signore che oggi governa il nostro Paese. Difficile per noi competere su questo fronte.
Dobbiamo rivendicare il fatto che veniamo da una tradizione in cui la politica democratica e il primato delle istituzioni non hanno portato alla paralisi, al consociativismo, ma hanno prodotto riforme, profonde trasformazioni della società. Così è stata governata una grande modernizzazione del Paese e questa terra rappresenta uno dei luoghi più significativi dove si è realizzata.
Inoltre, nel racconto di Giuntini e Muzzioli fa piacere ritrovare il gusto del dialogo con gli altri, in particolare con il mondo cattolico e la Democrazia cristiana. Credo che nella storia di questa regione e di questa città abbia prevalso una forte capacità di confronto e di influenza reciproca tra le diverse realtà sociali e di partito. Non è un caso che l’Emilia sia stata una delle culle più significative della sinistra democristiana, il che dimostra che questo mondo comunista era così poco dogmatico da riuscire a esercitare un’influenza sugli altri. Ma si è trattato di uno scambio: non c’è dubbio che nel riformismo emiliano si avverta ancora oggi il peso che il pensiero cattolico ha avuto, da Ermanno Gorrieri a Benigno Zaccagnini.
Un tale processo si è concretizzato perché si è sviluppata una vera interlocuzione tra chi governava questa città e questa regione e chi stava all’opposizione. Si è stabilita un’influenza culturale reciproca, oltre a un’intensa rete di relazioni umane profonde: il dialogo non è stato solamente un esercizio.
Tutto questo rientrava in una visione della politica in cui certo il partito e il suo rapporto con l’amministrazione era importante, ma non esclusivo, anzi. Parliamo di un’idea di partito che sentiamo ormai tramontata e che non è più proponibile. Tuttavia il rapporto con il partito non è mai entrato in conflitto con quel primato delle istituzioni che ha rappresentato un tratto molto importante della cultura politica di quella generazione di amministratori comunisti, e che certamente ha caratterizzato la vita e l’esperienza di Triva. Tant’è che nel libro si dice che egli “convocava” il segretario della Federazione per relazionargli sulle decisioni prese in giunta. Ad ogni modo, nel suo agire da amministratore Triva rispondeva ai cittadini più che al segretario del partito, col quale certo discuteva e decideva, ma rivendicando sempre la propria autonomia. Un comportamento normale, giacché il primato delle istituzioni faceva parte della linea del partito.
L’idea di un primato delle istituzioni era un tratto della cultura democratica del comunismo, non il segno di un’eresia. È evidente, poi, che in questa regione tale aspetto assumesse un significato particolare, perché qui il nostro ruolo di governo non avrebbe potuto reggere dentro una visione dogmatica.
Quest’idea che la politica del Partito Comunista si realizzasse dentro la democrazia progressiva apparteneva alla cultura dei comunisti italiani, altrimenti non si comprenderebbe come quel partito sia stato in grado di produrre e mettere in campo una classe dirigente in possesso di una cultura di governo così forte e convincente. Da questo punto di vista il comunismo italiano non è mai stato eretico, nel senso che ha sempre avuto un rapporto con la realtà e con le persone intenso e capillare.
Per un partito governare è fondamentale. I partiti esistono con questo scopo: governare. Nella sinistra, invece, ha albergato una cultura minoritaria portatrice di un’ottica secondo cui voler andare al governo ha sempre suscitato sospetti. Un partito invece nasce per andare al governo e governare.
Ebbene, in Emilia Romagna questo compito è stato svolto con una continuità straordinaria e questa adesione alla realtà è stata una vaccinazione impagabile rispetto ai rischi del dogmatismo. Dogmatismo che qui non si è imposto perché era incompatibile con una visione della politica imperniata sulla realtà e che attingeva dai sentimenti delle persone. Infatti, una forza maggioritaria finisce comunque per assumere i sentimenti delle persone come parte del proprio patrimonio. È il “minoritarismo”, invece, che conduce al dogmatismo.
Infine, un’osservazione sul rapporto dei dirigenti e degli amministratori emiliani con il PCI nazionale, trattato nel libro. L’Emilia ha avuto un rapporto intelligente con Roma, basato in definitiva su questo patto: noi emiliani vi diamo il sostegno fondamentale, voi ci lasciate fare quello che vogliamo.
È sempre stato, in realtà, un rapporto tra potenze, contrassegnato da un grande rispetto verso il gruppo dirigente nazionale, a patto però che l’autogoverno emiliano non fosse messo in discussione. E gli emiliani, a mio parere, avevano pochissima voglia di spostarsi a Roma, fatto non irrilevante. Erano riluttanti sia perché in questa terra si vive bene, sia perché a livello locale erano educati a dirigere, mentre a Roma il contesto sarebbe stato inevitabilmente diverso.
In un partito che è stato a lungo, nei suoi gruppi dirigenti, principalmente aristocratico, gli emiliani rappresentavano la borghesia produttiva, il Terzo Stato, dotato di una scarsa propensione rispetto ai modi di essere del gruppo dirigente, formato da persone originarie del Regno di Sardegna. Dopo settant’anni, il primo segretario del partito che non venisse dal Regno di Sardegna sono stato io. Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Alessandro Natta, Enrico Berlinguer e Achille Occhetto provenivano tutti da Torino, dalla Liguria o dalla Sardegna. Non solo non venivano dall’Emilia, ma da nessun’altra parte d’Italia se non dai territori dell’ex Regno di Sardegna.
Quindi era un gruppo dirigente che aveva i suoi riti, ai quali gli emiliani, gente che non aveva trasporto per quei modi di essere, mal si adattavano. D’altro canto Togliatti, citando Karl Von Clausewitz, una volta disse una frase che per gli emiliani era totalmente preclusiva: «Un ufficiale per poter diventare davvero il capo di Stato maggiore deve essere pigro, perché un ufficiale zelante può essere al massimo un buon collaboratore». Voi capite come questa visione difficilmente fosse compatibile con il modo di concepire la politica da parte dei quadri emiliani del nostro partito. Nel bene e nel male questa è stata una parte della nostra tradizione.
Leggiamo con ammirazione, a volte anche con rimpianto – perché non dirlo – libri come questo, che ci fanno rivivere un tempo in cui, com’è scritto nella prefazione, l’interesse più alto al quale un uomo potesse dedicarsi nella sua vita era la politica. Un tempo in cui la politica aveva un ruolo fondamentale in un’epoca di grandi trasformazioni. Anni terribili, ma anche meravigliosi dal punto di vista dell’esperienza umana. È un libro istruttivo, che si legge con qualche nostalgia.
Per concludere, credo che sarebbe sbagliato non vedere come il modello emiliano sia costretto oggi a confrontarsi con nuove e difficili sfide: l’invecchiamento della popolazione, l’immigrazione, certamente diversa da quella meridionale di allora, la competizione sui nuovi mercati per il sistema delle imprese della regione.
Le risposte concrete alle sfide di oggi non sono già tutte dentro la nostra storia, ma la vicenda politica e umana di un personaggio come Triva contiene indubbiamente un’indicazione molto forte su come dobbiamo affrontare le difficoltà. Il coraggio di assumere decisioni innovative, la capacità di rompere gli schemi, con una forte fedeltà a un ideale politico, inteso non come una struttura burocratica, ma come un insieme di valori cui legare la propria vita, rappresentano una guida sicura anche per vincere le prove di oggi. Per noi, che siamo stati partecipi di questa epoca storica, e soprattutto per le nuove generazioni.

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