Discorso
15 novembre 2010

INTERNAZIONALE SOCIALISTA - INTERVENTO DI MASSIMO D'ALEMA <br>(VERSIONE ITALIANA)

Parigi, sede Osce


Cari amici e compagni,
la crisi economica, malgrado molta propaganda che viene fatta dai governi europei, non è finita e i suoi effetti sociali continuano a pesare gravemente soprattutto sugli strati sociali più deboli e in particolare in Europa. Le prospettive europee sono di una crescita molto bassa e di un livello di disoccupazione che rimane assai pesante. Se a settembre dell’anno scorso, nel vivo della crisi, il tasso di disoccupazione nell’Unione era del 9.3, oggi è del 9,6. Di fronte alla crisi finanziaria si è detto con solennità che tutto doveva essere cambiato. In realtà molto poco è stato cambiato.
La verità è che le politiche neoliberiste e monetariste che sono state all’origine di questa drammatica crisi globale esercitano ancora la loro influenza. Il pericolo che stiamo correndo è che dopo avere fatto pagare allo Stato – e dunque ai contribuenti – i costi delle scelte dissennate dei decenni passati, ritorni l’illusione che si possa ripristinare il sistema precedente, con gli stessi meccanismi economico-finanziari e la medesima mancanza di regole e controlli.
Bisogna dire chiaramente, cari amici, che non vi può essere un profondo cambiamento politico senza un’azione forte e determinata. E devo dire sinceramente che non mi pare che la nostra iniziativa sia all’altezza di questa sfida, e non parlo dell’iniziativa del singolo partito nazionale nel suo Paese, parlo della nostra iniziativa a livello internazionale e globale. Non è all’altezza nel nostro continente europeo dove non emerge agli occhi dell’opinione pubblica un’alternativa forte alla politica conservatrice dei tagli alla spesa sociale e dell’assenza di una strategia europea di sviluppo. Ma non lo è neppure su scala mondiale, che è la dimensione decisiva. E’ su questo punto che noi dovremmo coraggiosamente concentrare i nostri sforzi. Ecco dunque l’importanza di questo Consiglio di Parigi dell’Internazionale socialista, ma ecco anche, credo, la necessità di rivolgere un messaggio da qui a tutte le forze progressiste e democratiche, al di là della nostra famiglia politica. Mi riferisco anzitutto ai democratici americani e ai compagni del Partito dei lavoratori del Brasile e agli amici del Partito del Congresso indiano, e a tutti gli altri presenti nel mondo, i progressisti e democratici insieme ai quali occorre lavorare se si vuole imporre il cambiamento necessario.

Permettetemi, a questo punto, una riflessione sull’Europa, che rappresenta un chiaro paradosso. Proprio quando la struttura e le capacità dell’Unione europea risultano essere più che mai attuali e necessarie a livello globale, l’Europa è come se volesse ritornare al proprio passato, fatto di Stati nazione. Ma attenzione: se fosse così il nostro continente sarebbe condannato a una inesorabile marginalità. Invece noi progressisti europei dobbiamo con decisione essere protagonisti del rilancio del processo di integrazione, promuovendo il rafforzamento delle istituzioni politiche ed economiche europee.
E’ necessario affermare con forza che, senza una strategia europea per la crescita e l’occupazione, persino il mercato comune e la moneta unica, che sono state le grandi conquiste dell’Europa, non potranno resistere.
La nuova sfida che dobbiamo affrontare è la costruzione di una nuova architettura internazionale che riduca la asimmetria tra una economia globalizzata e l’inadeguatezza dei vecchi Stati nazionali e che allo stesso tempo garantisca il dispiegarsi di una globalizzazione giusta. Dobbiamo sostenere il principio secondo il quale la politica e le istituzioni democratiche devono orientare e regolare l’economia, poiché questo è l’unico modo in cui sviluppo capitalistico e giustizia sociale possono essere riconciliati.
Una regolamentazione che funzioni deve essere veramente internazionale. Le agenzie di regolamentazione devono operare sotto il controllo di istituzioni di governance globale che siano responsabili di fronte ai governi e dunque di fronte ai cittadini.
Credo che dobbiamo dire con chiarezza che il problema della regolazione non è un problema tecnico; ma è innanzitutto un fondamentale problema di democrazia. La finanza globale si è venuta costituendo come un potere che condiziona la vita dei cittadini e che è sottratto ad ogni controllo democratico. La crisi è quindi anche l’effetto di questo vuoto di democrazia e noi stessi fatichiamo a trovare una risposta che, per essere efficace, deve andare oltre la dimensione dello stato nazionale. Accanto alla questione della democrazia è fondamentale per noi progressisti affrontare il tema della disuguaglianza. Non solo tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma anche all’interno delle società più ricche. L’esempio più chiaro di questo fenomeno è l’Europa, dove il prevalere della destra e della finanza mondiale ha favorito la crescita di diseguaglianze intollerabili, dove i redditi da lavoro sono rimasti sostanzialmente fermi, mentre sono cresciuti quelli da capitale.
La ricchezza globale è cresciuta, ma la sua distribuzione è stata diseguale. Ciò ha provocato l’impoverimento delle classi medie e dei lavoratori e, di conseguenza, il blocco dei consumi.
E’ questa una delle ragioni più profonde della crisi: la diseguaglianza sociale non è soltanto un problema di giustizia, ma anche un problema economico, e non vi sarà crescita senza una maggiore uguaglianza sociale.
In questo quadro torna prepotentemente d’attualità il problema del lavoro. La crisi ci ha portato a una situazione nella quale ci sono 110 milioni di disoccupati. Se si vorrà dare una risposta al bisogno di lavoro delle nuove generazioni, nei prossimi dieci anni si dovranno creare 440 milioni di nuovi posti di lavoro. Sebbene l’Organizzazione internazionale per il lavoro abbia detto che per affrontare questa sfida occorre un “patto globale per l’occupazione”, oggi questo tema non è al centro del dibattito su come uscire dalla crisi.
Tra le misure su cui dobbiamo puntare vi è anzitutto l’introduzione di un sistema fiscale più equo. Non vogliamo più tasse – spesso la sinistra viene accusata di questo – ma un sistema di tassazione orientato a favore della creazione di lavoro: tassare meno il lavoro e dunque detassare le imprese che lo creano. In questa direzione andrebbero anche la financial transaction tax e la carbon tax, che avrebbero come effetto: la riduzione dello squilibrio tra redditi da capitale e redditi da lavoro, il rilancio della crescita e uno sviluppo ambientalmente sostenibile.
Non può esservi, infine, una nuova fase di crescita senza rilanciare politiche per l’innovazione, la ricerca scientifica e le nuove tecnologie, l’istruzione. Lo sviluppo degli anni passati è stato sostenuto soprattutto dal basso costo del lavoro e dallo sfruttamento nelle economie emergenti. Tutto ciò diventa sempre più intollerabile e uno sviluppo più umano e più giusto può venire solo da una economia basata sull’innovazione e sulla conoscenza.
Insomma, da molto tempo non coltiviamo più l’illusione di un crollo del capitalismo, né abbiamo pensato che la crisi attuale segnasse la fine della globalizzazione. Tuttavia i progressi che si sono compiuti nel secolo scorso sono nati dalla capacità dei socialisti di correggere sostanzialmente gli effetti dello sviluppo capitalistico. Io credo che anche oggi siamo di fronte, su scala globale, alla stessa esigenza. Senza democrazia, senza politiche di robusta riduzione delle diseguaglianze, senza grandi investimenti nel senso dell’innovazione e delle nuove tecnologie non ci potrà essere una nuova crescita, ma soprattutto non vi sarà una società più giusta e una globalizzazione che metta al centro gli esseri umani e i loro diritti.
Grazie.

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