Discorso
29 novembre 2010

First Italian – Indian Bilateral Dialogue – Intervento di Massimo D’Alema<br>

(29 novembre, Palazzo Clerici – Milano)


Se capisco bene io posso parlare qui in my capacity of the last member of an Italian government who visited India, e questo è già abbastanza allarmante, a mio giudizio, a proposito delle relazioni tra Italia e India. Negli ultimi due anni, periodo nel quale –credo – delegazioni del governo italiano hanno visitato la Libia – importantissimo Paese – 27 volte, nessuno è mai andato in India. Questo, secondo me, è un tema di riflessione sulla politica estera italiana, ma per questo sarebbe necessario un altro convegno.
Ora, credo che l’India sia un interlocutore essenziale nella costruzione di un nuovo equilibrio mondiale, processo che è tumultuosamente in corso, senza che sia effettivamente governato da nessuno. Mi intratterrò soprattutto sulle relazioni tra Unione europea e India, tema interessante, e lo farò anche come stimolo critico verso i nostri amici indiani, che dell’Europa non parlano mai, perché probabilmente hanno un’idea delle relazioni internazionali che è molto legata alla dimensione più tradizionalmente intergovernativa e che fatica a muoversi sul terreno di un nuovo multilateralismo.
L’India è e sarà un grande protagonista del secolo asiatico nel quale siamo entrati: dopo due secoli europei e un secolo americano, siamo nel secolo asiatico. Basti pensare che nel 2025 la Cina sarà la prima potenza economica mondiale e l’India la terza, e che insieme produrranno qualcosa intorno al 40% del PIL del mondo, credo che alla stessa data la dimensione economica dell’Europa sarà scivolata dall’attuale 23% del PIL mondiale a circa il 15%. Questo ci dà l’idea di un mutamento nei rapporti di forza mondiali. E’ un processo irreversibile che noi europei non dobbiamo vivere con angoscia, ma dobbiamo cercare di capire come mettere a frutto il nostro patrimonio in un mondo che cambia e fare in modo che questa grande trasformazione, che porta con sé un’enorme crescita della ricchezza, sia un processo win-win, ossia del quale anche noi possiamo in qualche modo avvantaggiarci.
Quando, per impulso del presidente Prodi, il quale ha un grandissimo interesse per il tema dello sviluppo asiatico, andai in India, devo dire che rimasi colpito per un’agenda che comprendeva un fortissimo dialogo politico. Si tratta di un grande Paese che ha una politica estera orientata secondo valori e nel quale non si va soltanto a parlare di affari. C’era una curiosità verso la politica estera italiana, un Paese che nel giro di pochi mesi aveva deciso contemporaneamente di ritirarsi dall’Iraq, ritenendo quella guerra non legittima, di prendere la guida della missione internazionale di pace nel Libano, con un protagonismo inedito a queste dimensioni per la politica estera italiana, e di capeggiare la campagna delle Nazioni Unite contro la pena di morte, sfidando antagonisti del peso degli Stati Uniti e della Cina.
Quindi, evidentemente, c’era un interesse verso gli aspetti nuovi dell’iniziativa della politica estera italiana che facevano dell’Italia un Paese che usciva un po’ dal coro dell’Occidente e che, in qualche modo, si proponeva come un interlocutore interessante. E poi è emerso quel terreno comune a cui ha fatto cenno l’ambasciatore: abbiamo a lot in common, e forse non soltanto le piccole imprese. C’è anche il fatto di essere Paesi con una grande tradizione, una forte civiltà, come è stato ricordato, insomma il peso della cultura.
In fondo, il modello indiano di sviluppo, rispetto a quello cinese, è caratterizzato più che dalla potenza industriale, che in questo momento è un asset formidabile, dal peso della conoscenza, della cultura, della lingua inglese, della matematica, dell’information technology. E’ un modello, se vogliamo, più soft, e che indubbiamente presenta aspetti più interessanti, forse anche di possibile maggiore complementarietà con l’Europa.
Aggiungo il fatto che c’è un’asimmetria, c’è una differenza di peso, anche nel nostro Paese, rispetto al peso che ha la relazione con la Cina oramai dal punto di vista economico, politico, e il peso ancora ridotto che ha la relazione con l’India. Intendiamoci, io non ho nulla contro lo sviluppo di un rapporto forte con la Cina, che corrisponde a una necessità. Si è detto che è interesse dell’Occidente che la Cina sia sempre di più responsible stakeholder del nuovo ordine internazionale. Ed è vero. E credo in una strategia di coinvolgimento.
Dall’altra parte, è evidente che è interesse del mondo che accanto alla potenza cinese cresca in Asia la grande potenza democratica dell’India, non necessariamente in un’ottica di contenimento, di contrapposizione, ma certamente una dialettica di modelli, una collaborazione che è un fattore di stabilità e aiuta anche a evitare che si torni a vecchi modelli egemonici.
In termini diversi rispetto al passato, la relazione con l’India è cruciale non solo dal punto di vista degli interessi economici. Pochi hanno calcolato che la politica del figlio unico tenderà a stabilizzare la Cina intorno al miliardo e 400 milioni di abitanti. L’India, invece, è proiettata a diventare il Paese più popoloso del mondo, il più giovane, nel senso che è avviato ad avere un miliardo e 700 milioni di abitanti. Ora, al di là del valore umano che questo comporta, siccome il nostro è un Paese che predica grandi valori, ma che poi ha una politica basata sugli interessi, non foss’altro che in termini di mercato, quella indiana è una realtà dalla quale non si può prescindere.
Non si tratta dunque di valutare l’India come grande partner economico, ma anche come partner politico, e l’Unione europea, che è appunto questa unione basata su principi e su valori, principalmente quelli della democrazia e dei diritti umani, dovrebbe trovare nella grande potenza asiatica, che condivide gli stessi valori, e che cerca di affermarli in un contesto enormemente più difficile, un suo partner naturale.
Oggi, questa partnership è molto debole e c’è un difetto da parte nostra, perché l’Unione europea fatica a costruire le basi di un dialogo con l’India. Ma c’è anche un atteggiamento indiano che tende a considerare molto la dimensione intergovernativa, internazionale, in una visione – mi si consenta di dirlo - abbastanza tradizionale delle relazioni internazionali, e a non considerare il valore dell’esperienza europea.
In fondo, la potenza dell’Asia fatica ad affermarsi anche per il peso dei conflitti: pensiamo a quanto pesano i conflitti nazionali, a quanto è forte il retaggio della guerra – il sentimento antigiapponese in Cina, la preoccupazione per la Cina in Giappone, i conflitti che lacerano il Sud-Est asiatico, o il Nord-Est asiatico. Da questo punto di vista, sono convinto che l’expertise europea, cioè l’avere costruito un’unione di Stati, l’avere cancellato i confini lungo i quali sono scoppiate due guerre mondiali, dovrebbe attirare un certo interesse, nella classe dirigente asiatica, almeno in un grande Paese democratico come l’India. E credo che questo sia terreno essenziale.
Dobbiamo imparare dagli americani: la grande novità di questi mesi è il rinsaldarsi di un rapporto speciale tra gli Stati Uniti e l’India. C’è stata una svolta. Bisogna dire la verità, a costruire le condizioni di questo rapporto speciale ha lavorato moltissimo anche l’amministrazione precedente: il trattato sul nucleare civile tra l’India e gli Stati Uniti è stato negoziato lungamente dal Primo ministro Singh e dal presidente Bush per due anni. Soltanto la riluttanza da parte indiana a firmare un accordo con Bush in quanto Bush ha rimandato la firma alla conclusione del suo mandato – settembre 2008 – in una condizione in cui l’accordo è stato vissuto dagli Stati Uniti come bipartisan. Come un accordo, quindi, con la nuova amministrazione. E, infatti, la ratifica ha visto il voto favorevole di Obama, di Hilary Clinton, nel Senato degli Stati Uniti.
Parliamo di un accordo ha segnato una svolta profonda nelle relazioni tra Stati Uniti e India, ma che per noi europei è problematico, perché rappresenta uno strappo vistoso al Trattato di Non Proliferazione, tema di cui l’Europa avrebbe dovuto discutere con l’India, se solo avesse avuto la capacità.
Sono rimasto molto colpito dalla visita di Obama in India. Intanto Obama ha corretto l’ex segretario di Stato americano, Condoliza Rice. E’ andato oltre la Rice, dicendo che l’India “is not simply emerging, it has emerged”. E poi Obama ha portato all’India, in una forma che mai era stata così esplicita, il suo sostegno per l’aspirazione indiana a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Devo dire che gli Stati Uniti ci sono passati davanti, da questo puto di vista, gettando le basi di una collaborazione strategica che per molti anni è stata difficile, perché gli americani non potevano tollerare, nel clima della guerra Fredda, quel tipo di rapporto che l’India aveva costruito con l’Unione sovietica, anche in funzione di contenimento della presenza cinese. E gli americani hanno sempre considerato la politica di non allineamento come un cavallo di Troia dell’influenza sovietica.
Oggi, venute meno queste ragioni tradizionali di diffidenza, il rapporto indo-americano è un elemento importante del nuovo equilibrio internazionale. Lo dico in senso positivo, al di là, ripeto, della riserva politica che ho sul Nuclear bill. Tuttavia, non c’è dubbio che questo rapporto è un forte elemento di stabilità, è un elemento che concorre a un equilibrio mondiale multilaterale.
Dall’altra parte, la collocazione dell’India nel mondo, contesto e alleanze, è definita da due grandi scelte: il rapporto BRIC, tra i Paesi cosiddetti emergenti e l’accordo con gli Stati Uniti.
Noi europei siamo i grandi assenti. E siamo colpevolmente assenti, perché – ripeto - la comunanza di valori, di principi, di convinzioni, determinerebbe un terreno favorevole ad una presenza dell’Europa come grande partner politico, non soltanto economico, dell’India. Certo, questa potenza si viene affermando come protagonista in uno scenario in cui cambiano i protagonisti. D’altro canto, il mutamento dell’equilibrio mondiale lo si può vedere dalla caduta del ruolo del G7-G8 e dall’emergere del G20 come nuovo centro, sia pure informale, della governance.
Se in questo contesto l’India si muove con notevole capacità di iniziativa, rimangono alcuni nodi irrisolti, terreni effettivi di confronto. Uno, come dicevo, riguarda il nodo della riforma delle Nazioni Unite. Si tratta del punto di più forte contrasto sul piano internazionale, perché l’Italia se non è il principale oppositore, è comunque il coordinatore delle opposizioni a una riforma del Consiglio di Sicurezza che veda un aumento dei seggi di membri permanenti. L’Italia è stato sin qui uno dei maggiori ostacoli a una riforma di questo tipo. Qualora passasse questo principio, bisognerebbe poi che gli americani regolassero il traffico tra le molte aspirazioni, perché in modi diversi hanno promesso il loro sostegno alla Germania, al Giappone, all’India, al Brasile. Insomma, gli americani sanno che è quasi impossibile realizzare quella riforma e sanno che possono promettere con una certa larghezza.
Sono convinto delle nostre ragioni, che corrispondono a un fondamentale interesse nazionale: l’Italia rischierebbe di essere il primo degli esclusi da una riforma di questo tipo. Penso anche, però, che noi dovremmo cercare di uscire da questa contrapposizione paralizzante, e che sarebbe venuto il momento di un’iniziativa più creativa, perché questa è diventata un problema serio anche della nostra politica estera: in fondo, non possiamo apparire come il principale ostacolo alle aspirazioni, soggettivamente legittime, dei più importanti Paesi emergenti nel mondo. Non mi riferisco tanto alla Germania e al Giappone, che hanno perso la guerra con noi, e sarebbe ingiusto che vincessero senza di noi la battaglia per entrare nel Consiglio di sicurezza, quanto all’India e al Brasile.
Il problema è costruire un nuovo assetto della governance mondiale, quella formale, perché a mio giudizio nessuna architettura di governance si potrà realizzare a prescindere da una riforma del sistema delle Nazioni Unite. E’ un problema che dobbiamo affrontare nel modo più creativo, anziché rimanere i difensori di un assetto che fotografa il mondo del Dopoguerra, un mondo che non esiste più.
Adesso non è qui il caso di entrare nelle tecnicalità, ma credo che questo sarebbe un terreno interessante di confronto. Allora a Delhi concordammo, ma la cosa non ebbe seguito, di avviare una riflessione, un approfondimento informale sulla possibilità di ricercare terze vie rispetto alla contrapposizione che fino ad oggi ha spaccato l’Assemblea delle Nazioni Unite.
L’altro terreno su cui, a mio giudizio, si definisce la politica indiana, riguarda propriamente il ruolo che questo Paese sarà in grado di esercitare in Asia. Il problema della stabilità del continente asiatico riguarda il mondo intero, visto il peso centrale che viene assumendo nell’economia globale, negli equilibri politici.
Pensiamo a quando l’Europa era il centro del mondo: scoppiarono due guerre mondiali. Oggi i conflitti più aspri, le linee di frattura potenzialmente più drammatiche passano dentro il continente asiatico. A partire dal Medio Oriente e dai Paesi asiatici a noi più vicini, è lì che passa la faglia del conflitto con il mondo islamico, con il suo potenziale deflagrante, e l’India è un Paese che ha questo problema, non solo ai suoi confini con il Pakistan, ma al suo stesso interno.
La questione del contenimento del fondamentalismo, della costruzione di una convivenza pacifica tra l’islam e il resto del mondo, sfuggendo al rischio di devastanti nazionalismi, rappresentano, a mio parere, il principale problema di sicurezza che abbiamo e avremo di fronte.
L’India può dare un enorme contributo, a cominciare dal modo in cui risolve al proprio interno questo problema. E dal modo in cui regola i suoi rapporti con i principali vicini, costruendo condizioni di collaborazione e di corresponsabilità. Badate, questo è un problema che riguarda il mondo, riguarda anche noi, non soltanto come minaccia esterna, ma anche come convivenza interna con una comunità islamica che qui da noi è la seconda comunità religiosa del Paese e tende a crescere.
Penso che questo sia davvero un nodo essenziale e che l’India, nel contesto multilaterale, sul terreno di un’assunzione piena di responsabilità sul piano globale, sia un Paese che debba fare il salto della legittima aspirazione ad essere riconosciuta come grande potenza. In questo momento, infatti, sembra prevalere questa richiesta come rivendicazione che affonda le sue radici nella lotta anticoloniale.
Il salto di qualità che l’India deve fare è nell’assunzione della consapevolezza che lo è già, una grande potenza, e che se ne deve prendere tutte le responsabilità. In fondo, non esiste un meccanismo che certifichi che un Paese è “una grande potenza”. Il momento giunge quando il Paese se ne accorge da solo e si prende tutte le responsabilità che ne conseguono. Appunto, il salto di qualità di cui parlavo.
Credo che l’India sia arrivata a questo punto. A partire dal 2011, in un momento così delicato della vita internazionale, per una congiuntura casuale nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite siederanno insieme l’India, il Sudafrica, il Brasile e la Germania. Sarà una grande sfida e noi italiani, noi europei, siamo interessati a che in questa prova l’India abbia successo.
Grazie.

stampa