Discorso
14 gennaio 2011

Le sfide del mondo nuovo per i partiti progressisti - Relazione di <br>Massimo D'Alema alla Conferenza dei Leader parlamentari

Sala della Regina - Camera dei Deputati


Sono grato per l'invito che mi è stato rivolto ad aprire questa importante iniziativa con una relazione sul tema "Le sfide del mondo nuovo per i partiti progressisti"e saluto i molti amici che sono venuti qui da diverse parti del mondo. Non è facile, oggi, tracciare un'agenda dei progressisti su scala internazionale. Vorrei partire, comunque, dal ruolo dell'Europa, cercando di affrontare la questione introdotta da Lapo Pistelli quando ha parlato di un asymmetric disease. Muoverei da questa asimmetria e da questo paradosso, e cioè dal fatto che oggi nel nostro continente la crisi del centrosinistra europeo, il suo arretramento, sembra andare molto al di là di quella fisiologica alternanza al governo tra forze di diverso segno politico che caratterizza le democrazie europee.
Le forze di centrosinistra, in particolare i partiti socialisti, sono al governo soltanto in 6 dei 27 Paesi dell'Unione, e in nessuno dei maggiori tranne la Spagna. Esse sono state respinte all'opposizione persino in quei Paesi dell'Europa scandinava che costituiscono per molti aspetti il modello socialdemocratico di maggior successo. Dobbiamo riflettere sul fatto che questo avviene nel momento in cui la crisi internazionale sembra colpire i presupposti di una lunga stagione neoliberale e ripropone per molti aspetti l'attualità dei nostri valori, dei nostri principi, della nostra visione della società.
Vorrei aggiungere che solo 10 anni fa i socialisti erano al governo in 14 degli allora 15 Paesi dell'Unione europea e - come mi è capitato di ricordare - le riunioni del Consiglio europeo si svolgevano alla presenza del presidente e di 11 vicepresidenti dell'Internazionale Socialista... Sembravano quasi, al Consiglio europeo, una rappresentanza del socialismo internazionale.
Quanto è cambiato, da quel momento, nel corso di soli 10 anni! Forse è vero quello che il grande storico inglese Tony Judt ha scritto, poco prima di morire, nel saggio "Ill Fares the Land", ossia che il socialismo è un'idea nata nel Diciannovesimo secolo e ha avuto la sua storia nel secolo Ventesimo. Tuttavia, in quello stesso saggio, Tony Judt difende appassionatamente i nostri valori, l'esperienza socialdemocratica, sulla base di una distinzione tra socialismo e socialdemocrazia che appare invero molto sottile dal punto di vista dell'analisi storica, ma che è interessante anche sul piano culturale. Egli stesso, infatti, ci dice che il riferimento alla democrazia appare oggi come elemento non rinunciabile per una forza progressista moderna.
A quali condizioni può esserci una ripresa dei progressisti? E in quale rapporto i progressisti europei, socialisti e non socialisti, debbono porsi di fronte alle nuove esperienze progressiste, nuove e antiche, che in altre parti del mondo sembrano oggi prevalere di fronte alla crisi?
E' come se la globalizzazione avesse effetti fortemente contrastanti. Mi sono riferito più volte a quel suggestivo saggio di Dominic Moïsi sulla geopolitica delle emozioni. Egli distingue il mondo in un'area della speranza, un'area della paura e un'area del rancore e dell'umiliazione. Moïsi descrive come mondo della speranza quello dei grandi Paesi emergenti o che tornano a essere protagonisti sulla scena internazionale, visto che è difficile parlare di Cina e India come di Paesi emergenti. Si tratta, infatti, di Paesi che tornano a essere grandi attori. In questo mondo della speranza prevalgono le forze progressiste, che molto spesso non appartengono alla tradizione e alla storia socialista.
Nel mondo più sviluppato, viceversa, Moïsi individua l'area della paura, quella che teme di perdere i privilegi conquistati nei secoli passati. Ed è qui che prevalgono le spinte conservatrici e prende corpo un populismo pesantemente regressivo.
Non c'è dubbio che l'esperienza progressista in Europa ha dato un'impronta a una lunga storia passata, in particolare nel corso del Dopoguerra, rendendosi protagonista di quella che Dahrendorf chiamò "la quadratura del cerchio": la capacità di conciliare sviluppo capitalistico con la democrazia e la giustizia sociale. Un patrimonio che, oggi, è messo brutalmente in discussione da un capitalismo selvaggio senza regole.
E' stata la globalizzazione a rappresentare la grande sfida che ha aperto una crisi nel riformismo europeo, innanzitutto perché la trasformazione della società e dell'economia ha colpito le premesse stesse di quel modello, e cioè la crescita progressiva e lineare della ricchezza, la struttura sociale dei nostri Paesi basata sulla centralità dell'organizzazione fordista del lavoro, il ruolo e i poteri dello Stato nazionale.
Nello stesso tempo, l'Europa soffre del fatto che la globalizzazione sta ridimensionando il ruolo stesso del nostro continente sulla scena mondiale. Un ridimensionamento vissuto con un sentimento di paura, di ostilità verso la competizione economica che viene oggi soprattutto dall'Asia, ma anche per la difficoltà di creare un rapporto equilibrato con la crescita asiatica. Paura e ostilità nei confronti di una crescente immigrazione, che rappresenta la principale risorsa per l'Europa per poter reggere la sfida demografica, ma che, invece, è vissuta soprattutto come un pericolo, come una minaccia. Senza considerare, poi, il crescente peso di un conflitto di religione e di civiltà che sembra caratterizzare i rapporti tra l'Europa e il mondo islamico.
Si appanna quel sentimento di fiducia nel progresso e nel futuro, che è stato a lungo lo spirito degli europei e nel quale il centrosinistra e il socialismo hanno trovato alimento e forza. La paura, invece, rafforza la destra. Parliamo non di una destra tradizionalmente liberale, ma di una destra di tipo nuovo, regressiva e populista, che propone, come risposta alle incertezze del mondo globale, il riferimento alla terra e al sangue. Si tratta di un fenomeno che investe anche gli Stati Uniti. Basti vedere quali forme viene assumendo la destra americana che fa un crescente uso politico della religione.
Da noi c'è la visione di un'Europa cristiana, che appare in contrasto con la stessa universalità del messaggio cristiano e che è incline a favorire l'idea di un conflitto di civiltà. É questa visione identitaria, paurosa e ostile nei confronti della sfida della globalizzazione, che rappresenta il sostrato di una destra populista. Non c'è dubbio che essa appare più efficace, rispetto ai riformisti, nel rispondere a un bisogno di protezione e di identità che investe, in particolare, gli strati sociali più deboli e più indifesi nel mondo globalizzato.
E' evidente che nel rapporto tra socialismo e capitalismo, che ha caratterizzato la storia europea, la globalizzazione ha introdotto una rilevante e decisiva asimmetria: il capitalismo è globale, i suoi centri propulsivi e trainanti si trovano sempre più al di fuori dell'Europa, mentre il socialismo è un fenomeno esclusivamente europeo, che non ha saputo varcare i confini del nostro continente, il quale, oltretutto, perde progressivamente peso e centralità.
Credo, allora, che tra i principali problemi che noi europei abbiamo di fronte vi sia la costruzione di una risposta politica a uno sviluppo senza regole, che ha condotto a una crisi molto grave. Una risposta che vada oltre i confini storici, tradizionali, del nostro movimento, allargando, costruendo nuove convergenze e una piattaforma culturale più avanzata e moderna.
La crisi che stiamo vivendo, la grande crisi internazionale, dalla quale il mondo, in particolare quello più sviluppato, esce con maggiore fatica, non è stata un incidente di percorso lungo il cammino delle "magnifiche sorti e progressive" del capitalismo globale. In realtà, questa crisi ha rappresentato la caduta di una illusione ideologica di un mercato che, liberato dai lacci e dai condizionamenti della politica, avrebbe garantito da solo una crescita ininterrotta, una redistribuzione virtuosa delle risorse.
Sono tornate prepotentemente di attualità idee, criteri di interpretazione della realtà, visioni politiche che sembravano totalmente dimenticate, accantonate, e che per molti aspetti appartengono alla nostra tradizione. Direi che, per un certo periodo, di questo linguaggio si è appropriata anche la destra. Abbiamo vissuto una breve stagione, testimoniata da un'interessante copertina del "Times", nella quale siamo tornati tutti socialisti. Un breve periodo di ritorno al socialismo, interpretato soprattutto come possibilità di attingere alle casse dello Stato per ripianare i debiti delle grandi banche internazionali. Questo è stato l'unico elemento di socialismo che ha funzionato per alcuni mesi, perché adesso mi sembra che torni quell'illusione di poter ricostituire puramente e semplicemente il meccanismo di sviluppo entrato drammaticamente in crisi nel 2008.
Quel tipo di sviluppo, però, alimenta insostenibili disuguaglianze, non solo tra Paesi ricchi e poveri, ma anche all'interno delle nostre società. Più che mai ci sarebbe bisogno di un'azione politica globale, capace di colmare il gap tra un'economia mondializzata e una politica sostanzialmente confinata nell'ambito degli Stati nazionali.
E' il tema della democrazia che torna a essere centrale, che credo rappresenti il valore unificante di una nuova coalizione progressista internazionale. Il tema della democrazia, almeno nel mondo sviluppato, sembrava un valore comune, acquisito, così come scontata appariva la convivenza tra capitalismo e democrazia. Oggi questa questione è assai più problematica, anche perché, su scala globale, il potere dei grandi gruppi finanziari non è bilanciato da alcun potere pubblico, è un potere assoluto.
Questo è il vero problema politico della regolazione. Non si tratta di una questione tecnica. Esso pone esattamente il tema di un deficit democratico che è la caratteristica, la contraddizione più profonda del capitalismo globale nel quale noi viviamo. E il decadimento della democrazia investe anche la dimensione nazionale, perché il populismo non è separabile da quello svuotamento di poteri e di ruoli dello Stato nazionale che è caratteristica di questa epoca, in cui la politica torna a essere dominata dall'ideologia, proprio perché spesso vuota di contenuti reali e di poteri effettivamente esercitabili.
Il populismo, attraverso il controllo dei media, il peso del denaro nella competizione politica, tende ad alterare e impoverire il funzionamento dei sistemi democratici. Da questo punto di vista, non è facile ricostruire le forme di una partecipazione critica dei cittadini in grado di bilanciare il peso crescente delle leadership. Così come non è facile ristabilire una fondamentale capacità delle istituzioni pubbliche di orientare e regolare lo sviluppo verso finalità di promozione umana, di crescita civile, dopo che per anni è stata esaltata l'idea del primato dell'economia sulla politica. Un'idea, introiettata anche a sinistra, magari in modo inconsapevole, intesa nel senso della riduzione della politica a pura predicazione propagandistica, mentre il momento della decisione si è via via ridotto a momento tecnico, dominato dalle esigenze "obiettive" dell'economia.
Questo è, a mio parere, uno dei compiti fondamentali di un'agenda progressista internazionale: ristabilire il primato della politica sull'economia e rafforzare quelle istituzioni capaci di esercitare questo ruolo al di là dei confini nazionali.
La crisi ha determinato uno sconvolgimento del tessuto delle istituzioni tradizionali, ha portato a un'eclissi del G8, istituto non più rappresentativo degli equilibri e dei rapporti di forza attuali, e ha portato in campo il G20 come espressione più larga dei nuovi protagonisti. Inoltre, com'era inevitabile e giusto, ha ridimensionato il ruolo dell'Occidente.
Quando nacque il G7 a Rambouillet i Paesi che ne facevano parte erano gli azionisti di maggioranza dell'economia mondiale. Oggi non lo sono più e quindi è fisiologico che si debba far posto ad altri azionisti. Non è possibile, in questa sede, affrontare un tema che meriterebbe ben altro approfondimento. Ne abbiamo discusso lo scorso ottobre con Joseph Stiglitz a Washington, in un convegno organizzato, tra gli altri, dalla Columbia University.
Voglio però osservare che neppure il G20 risolve il problema del rapporto tra efficacia e legittimità delle istituzioni internazionali. Il grande nodo che i progressisti sono chiamati a sciogliere è quello del rinnovamento, della rivitalizzazione dell'efficacia del sistema delle Nazioni Unite, che resta, piaccia o no, l'unico sistema internazionale legittimato a dare un fondamento a una nuova governance mondiale.
G8, G20, possono essere strutture che assumono compiti operativi, ma non possono essere il luogo delle decisioni legittime e vincolanti per tutti. Porsi il tema di una democrazia che va oltre i confini nazionali, che fino a qualche tempo fa poteva sembrare utopistico ma che oggi rappresenta la sfida più attuale e impegnativa, significa per noi europei tornare a pensare all'Europa.
Anche a sinistra c'è stata una certa sfiducia verso un'Europa tecnocratica che sembrava svuotare gli Stati nazionali democratici. Oggi appare chiaro come sia l'Europa, in molti campi, a garantire la possibilità di esercitare una sovranità che è tale solo in quanto condivisa. Il progetto europeo dovrebbe diventare finalmente la premessa indispensabile di un programma progressista nel nostro continente.
Insomma, per molti anni, essere pro-europei per i progressisti è stato facoltativo. Oggi è diventato assolutamente obbligatorio. E' un terreno vero di discrimine fra conservatori e progressisti, tra l'idea di un'Europa come arena di governi nazionali (sostanzialmente l'Europa di oggi, dominata dalle forze conservatrici) e l'idea di un'Europa che abbia invece un programma di sviluppo, una strategia comune per la crescita, in grado di creare un quadro condiviso di tutela e riorganizzazione dei diritti sociali. L'Europa deve essere attrice sulla scena internazionale, nel confronto con altri continenti e con altri protagonisti, se vuole continuare ad avere un posto nel mondo.
Un altro grande tema che deve essere alla base di un programma progressista e che sembrava ormai dimenticato, travolto dagli errori della sinistra del secolo scorso, dalle esperienze di un egualitarismo livellatore, si ripropone oggi con stringente attualità in termini nuovi: il tema dell'eguaglianza.
La crisi, infatti, ha prodotto paurose diseguaglianze, effetto di uno sviluppo non regolato. Diseguaglianze che non sono soltanto un tratto di insostenibile ingiustizia, ma rappresentano una delle stesse cause scatenanti della crisi economica. Come sottolinea in modo efficace Stiglitz nel saggio "Bancarotta", la crisi, che si è manifestata come grande caduta della domanda globale, nasce innanzitutto dall'impoverimento dei lavoratori e delle classi medie. Solo in un secondo momento la speculazione finanziaria ne ha moltiplicato gli effetti, ma quella è stata la ragione originaria di fondo.
Uno degli aspetti di questa diseguaglianza crescente è lo spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Se, da un lato, la competizione dei Paesi emergenti ha contribuito a contenere i livelli dei salari allo scopo di mantenere la competitività, dall'altro lato, invece, la mobilità dei capitali ha accresciuto l'iniquità dei sistemi fiscali, diventando sempre più difficile tassare la rendita finanziaria. Ciò ha condotto allo spostamento del peso della tassazione sul lavoro e sulle imprese.
Quindi, la riduzione delle diseguaglianze non è soltanto un tema di giustizia, ma una delle condizioni per favorire una ripresa economica stabile. D'altro canto, sappiamo bene che senza una crescita dei consumi da parte dei cinesi e senza una ripresa del mercato interno europeo, difficilmente avremo una crescita stabile.
Al di là di queste considerazioni di natura economica, è giusto tornare ad affermare che la diseguaglianza rende la società più infelice. Sono un appassionato divulgatore di un bel saggio che ha avuto un grande e meritato successo, di due studiosi inglesi, Wilkinson e Pickett, "The Spirit Level. Why More Equal Societes Almost Always Do Better". Sulla base di ricerche empiriche, il testo si dimostra che il maggior divario tra ricchi e poveri produce un tasso sociale di infelicità più alto. Una maggiore diseguaglianza produce violenza, ignoranza, disagio psichico.
Se, dunque, noi vogliamo che si apra un nuovo ciclo economico che non favorisca solo la crescita del PIL, ma crei le condizioni di una migliore qualità della vita, dobbiamo cercare di ridistribuire ricchezze e opportunità. La lotta alla povertà, all'ignoranza, all'esclusione sociale, alla precarietà, alla umiliazione del lavoro devono tornare a essere una grande priorità per i progressisti.
Infatti, è proprio fra i ceti sociali più deboli che abbiamo perso terreno a favore del populismo della destra. Mi riferisco a quel mondo popolare che non si è sentito difeso, che ha pagato il prezzo più alto alla globalizzazione e che, alla fine, ha trovato nell'appello al protezionismo o all'odio contro gli immigrati l'illusione di una protezione. Non è facile affrontare questo grande tema con gli strumenti tradizionali nell'epoca del capitalismo globale.
Anche per questo è necessario favorire le nuove forme di regolazione internazionale. Infatti, mentre il lavoro e il reddito di impresa sono tassabili a livello nazionale, la rendita finanziaria la si può colpire solo a livello internazionale. Per questo parliamo di financial transaction tax, uno strumento efficace sia contro la speculazione ma anche funzionale al riequilibrio del peso della fiscalità.
Il tema dell'eguaglianza, però, non si riduce a quello, pure importante, della redistribuzione della ricchezza. Esso tocca la questione essenziale della diseguaglianza sul piano dei diritti: quella tutt'ora persistente tra uomini e donne, quella che divide cittadini europei e cittadini immigrati, quella tra le generazioni, che forse è la più drammatica di tutte almeno nelle nostre società. Infatti, mentre la generazione più anziana gode dei diritti acquisiti nell'epoca della crescita sociale ed economica, quella più giovane vive una drammatica riduzione di aspettative e di garanzie.
Il tema della qualità dello sviluppo, di una competitività che non sia fondata esclusivamente sul contenimento dei salari e sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, propone come essenziale un altro valore, che dovrebbe costituire il terzo caposaldo di un'agenda progressista: il tema della cultura, della scienza, dell'innovazione come decisivi fattore di produzione e di crescita umana.
Non si esce dalla crisi e non si apre un nuovo ciclo dello sviluppo senza investire grandi risorse sull'istruzione, sull'innovazione, nella ricerca di nuove tecnologie ecocompatibili, che siano in grado di conciliare la crescita economica con la tutela dell'ambiente. Fu questa la grande intuizione del Consiglio europeo di Lisbona, che costituì una sorta di manifesto del riformismo europeo. Tuttavia, nello scrivere quel manifesto, dimenticammo che l'Europa non aveva gli strumenti per realizzarlo, non li acquisimmo, con la conseguenza che quel programma è rimasto un libro dei sogni.
Sarebbe necessaria, dunque, una proposta politica progressista imperniata intorno a queste tre idee principali, capaci di delineare un nuovo orizzonte dopo la crisi e di proporci un'azione sul piano internazionale per regolare e correggere la globalizzazione capitalistica, che non si può fermare e di cui non si possono nascondere gli aspetti positivi. Viceversa, l'orizzonte dei progressisti sembra rimanere quello del secolo scorso nei Paesi più avanzati. Proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di correggere il capitalismo, di ridurne la portata disegualitaria e di conciliarlo con esigenze di crescita umana, emerge la debolezza e l'incertezza del nostro movimento.
Negli ultimi anni, il movimento progressista si è sostanzialmente diviso tra chi ha accettato una visione neoliberale della globalizzazione, valutandone ottimisticamente gli effetti di lungo periodo, e chi si è arroccato in una difesa di esperienze riformiste del passato, nell'illusione che la globalizzazione avrebbe potuto essere in qualche modo arrestata o condizionata, difendendo i vecchi compromessi nazionali.
Non sono tra coloro che pensano che bisogna liberarsi delle idee della cosiddetta "terza via", che sia sufficiente tornare alle idee del passato per avere un futuro luminoso. Si tratta di una visione semplicistica. La "terza via" ha avuto aspetti molto positivi di modernizzazione della cultura del riformismo europeo, tuttavia ha pagato il prezzo della subalternità a una visione neoliberale. Ma, dall'altra parte, non l'ha spuntata neppure chi si è arroccato in una visione più tradizionale.
Il movimento progressista è apparso complessivamente impreparato di fronte alla sfida del mondo globale e gli strumenti politici di cui ci siamo dotati storicamente sono apparsi inadeguati e insufficienti. É evidente che questa sfida può essere vinta soltanto da un centrosinistra nuovo dal punto di vista culturale, in grado di andare oltre i confini tradizionali del movimento socialista.
Negli Stati Uniti la parola socialismo non è utilizzabile, in molti grandi Paesi emergenti, nessuna delle forze progressiste che guidano le trasformazioni sociali si richiama alla tradizione socialista. Ad esempio, in Brasile l'antagonista di Dilma Rousseff era il capo del Partito socialdemocratico, eppure è parso evidente che la posizione progressista fosse piuttosto quella della candidata sostenuta da Lula. Se noi guardiamo all'India o all'Africa, dobbiamo misurarci con le peculiarità di forze progressiste che si sono formate in una tradizione diversa.
Sono convinto che soltanto dotandoci di nuovi strumenti che consentano a questo movimento così ricco e articolato di esprimere le proprie potenzialità, sarà possibile dare forza a un nuovo schieramento progressista mondiale.
Questo diventa, oggi più che mai, un tema di stringente attualità. Lo stesso Partito socialista europeo ha sentito il bisogno di dare vita a quel Global Progressive Forum che costituisce un luogo di confronto tra forze e personalità che non appartengono alla tradizione socialista. Nel saggio "The Power of Progress", John Podesta, presidente del Center for American Progress, che oggi è forse il più interessante think tank dei democratici americani, spiega perché per i democratici americani è necessario andare oltre la dottrina liberal, che ha essenzialmente posto l'accento sulle libertà e sui diritti dei singoli. Per Podesta, viceversa, occorre definirsi più apertamente progressisti, insistendo piuttosto sulla comunità e sui diritti sociali. Questo è interessante perché, tra le due sponde dell'Atlantico, le forze di centrosinistra appaiono oggi culturalmente molto più vicine di quanto non fossero in passato.
Ricordo le esperienze degli anni Novanta, dove, soprattutto per iniziativa di Bill Clinton e di Tony Blair, si avviò quel dialogo tra socialisti europei e democratici americani che prese la forma della global progressive governance, dialogo tra leader di governo ma con una evidente caratterizzazione politico-culturale. Ricordo anche le difficoltà di quei primi confronti.
Nel corso di una discussione a Washington, nella sede del club dei leader democratici e a margine del cinquantesimo anniversario della NATO, un autorevole esponente democratico americano ci esortò: "su questi temi - disse - dobbiamo lavorare insieme". Dalla tribuna, dove tra gli altri sedevano Tony Blair, Wim Kok e Gerhard Schroëder, qualcuno rispose: "Ma noi lavoriamo insieme nell'Internazionale Socialista!". La parola "socialista" creò in sala un turbamento difficilmente descrivibile. Con grande tatto Bill Clinton osservò: "Non bisogna avere paura delle parole. Ma voi dovete anche rendervi conto che le parole hanno un peso, e qui bisogna usare parole che siano comprese dagli americani".
Al di là delle parole, era chiaro che ci misuravamo con problemi comuni e questo dialogo, questo processo di avvicinamento è andato avanti negli anni. Ecco perché ritengo che oggi ci siano le condizioni per immaginare una coalizione progressista internazionale, che si dia istituzioni e nuove forme di organizzazione. Non si tratta, come si potrebbe pensare, della proiezione mondiale di un'esperienza italiana, non abbiamo questo tipo di ambizione. Come andare oltre esperienze pure così interessanti di confronto e di dialogo, come costruire forme di cooperazione politica più ampie e strutturate, sono domande che riguardano tutti i progressisti.
D'altro canto, se la politica deve globalizzarsi per reggere il confronto con l'economia, ha bisogno anche di soggetti, di forme di coordinamento, di un allargamento della discussione di leadership che si pongano a questo livello.
Per tornare al punto di vista degli europei, non credo che si debba sopravvalutare la forza della destra. Il populismo sa parlare alla pancia della società, coglierne gli umori, ma non sembra in grado di offrire risposte efficaci e convincenti. D'altro canto, l'Unione Europea sotto la guida della destra, non è capace di proporre nulla di più che una politica di difesa del rigore finanziario e della stabilità monetaria. Non voglio sottovalutare l'importanza di questi obiettivi, ma è evidente che se non si sviluppa una politica per la crescita e per l'occupazione, lo stesso equilibrio finanziario sarà difficilmente raggiungibile.
Ecco perché credo che ci sia spazio per una ripresa progressista anche in quella parte del mondo dove oggi essa appare più problematica. I nostri amici che governano grandi Paesi e grandi economie emergenti, in questo momento dovrebbero farsi carico anch'essi dell'esigenza di una ripresa complessiva del movimento progressista. Capisco che ci sono sfide difficili ma, ad esempio, non è pensabile una libera competizione mondiale, seppur auspicabile, senza che si affermi nel contempo una globalizzazione dei diritti del lavoro, a meno che non pensiamo che la competizione avvenga soltanto attraverso una compressione di questi diritti e una umiliazione del lavoro.
Insomma, tutti siamo investiti da grandi problemi che, per essere affrontati, richiedono una cooperazione più stringente e più impegnativa. I vecchi strumenti, compreso quello più glorioso dell'Internazionale Socialista, sono figli del secolo scorso e mostrano tutti i loro limiti. Oggi bisogna pensare al futuro e chi vuole difendere e riaffermare la sostanza dei nostri valori deve, con coraggio, ripensare strumenti figli di un tempo definitivamente concluso.
Grazie.

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