Discorso
28 ottobre 2010

Un'Europa cristiana? - Intervento di Massimo D'Alema<br>

Roma, Sala San Pio X, Via della Conciliazione. Mons. Rino Fisichella e Massimo D’Alema discutono delle radici cristiane dell'Europa a partire dalla rivista Italianieuropei


Ringrazio le autorità, gli amici della fondazione Elea e dell’IDI che hanno voluto promuovere questo incontro. Ringrazio soprattutto mons. Fisichella che, con grande impegno, con dottrina e con passione intellettuale, “si è cimentato con le provocazioni” contenute nella rivista, come lui stesso ha detto. Tuttavia, ciò che abbiamo scritto in questo numero di Italianieuropei è stata anche una provocazione verso il nostro mondo. Lasciate che io colga l’occasione per ringraziare tutti gli autori che vi hanno concorso, tra i quali, senza dubbio, vi sono alcune personalità importanti del mondo culturale italiano.
Vorrei riprendere il filo del dialogo con mons. Fisichella e approfondire le ragioni che ci hanno spinto ad affrontare un tema così impegnativo, così delicato, come quello dell’”Europa cristiana”. Noi – mi riferisco alla Fondazione che ho l’onore di presiedere – in verità non siamo mai stati schierati da quella parte laicista che pretende di costruire l’Europa prescindendo dalla fede religiosa. Ricordo, in proposito, l’impegno del professor Giuliano Amato, che è condirettore della rivista e con il quale condivido questa impresa culturale che dura ormai da dodici anni. Nella sua veste di vicepresidente della Convenzione europea che discusse il testo costituzionale, egli si schierò a favore della ricerca di un compromesso che consentisse, al di là delle fierissime opposizioni, di riferirsi ai valori religiosi fondativi dell’Europa nel preambolo della Costituzione.
Da questo punto di vista, rivendico quindi un tentativo che non fu mio, ma che certamente condivido e che comunque appartiene alla storia del gruppo di uomini politici e di intellettuali che ha dato vita alla Fondazione e alla rivista.
Nell’impostazione di questo numero, tuttavia, non siamo partiti da un interrogativo sulla fede. Siamo partiti da un interrogativo sull’Europa, scaturito da un profondo senso di preoccupazione per il futuro del nostro continente. Quale sarà il destino degli europei? In quale modo gli europei riusciranno a dare ancora un’impronta a un mondo che cambia tumultuosamente, che ridefinisce i suoi rapporti di forza, e che vede emergere e riemergere come protagonisti popoli, civiltà, culture?
Il rischio è quello di una marginalità dell’Europa, e si tratta di un timore che non deve essere inteso in senso egoistico, eurocentrico. Che cosa, infatti, può comportare una marginalità dell’Europa se non anche una marginalità dei nostri valori e della nostra società civile, quei valori “europei” che sono ormai un patrimonio universale?
Occorre capire come l’Europa intenda ripensare la sua missione in un’epoca in cui non saremo più la parte economicamente predominante nel mondo.
Oggi l’Europa rappresenta circa un quarto della ricchezza mondiale e, secondo le previsioni degli economisti, nel giro dei prossimi trent’anni ¬– allora mio figlio sarà più giovane di quanto non lo sia io oggi – rappresenterà poco più del 6%. Non è un cambiamento solo quantitativo. È un mutamento che ridefinisce l’intero equilibrio mondiale.
Come reagisce il nostro continente a questa grande trasformazione, che la crisi economica ha certamente accelerato? Per capirlo basta vedere, all’indomani di questa crisi, con quanta fatica l’Europa riprende il cammino e con quanta rapidità altri continenti si sono rimessi in corsa. Percorrendo le strade di Shanghai o di San Paolo del Brasile, la prima cosa che balza agli occhi è la grande quantità dei giovani che si incontrano. L’età media della popolazione, infatti, è di 10-15 anni inferiore a quella europea.
Si tratta di Paesi giovani che guardano con attese positive verso il futuro, mentre il vecchio continente appare ripiegato su stesso, impaurito, incalzato dalla competitività degli altri. Un’Europa spaventata per la minaccia di un terrorismo che si volge contro l’Occidente e che vede in essa uno dei suoi obiettivi. Un’Europa incapace di governare lo straordinario processo di immigrazione che, oltre a porre molti problemi, è una risorsa straordinaria, nel senso che contribuisce ad un continente più giovane.
Nel nostro Paese gli immigrati rappresentano oramai più di un decimo della ricchezza nazionale, e ciò pone anche un’enorme sfida di natura culturale, civile, antropologica. É un grande processo che dovrebbe essere governato, e non esorcizzato o temuto.
A questo aggiungo l’approfondirsi di contrasti sociali, di diseguaglianze. Una società diseguale è sempre una società più incattivita, nella quale si spezzano legami comunitari, emergono spinte di natura corporativa e localistica, tornano in campo nazionalismi, intesi come presenza delle tradizioni civili e culturali che sono sì un valore positivo, ma non quando tendono a contrapporsi tra loro, perché allora diventano un elemento drammatico di lacerazione.
Ebbene, questa Europa rischia di perdere se stessa, di smarrire i suoi valori di libertà, di tolleranza, quell’umanesimo che ha fatto di essa una “potenza gentile”. Nel rapporto con gli Stati Uniti, infatti, è stato scritto che questi ultimi rappresentano Marte e l’Europa Venere. E, in fondo, i momenti migliori di questo dopoguerra si sono avuti quando la potenza americana e il soft power europeo hanno saputo combinarsi insieme in una collaborazione positiva per affrontare le contraddizioni e ridurre il rischio di conflitti.
Se l’Europa, però, perde i suoi valori, perde la sua forza maggiore, quella che nessuna competizione economica può spazzare via o ridurre. Allora è evidente che se vogliamo ritrovare una missione, occorre nutrire il nostro continente di una rinnovata speranza.
Questa è la parola chiave: è la speranza che alimenta aspettative positive, che mette in movimento energie. Ma è difficile pensare – e da qui abbiamo preso le mosse – che questa rinnovata speranza possa agire come stimolo per una nuova stagione senza il concorso della fede religiosa, senza la presenza cristiana nella vita pubblica, nella vita politica, nel progetto culturale europeo. E abbiamo avvertito – lo dico anzitutto per me –, da un punto di vista laico, che una stagione di timore era finita e bisognava lasciarsela alle spalle.
Mi riferisco alle illusioni che generò, a partire dall’89, il fallimento del comunismo come tentativo di unire il mondo, cui è seguito il fallimento dell’ultima ideologia del ‘900, secondo la quale bastava il mercato a unificare il mondo. Questi fallimenti si sono accompagnati a una rinascita religiosa, e non solo nel mondo cristiano. Una revanche de Dieu, come è stato detto.
Di fronte ad essa, nel mondo laico vi è stata la paura che tale processo si volgesse contro la modernità e rimettesse in discussione quei valori di tolleranza e quei principi di libertà che ne hanno costituito il patrimonio positivo. E a questo si è affiancata anche la preoccupazione che i fondamentalismi religiosi aprissero nuovi scenari di conflitti di civiltà.
Ora, è pur vero che la radice dell’Europa sta nella rivoluzione cristiana che dà un fondamento all’idea di eguaglianza tra le persone e quindi è la premessa della democrazia. Ma è anche vero che, se questa è la radice culturale dell’Europa, la costruzione politica europea nasce dall’affermarsi del valore della tolleranza, all’indomani delle guerre religiose. Il timore che il ritorno in campo di quello che è apparso come un rischio di integralismo religioso spazzasse via questo principio ha certamente costituito la ragione comprensibile di una preoccupazione laicista nei confronti della revanche de Dieu.
Nel pieno della globalizzazione neoliberale è stata molto importante ¬– parlo da uomo di sinistra – la suggestione del papato di Giovanni Paolo II, la sua capacità di tenere in campo i valori umani. E, rispetto a quella straordinaria esperienza, sul piano culturale colpisce l’impegno di papa Benedetto XVI, in particolare nel ridefinire in modo così chiaro e intellettualmente stringente il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, nello sgombrare il campo da ogni timore che la rinascita religiosa si volga contro la modernità.
Questo rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno appare incentrato nella relazione tra la fede, la speranza e la ragione. La fede intesa come portatrice di speranza e la ragione come scienza e storia. Una relazione che papa Ratzinger non percepisce come sfida della modernità alle religioni, ma che egli propone come un’alleanza e un’integrazione storicamente necessarie per affrontare le prove della interdipendenza, della globalizzazione, nella misura in cui esse minacciano l’uomo nella sua potenziale infinita libertà.
Non è un rapporto scontato, quello tra fede e ragione, ma comporta un’opera di decostruzione e ricostruzione intellettuale, nella quale il pontefice si era impegnato già come studioso e come cardinale. Il testo che, da un punto di vista laico, ancora colpisce di più resta proprio il confronto con Jürgen Habermas, che delinea una prospettiva che va oltre il dialogo. E, mi permetterei di dire, va anche oltre quel reciproco riconoscimento di valori che ne è la condizione. Perché il dialogo, alla fine, rischia di ridursi alla mera ricerca di un compromesso, il che è ciò che si rende necessario sul terreno della politica e quando si tratta di regolare le vicende umane attraverso lo strumento della legge. Ma sul piano culturale occorre andare oltre.
Il dialogo tra fede e ragione ci appare come un vero e proprio metodo per il ritrovamento di se stessi, come qualcosa che arricchisce da una parte e dall’altra. Da un lato, naturalmente, ciò comporta un riconoscimento più ampio della libertà religiosa, nel senso di quanto possa essere positiva e auspicabile la partecipazione dei credenti e della Chiesa al discorso pubblico. E ciò è ben lungi da ogni concezione della privatizzazione della fede, che è estranea alla civiltà europea e particolarmente estranea alla tradizione del nostro Paese. Dall’altro lato, però, la Chiesa è chiamata a una pubblica e oggettiva traduzione razionale dei suoi valori e a definire i suoi rapporti con la politica. Compito tanto più complesso nella vicenda italiana, dove per molti anni – e non vi appaia un paradosso, ma è la storia che abbiamo vissuto –, il presidio più sicuro della laicità della politica è stato proprio il partito dei cattolici. Una questione è diventata molto più problematica di recente, nel tempo che stiamo vivendo.
È bene definire, nell’edificazione della civitas, i rapporti della Chiesa con la politica, cosa più complicata che non stabilirne i confini. Come ha scritto papa Benedetto XVI , se è vero che è compito della politica individuare il giusto ordine della società e dello Stato, tuttavia è anche vero che, sebbene la Chiesa non possa e non debba sostituirsi allo Stato, essa non può neppure restare ai margini della tensione ideale verso la giustizia. Tutto questo configura un rapporto più complesso di una pura e semplice separazione. Comporta una dialettica, una visione condivisa del bene comune, che, naturalmente, mette al centro il tema della giustizia, riconoscendo che essa non è assorbita dalla carità. E lasciatemi dire, senza polemiche, che non basta essere compassionevoli, come certi conservatori. La fede non può surrogare la ragione e la carità non assorbe la giustizia.
Questo è, secondo me, un magistero di grande importanza, appunto perché chiarisce, anche rispetto ai timori dei laici, il tema del rapporto tra Chiesa cattolica e modernità, tra fede e ragione. Credo che questo sia il punto di partenza per quella che è stata definita una concezione inclusiva della laicità. Anche le parole hanno un loro peso. Il problema, infatti, non concerne il rapporto tra laici e cattolici, ma riguarda una laicità che non si oppone alla fede religiosa, ma la comprende in quanto valore costitutivo del bene comune.
Semmai, dentro questa visione condivisa del bene comune – che si nutre anche della forza del messaggio cristiano – il vero problema è quello del dialogo tra credenti e non credenti, non tra laici e cattolici. Il problema è sia quello del riconoscimento da parte dei non credenti che la fede religiosa è un lievito essenziale per una società più giusta e per una comunità autenticamente umana, sia del riconoscimento da parte dei credenti che non c’è un monopolio dell’etica, ma che ragioni integralmente umane possono fondare un impegno personale, civile, politico, coerente con i principi etici. Dunque una visione inclusiva della laicità.
Una laicità che non si contrappone alla fede, che non pretende di privatizzarla o di cancellarne i simboli in nome di un multiculturalismo improntato all’indifferenza. Certamente oggi viviamo in una società multiculturale e multireligiosa, il che comporta lo sforzo del dialogo, ma questo non deve portare alla rinuncia rispetto all’impegno di individuare un nucleo di valori condivisi che regga la comunità, altrimenti questa molteplicità diventa frammentazione e conflitto. Il che, anche dal punto di vista dei non credenti, sarebbe un dramma che porterebbe a una forte disgregazione.
Mons. Fisichella ha insistito molto sull’ispirazione della legge. Ecco, io credo che prima della legge e persino più della legge, l’attenzione debba essere volta alla ricchezza, allo spessore del discorso pubblico.
Tutto questo, a mio giudizio, aiuterebbe anche a individuare i limiti della legge. Il rispetto verso la vita, verso la persona e la sua dignità, comporta anche la consapevolezza che non tutto può essere normato dalla legge, che c’è una sfera della libertà, della responsabilità, dove ciò che conta è l’etica condivisa, il tessuto dei valori e delle relazioni che unisce una comunità.
Lo dico perché questo, secondo me, potrebbe aiutare a sgombrare il campo da conflitti che nascono dall’equivoco o dall’illusione – questa, davvero, illuminista – che la legge formi l’etica. Non lo credo. Credo, al contrario, che l’indifferentismo etico, la caduta dei valori possano convivere con il formale rispetto dei sentimenti religiosi.
La caduta dei valori in Europa non nasce dalla violenza di un sentimento anticristiano, ma da una indifferenza che convive con il rispetto formale della religione e del suo primato nella società. Il che, a mio giudizio, pone anche alla Chiesa qualche problema un po’ più complicato che non sfidare il laicismo “vecchia maniera” di chi vuole togliere i crocifissi dagli edifici pubblici e di chi non vuole considerare la fede cristiana tra le radici dell’Europa.
Ora, se è vero che l’Europa ha bisogno in modo vitale, in questo momento, dell’apporto cristiano per restituire forza ai suoi valori, al suo progetto e ha bisogno di quel cristianesimo, portatore di una carica di universalità, che annuncia la liberazione dell’uomo, non ha invece bisogno di quei laici che usano il cristianesimo come ideologia dell’Occidente. Ciò sarebbe una tragedia per l’Europa e costituirebbe un tradimento della universalità del messaggio di liberazione dell’uomo contenuto nell’annuncio cristiano.
L’Europa, quindi, ha bisogno della Chiesa. Una Chiesa universale che aiuti a compiere ciò che le ideologie antireligiose del ‘900 non hanno saputo realizzare, cioè quella unificazione del genere umano che è condizione perché la globalizzazione economica non porti con sé ingiustizie e conflitti.
Penso che il nostro Paese ne abbia ancora più bisogno di altri.
Ho letto i documenti più recenti con i quali i vescovi italiani hanno affrontato con impegno alcuni dei problemi sociali più drammatici del nostro Paese, documenti che rappresentano un contributo molto importante e per molti aspetti illuminante. A proposito del nostro Paese, lasciatemi esprimere il senso di una profonda, direi quasi angosciosa preoccupazione.
Infatti, di questa crisi europea l’Italia è, a mio giudizio, uno dei Paesi più profondamente investiti, perché nel processo di unificazione politica del continente noi italiani abbiamo trovato qualcosa che ci ha aiutato a surrogare la debolezza della nostra coesione nazionale. Dunque, la crisi del processo europeo lascia questo Paese particolarmente smarrito e diviso, fino a mettere in discussione le ragioni stesse della sua unità, con un Nord ricco che sente il Sud come un peso e un Mezzogiorno che riscopre persino l’epica borbonica della rivolta contro l’occupazione piemontese.
Insomma, si rimettono in discussione i capisaldi di una storia nazionale condivisa e accanto a un senso di smarrimento c’è anche un involgarimento del discorso pubblico. Permettetemi di dire esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi! Io vorrei invece dire: «Ingeritevi! Se non ora, quando?»
Questo Paese ha avuto dal contributo dei cattolici un apporto straordinario alla costruzione della democrazia, all’allargamento delle basi di consenso dello Stato democratico. E sono profondamente convinto che, pur senza ritornare al mito, a mio parere tramontato la fine della guerra Fredda, dell’unità politica dei cattolici, sono profondamente convinto che sia possibile trovare un equilibrio tra pluralismo delle scelte politiche e l’unità dei cattolici sul piano ecclesiale, come componente fondamentale della coesione del Paese.
Mai come in questo momento è necessario tornare a lavorare insieme alla ricostruzione di uno spirito civico, di un nesso forte fra politica ed etica, e – aggiungerei più in generale – tra lavoro, vita personale ed etica.
D’altra parte la crisi mondiale ci ha mostrato quanto l’economia abbia bisogno di essere eticamente istituzionalizzata per non volgersi contro le ragioni dell’uomo. E davvero si può pensare che questo nesso tra etica e politica, tra professione ed etica, tra impresa, economia ed etica, possa essere ricostruito così fortemente senza un discorso pubblico che veda la presenza dei cattolici italiani? Non lo credo, sarebbe un’illusione.
E qui vorrei rassicurare mons. Fisichella sul fatto che la volontà di riaprire questo discorso non è ispirata dalla ricerca di voti, da motivazioni elettorali. Viceversa, siamo stati ispirati da una vivissima e condivisa preoccupazione per l’avvenire dell’Europa e del nostro Paese, dalla necessità di un sussulto nello spirito civico degli italiani, che dovrebbe tradursi in una comune assunzione di responsabilità. In un momento così difficile ciò sarebbe naturale in un Paese civile dove ci fosse un senso condiviso del bene comune. Intendo, dunque, una comune assunzione di responsabilità.
Ecco, anche per questa Italia sentiamo il bisogno di un incontro tra la ragione, le ragioni della politica e l’apporto prezioso della fede religiosa.
Grazie.

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