Intervista
30 dicembre 2010

NON CONSENTIREMO IL SILENZIO DEL PREMIER SUL SEGRETO DI STATO

Intervista di Giovanni Maria Bellu - L'Unità


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Questa lunga intervista con Massimo D'Alema si svolge nella sede della Fondazione Italianieuropei al primo piano di un Palazzo nobiliare in piazza Farnese. Sulla scrivania del presidente del Copasir ci sono i quotidiani, sul computer scorrono le agenzie ed è appena giunta la notizia delle bombe-carta davanti -alla sede della Lega a Gemonio. E così è inevitabile cominciare da questo clima teso, dal fango, dall'imbarbarimento della lotta politica. Da quella che appare una nuova forma della mai dimenticata "strategia della tensione". D'Alema si dice "preoccupato" da queste vicende («I violenti vanno subito isolati», dice), ma esclude che sia in atto qualcosa di simile a quanto il Paese conobbe negli anni Settanta: non ha dubbi sulla «fedeltà e affidabilità» dei nostri apparati. Ne ha invece molti, anche da questo punto di vista, su Silvio Berlusconi. Non per un pregiudizio. Il premier, benché più volte convocato, non si è mai presentato al comitato parlamentare che ha il compito di vigilare sulla nostra intelligence. «Eppure - si rammarica D'Alema - la legge prevede che il capo del governo debba rispondere al Copasir per tutte le questioni, che sono moltissime, di sua esclusiva
competenza come responsabile della sicurezza del Paese. Eppure l'abbiamo convocato, con decisione unanime, ben quattro volte. Un comportamento del genere, in un paese normale, susciterebbe delle reazioni ... »

Cosa vorrebbe domandargli?

«Delle volte che ha opposto il segreto di Stato. È quel tipo di segreto che il capo del governo, e lui solo, può opporre alla magistratura. Naturalmente non sono contrario quando ciò viene fatto nell'interesse dell'Italia. Ma l'abuso è inaccettabile».

Di quali casi di opposizione del segreto di Stato vorrebbe chiedere a Berlusconi?

«Intanto del caso Telecom. Secondo i magistrati, un'associazione per delinquere ha utilizzato il servizio telefonico allo scopo di costruire dossier su molte persone, non sappiamo quante e quali, ma molte. Un'associazione dove erano presenti il capo della sicurezza della Telecom; un'agenzia privata e il vicecapo dei servizi segreti. Ecco, su questa vicenda Berlusconi ha opposto il segreto di Stato. Inoltre sappiamo che la polizia entrò nel famoso ufficio di Pio Pompa in via Nazionale, a Roma, e trovò vari dossier su magistrati, politici e giornalisti. Materiale che, secondo gli stessi Servizi, non era attinente all'ordinaria attività di intelligence. Quando i giudici gli hanno chiesto se quel materiale fosse relativo ad attività istituzionali, e in tal caso da chi fossero state richieste, Pio Pompa ha opposto il segreto di Stato e il capo del governo l'ha confermato. Ancora una volta: perché? Ma Berlusconi non viene. È un atteggiamento che rivela una concezione inaccettabile, sprezzante, del rapporto tra governo e Parlamento».


Non potete fare nulla?

«Abbiamo gli strumenti della politica e delle istituzioni. Se Berlusconi ancora non verrà, solleverò il problema nell'aula parlamentare attraverso una mozione o una risoluzione».

Sempre nell'ambito dei misteri e dei dossier, ci sono le rivelazioni di Wikileaks. Lei ha smentito quel giudizio sulla magistratura, ma qualcuno ha osservato che lei, anche se con altre parole, quel giudizio l'aveva già espresso.

«Le mie posizioni sono molto chiare: sono a favore dell'indipendenza della magistratura e sono garantista. Non faccio parte né del partito degli imputati che vuole inceppare la giustizia, né del partito dei giudici forcaioli che ama la giustizia spettacolo e considera un avviso di garanzia come una sentenza. So che è una posizione difficile, ma mi sembra il modo giusto di guardare alla giustizia per chi guarda agli interessi dei cittadini».

L'ambasciatore Spogli si è sbagliato?

«Nel suo rapporto l'ambasciatore cita una mia presunta frase che avrebbe sentito un anno prima. È un modo un po' curioso di fare un rapporto ed è evidente che egli ha travisato o forzato il senso delle mie affermazioni, dato che quella frase non l'ho mai pronunciata».

Berlusconi l'altro ieri ha annunciato che intende governare fino alla fine della legislatura. La prospettiva di un governo tecnico si è fatta più debole?

«Non partirei dalla formula. Prima di ragionare di questo dobbiamo partire dalla situazione del Paese: un governo
non tecnico, ma "di responsabilità nazionale" non è un espediente per mandare a casa Berlusconi, è lo strumento per dare una risposta a una crisi storica qual è quella che stiamo attraversando».

Allora partiamo dalla crisi.

«Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la situazione drammatica che il Paese vive non è solo il risultato del totale fallimento di Berlusconi, di quanto è accaduto negli ultimi dieci anni: una stagnazione senza riforme, l'acuirsi delle distanze sociali, del divario tra Nord e Sud, l'aumento della corruzione e dei costi della pubblica amministrazione. Non c'è stato solo questo totale disastro. Il dramma è che questo si compie mentre l'Europa vive il declino della propria centralità. Oggi detiene il 23 per cento del Pil mondiale, ma è destinata - se guardiamo ai prossimi trent'anni - ad averne il 6-7 per cento. Insomma, siamo alla fine del privilegio dell'Occidente e all'alba di un "secolo asiatico". Ci vorrebbe uno straordinario dinamismo politico capace di mettere a frutto tutto il nostro patrimonio di civiltà e cultura. Il dramma dell'Italia è aver incontrato Berlusconi proprio in una fase come questa. Non è l'unico responsabile del declino, ma ne è certamente il simbolo e un fattore di aggravamento. Ha detto che il suo governo ha dato al Paese ''un grande prestigio internazionale", in effetti vedo che tra le dieci parole dell'anno della rivista Time c'è ''bunga bunga" ... »


Dunque, il governo di responsabilità nazionale?

«Ripeto: non è un espediente antiberlusconiano, ma è lo strumento per reagire a questa gravissima crisi. La via d'uscita non può essere un "governo di sinistra". Sarebbe bello, ma in una fase come quella che viviamo il governo deve avere una base politica sufficientemente ampia da consentirgli di fare le riforme che fino a ora non sono state fatte. Vedo che si continua a ripetere lo slogan che la sinistra sarebbe conservatrice. In realtà le uniche riforme importanti - anche in senso "liberale" - le abbiamo realizzate noi negli anni Novanta: la riforma del bilancio dello Stato per contenere la spesa pubblica, la riforma delle pensioni, lo scioglimento dell'Iri e le grandi privatizzazioni, le prime parziali liberalizzazioni. Soltanto chi è fazioso o ignorante può negare questa realtà. Berlusconi certamente non può fare le riforme perché il populismo vive di sondaggi, dunque di consenso immediato. Le riforme non danno invece frutti istantanei, anzi a volte non ne danno proprio e possono far perdere consenso».

Qual è la riforma più urgente?

«Se parliamo delle grandi riforme – e lasciamo da parte per il momento la riforma più che necessaria della legge elettorale - il nostro Paese deve assolutamente sciogliere il nodo costituzionale. Da dodici anni penso che l'alternativa sia tra un sistema semipresidenziale di tipo francese e una rinnovata democrazia parlamentare. Noi, purtroppo, abbiamo creato un sistema che ha messo assieme i peggiori difetti del presidenzialismo e i peggiori difetti del parlamentarismo, fino ad arrivare al trasformismo, alla compravendita dei deputati... E poi, oltre alla politica ci sono le grandi riforme economiche e sociali a cominciare dal mercato del lavoro, il welfare e il fisco».

E chi dovrebbe risolvere il dilemma?

«È una questione che riguarda davvero tutti, attiene alle regole fondanti. Somiglia al problema che il Paese incontrò nel dopoguerra quando dovette scegliere tra repubblica e monarchia... Ma non è ovviamente la sola questione da affrontare. Si tratta anche di fare il federalismo possibile. Dico "possibile" perché penso a una riforma che non divida il paese. Oggi la stessa parola federalismo ha perso il fascino che aveva un tempo, ha acquisito un'impronta antimeridionale».

Proprio mentre il divario tra Nord e Sud e le diseguaglianze sociali sono cresciuti, il sindacato è diviso…

«È infatti necessario un nuovo patto sociale. Ed è questa la questione che andrebbe posta a Marchionne. Un patto, infatti, non può essere scritto da una sola parte. La parte che non condivido dell'accordo di Mirafiori è appunto la pretesa politica della Fiat di escludere chi non l'ha condiviso dalla gestione dei rapporti sindacali».

Lei come voterebbe?

«È un accordo che ha il limite che dicevo: l'esclusione di chi dissente non è una buona regola. Ma prevede anche forti investimenti e garanzie occupazionali. Personalmente auspico che i lavoratori votino a favore... Ma questa complessità, ripeto, può essere affrontata solo con un nuovo patto sociale per la crescita. Sul modello di quanto facemmo negli anni Novanta riuscendo a restare agganciati all'Europa. E va ricomposta. Riscrivendo il welfare, la frattura che si è creata nel corpo sociale».

Ma tutto fa pensare che arriveranno prima le elezioni.

«Effettivamente Berlusconi il 14 dicembre, mentre non ha ottenuto il risultato di dare slancio al governo, è riuscito a togliere slancio a una proposta alternativa. Il risultato è che la prospettiva elettorale è diventata più probabile. Di certo non vedo oggi alcuna prospettiva di rilancio del governo. L'unica possibilità sarebbe l'accordo con i centristi, ma non mi pare nell'ordine delle cose».

Casini non cederà alle lusinghe?

«Gli attacchi squadristici messi in atto in questi giorni da Belpietro dimostrano che l'obiettivo è staccare Casini da Fini. La verità è che Berlusconi vuole vincere e anche umiliare. Una prospettiva degradante per una forza come l’Udc che, con maggior coraggio di Fini, si è per prima staccata da questo centrodestra. Casini, per riavvicinarsi, dovrebbe giocarsi tutta la credibilità che ha conquistato con la sua coerenza e anche rischiando di restare fuori dal Parlamento».

Ha chiamato "costituente" il governo di responsabilità nazionale. Definirebbe così anche l’alleanza elettorale?

«Sì. Credo che se dovessimo andare alle elezioni con questa legge elettorale il gioco dei tre poli determinerebbe una prospettiva incerta e pericolosa, una specie di roulette russa. Ci giocheremmo la maggioranza assoluta sapendo che chiunque vinca non l'avrà al Senato. E la formazione del governo, alla faccia di chi dice "deve decidere la gente", sarebbe affidata a trattative successive. Anche per questo ritengo che la scelta più responsabile per il paese sarebbe quella di un'ampia coalizione con obiettivi chiari».

Un'alleanza con molti reciproci imbarazzi: Vendola con Fini?

«Credo che certi imbarazzi riguardino il ceto politico. TI popolo non sarebbe imbarazzato anche perché la gente è davvero stufa della rissosità e della violenza. Se c'è una classe dirigente che sa parlare con chiarezza le cose si fanno. Anche quando sostenemmo il governo Dini alcuni dissero che era una politica avventurosa e sbagliata e che la gente non avrebbe capito. La gente capì. Erano stati loro a non aver capito niente».

Qual è oggi la missione del Pd?

«È imprimere una svolta nel senso delle riforme e del risanamento della politica. Perché dobbiamo tornare alla politica, quella vera. Una certa idea di apertura alla società civile ci ha portato i Calearo e gli Scilipoti... Se davvero pensiamo che l'Italia abbia bisogno di grandi riforme, dobbiamo rivolgerci a tutte le forze in campo chiamandole a una chiara assunzione di responsabilità. È questo il tema. A volte non capisco bene il senso di una strana discussione interna sulla vocazione del Pd. Sarebbe meglio discutere dei contenuti e della proposta politica necessari oggi per l'Italia. E forse si scoprirebbe che siamo molto più uniti di quanto diamo a vedere».

I sondaggi danno per certa la vittoria dell'alleanza più ampia e incerto l'esito delle altre due formule col Pd alleato con una sola ala dell'attuale opposizione.

«La logica dei numeri è spietata... »

Ma Vendola non sembra d'accordo.

«Con Vendola vorrei parlare anche di politica. Dico "vorrei" pérché oggi l'unico tema sembra essere quello del suo personale carisma... Non mi pare che basti, anche se è importante. Ecco, vorrei parlare con Vendola di quel che vede nel futuro del Paese. Se non ragioniamo così finiamo col cascare anche noi dentro il modo a cui ci ha abituati Berlusconi. E non abbiamo bisogno di Berlusconi di sinistra: non è pensabile passare dal "meno male che Silvio c'è" al "meno male che Nichi c'è"».

La stessa idea di regolamentare le primarie è stata letta come una manovra anti-Vendola.

«Regolamentare le primarie è indispensabile per non svuotarle di senso e mantenerle in vita. Ho già raccontato che quando negli Stati Uniti ho descritto il meccanismo delle nostre primarie sono rimasti sbalorditi, l'hanno definito "folle". Là per votare è necessario iscriversi alle liste elettorali di partito, qua la platea è del tutto casuale. Le primarie non possono diventare una forma di competizione non regolata tra i partiti. Che senso ha che si facciano le primarie con sette candidati del Partito democratico e uno di un altro partito il quale può, con un risultato esiguo dal punto di vista della rappresentanza democratica, diventare poi il candidato di tutti? È evidente che in questo modo si falsa il significato stesso delle primarie: candidare persone che ottengono un'ampia legittimazione e un consenso che vadano oltre i confini di partito. Dovremmo discutere tra di noi di queste cose, e anche con Vendola. Evitando di ridurre uno strumento così delicato e importante di partecipazione democratica ad un idolo polemico e propagandistico. O ad una clava da usare contro il Pd».

Nessuna diffidenza verso Vendola, dunque?

«Noi riteniamo che Nichi sia importante per la prospettiva del centrosinistra e indichiamo un futuro politico al quale lui può dare un contributo molto significativo. Mentre, francamente, mi pare che sia lui a parlare come se volesse costruire qualcosa che prescinde dal partito democratico. Qualche tempo fa ha detto che non gli interesse il Pd, ma gli elettori del Pd. Non mi pare onestamente un approccio positivo... credo invece che Nichi, che conosco da una vita, dovrebbe mettere a disposizione in modo non egoistico e in un processo collettivo le sue capacità e il suo carisma, di cui la sinistra ha bisogno. La forza di un leader sta anche nella sua generosità».

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