Intervista
15 giugno 2011

«UN GOVERNO COSì DEBOLE E' UN PERICOLO PER L'ITALIA»

Intervista di Claudio Sardo - Il Messaggero


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ROMA - «Il risultato del referendum è di enorme portata. Ha sancito, ancor più nettamente dopo le amministrative, una frattura tra il governo e il Paese. E ha espresso una speranza di cambiamento. Ci sono grandi potenzialità nella partecipazione di 27 milioni di italiani al voto, che il presidente del Consiglio riteneva inutile. Ma ora c’è anche un pericolo: che Berlusconi si arrocchi nel suo fragile potere, che la maggioranza Pdl-Lega non sia più capace né di governare, né di smettere di governare. È un pericolo serio, perché questo è tempo di decisioni importanti per il futuro dell’Italia».

Massimo D’Alema analizza il voto e non esita a dire che le dimissioni del premier sarebbero un «atto dovuto». Non crede però che Berlusconi farà il passo indietro: «Per non deludere la speranza toccherà ora innanzitutto al Pd intensificare gli sforzi nella costruzione dell’alternativa».

Presidente D’Alema, non rischia di dare una lettura troppo politica del voto trascurando il merito dei quesiti?

«Il merito dei quesiti è stato importante. Il no al nucleare ha pesato, eccome, nella mobilitazione. E una grande spinta è venuta dai comitati per l’acqua pubblica. Ma il valore politico del risultato è incontestabile. L’impressione è che si sia determinata persino una rottura sentimentale tra Berlusconi e il suo elettorato. E altrettanto è avvenuto con Bossi: per dimensione e qualità è proprio il voto del Nord quello che reca il segno più forte del cambiamento».

Perché Berlusconi dovrebbe dimettersi disponendo di una maggioranza parlamentare?

«Perché a dargli lo schiaffo è stata la maggioranza degli elettori. Compresi tanti suoi elettori. Se avesse la dignità del proprio ruolo, Berlusconi avvierebbe da presidente dimissionario una verifica seria in Parlamento. A mio giudizio, c’è anche una questione formale che dovrebbe indurlo alle dimissioni: da qualche mese è a capo di un governo parlamentare, che si regge sull’apporto determinante di alcuni deputati eletti nell’opposizione, dunque è svanito anche il discutibile mito del governo eletto direttamente dal popolo».

Intende dire che Berlusconi si trova oggi nelle stesse condizioni in cui si trovò lei nel 2000, quando lasciò Palazzo Chigi in seguito alla sconfitta delle regionali?

«La posizione di Berlusconi mi pare peggiore sul piano istituzionale. Il Parlamento del 2000 era eletto sulla base di collegi uninominali, Berlusconi invece per arroccarsi utilizza un premio di maggioranza acquisito da uno schieramento che, dopo la rottura con Fini, non esiste più. Ma mi rendo conto che sarebbe troppo chiedere sensibilità istituzionale al premier. Resta la sostanza di un governo debolissimo, incapace di agire, e di un Paese che ha bisogno di riforme cruciali. Il ministro Tremonti ha stipulato con l’Europa un piano impegnativo di risanamento: è inaccettabile che il governo preveda tagli minimi per il 2011 e il 2012, scaricando il grosso dei 40 miliardi di risparmio sul governo che verrà nel 2013».

E, se Berlusconi si dimettesse, lei sarebbe disposto a sostenere un governo di salute pubblica insieme al Pdl?

«La soluzione migliore per l’Italia sono le elezioni anticipate. Abbiamo bisogno di fare progetti con un orizzonte ampio ed è necessario ritrovare uno spirito costituente, che a questo punto può venire solo da una nuova legittimazione popolare. Ma se emergesse nel centrodestra quella disponibilità a cambiare la legge elettorale che finora è mancata, Bersani ha già detto che il Pd è pronto ad assumersi la sua quota di responsabilità. So che su questo punto qualcuno gioca a dividere D’Alema da Bersani. Voglio però deluderlo: l’ho sempre pensata esattamente come il segretario».


La riforma elettorale può essere quella proposta dal Pd: collegi uninominali a doppio turno e quota proporzionale?

«Quella del Pd è una buona proposta, su cui possono maturare ragionevoli convergenze. Delinea un bipolarismo equilibrato, di tipo europeo, senza forzature verso le forze intermedie. Se ci saranno le condizioni, ne discuteremo sapendo che la legge elettorale non è un dogma di fede. Il fatto oggi più importante è che Bersani abbia offerto questa proposta innanzitutto alle altre forze di opposizione. Sarebbe stato un grave errore rivolgersi a Berlusconi, magari in nome di un’astratta fedeltà allo schema bipolare».

Non le pare che le amministrative prima e i referendum poi abbiano espresso anche critiche al Pd e un radicalismo che potrebbe aprire conflitti nel centrosinistra?

«Nei momenti di cambiamento la società civile esprime maggiore vitalità, dunque si spinge più avanti dei partiti, li critica, li vuole cambiare. Non c’è nulla di preoccupante in questo. Il pericolo semmai è la staticità. Il Pd deve continuare a fare la sua parte: e mi pare sia chiaramente la forza fondamentale dell’alternativa».

Il radicalismo politico potrebbe però alimentare la tentazione dell’autosufficienza, come fu nell’infausta esperienza dei Progressisti nel ’93.

«Non è affatto questa l’impostazione prevalente. Bersani sta costruendo, con determinazione e tenacia, un tessuto comune tra i partiti di opposizione. E l’indirizzo del Pd trova una crescente condivisione. Pisapia ha chiamato Tabacci nella giunta di Milano. E lo stesso Vendola lancia messaggi positivi all’Udc, anche come governatore della Puglia. La questione - spero sia ora finalmente compresa - non è raccogliere una sommatoria di sigle per vincere le elezioni, ma costruire un’alleanza sociale e politica nuova, così robusta da sorreggere i cambiamenti necessari all’Italia. Dopo Berlusconi non troveremo un Paese normale. Dovremo condurre una difficile opera di risanamento, e al tempo stesso ridurre le disuguaglianze, liberare risorse per l’innovazione e i giovani, riformare le istituzioni con un’opera di portata costituente».

L’Udc di Casini e il Terzo Polo potrebbero scegliere alle elezioni la corsa solitaria.

«Commetterebbero un grave errore. E spero ancora che non lo facciano. Potrebbero puntare, per una ragione tattica, ad essere determinanti in Senato e condizionare così la formazione dell’esecutivo. Ma il Paese chiede un governo forte, di legislatura, e anche i centristi sono chiamati ad una scelta di responsabilità nazionale. Finito quel ciclo, poi, la dialettica politica prenderà le forme che liberamente si sceglieranno».

Ci saranno le primarie per il candidato premier del centrosinistra, come chiede Vendola?

«Credo proprio che le primarie ci saranno. L’importante è che vengano prima definiti il progetto politico e il quadro di responsabilità comuni. Le primarie sono uno strumento molto importante di partecipazione, non sono un fine. L’alternativa che vogliamo costruire avrà il Pd come perno di un’alleanza tra moderati e progressisti. In questo quadro il Pd candiderà alle primarie il suo segretario, già eletto in una consultazione con tre milioni di votanti. Ho sempre considerato logico, naturale che il leader del maggiore partito sia il capo del governo».

La vittoria dei referendum non rischia di mettere all’angolo la sinistra delle liberalizzazioni?

« Le liberalizzazioni continuano ad essere una cosa di sinistra in un Paese dominato da troppe corporazioni e da inaccettabili barriere verso i giovani. Ma dopo il fallimento del liberismo è necessario anche ricostruire il ruolo del pubblico. Non si tratta solo di garantire all’intero ciclo dell’acqua una responsabilità pubblica. Penso che si debba lavorare perché lo Stato e il mercato definiscano migliori equilibri, in nome del bene comune e anche del principio di sussidiarietà».

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