Discorso
29 giugno 2011

Relazione introduttiva di Massimo D'Alema al convegno “Call to Europe”, organizzato dalla FEPS.

Bruxelles


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L’integrazione europea è stata uno dei progetti politici internazionali di maggior successo dalla fine della seconda guerra mondiale. Ha portato pace, stabilità e prosperità laddove vi erano guerra, distruzione e disperazione.
Oggi, oltre 60 anni dopo, siamo qui, nel cuore della capitale europea, e voglio dirvi che non dobbiamo mai dare l’Europa per scontata. Non dobbiamo mai restare passivi nella scelta del cammino da intraprendere.

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L’Europa oggi si trova a un punto di svolta: se non ci orientiamo verso un cambiamento radicale del corso politico, l’intero progetto europeo potrebbe essere a rischio.
Come ho detto poc’anzi, l’Europa è stata un grande successo politico. Ma è stata anche il prodotto di un’epoca che si è conclusa. Un’epoca in cui essa era inserita in un sistema internazionale del tutto diverso, basato sulla guerra fredda, sul confronto bipolare, sull’egemonia cooperativa degli Stati Uniti.
Quando questo tipo di ordine è collassato, gli Stati membri dell’Unione hanno colto l’opportunità per effettuare un notevole balzo in avanti, dando avvio a una delle stagioni più fruttuose dell’integrazione europea.
In quel periodo, infatti, sono stati raggiunti obiettivi cruciali, quali l’introduzione della moneta comune, l’allargamento a Est, la creazione dell’area Schengen, l’avvio della Politica estera e di sicurezza comune.
Tuttavia, di fronte alla crisi economica e finanziaria, alla crescita inarrestabile di nuovi attori e concorrenti internazionali, al risveglio democratico del popolo arabo, quel modello europeo, che si reggeva essenzialmente su mercato e moneta comuni, si è rivelato inadeguato, incapace di reggere il passo con il resto del mondo.
Se l’Europa intende evitare un lento declino, o, ancora peggio, un crollo drammatico, è necessaria una svolta politica sostanziale, che metta insieme due sfide che non sempre sono state affrontate congiuntamente: il rafforzamento dell’area dell’Unione, delle sue istituzioni e politiche da un lato, e il cambiamento del quadro politico dall’altro.
La lotta alla tentazione della rinazionalizzazione delle politiche comuni, fenomeno che serpeggia oggi in Europa, e la battaglia per gli obiettivi e i valori progressisti non sono mai state legate tanto strettamente. Se non rafforziamo la dimensione comunitaria, infatti, questi obiettivi e valori non potranno essere realizzati. Se non imprimiamo una svolta progressista, il futuro stesso del progetto europeo sarà minacciato.

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Certo, non possiamo negare che le attuali difficoltà che la sinistra europea sta attraversando siano state in buona parte determinate dai limiti e dalle mancanze dell’ultimo ciclo storico guidato dai governi progressisti.
Quando la stragrande maggioranza (13 su 15) dei Paesi membri era governata da partiti di centrosinistra, infatti, i singoli Stati, sulla scia dell’introduzione della moneta comune, si lasciarono tentare dalla fiducia nei supposti effetti virtuosi della globalizzazione, e ciò si accompagnò alla decisione di mantenere l’autonomia nazionale sulle singole politiche.
E’ ora giunto il momento di inaugurare una nuova fase per i progressisti europei. Una nuova stagione in cui l’europeismo di stampo progressista deve mostrarsi in grado di combinare la spinta verso l’uguaglianza con quella verso la libertà, rafforzando allo stesso tempo le istituzioni, le politiche e il processo democratico europei. E tutto ciò può e deve essere fatto costruendo una grande alleanza tra le forze politiche, sociali e intellettuali, e ampliando il raggio d’azione della nostra politica estera.
Con i suoi squilibri, le asimmetrie, i vuoti normativi, il Trattato di Lisbona non può ancora costituire il quadro democratico di cui l’Europa ha bisogno.
Certamente esso rappresenta un progresso notevole, perché offre nuovi strumenti e lascia spazio a miglioramenti e a un consolidamento della dimensione sociale e democratica, oltreché della proiezione internazionale dell’Unione.
La nostra priorità, oggi, dovrà essere quella di sfruttare tutto il potenziale del Trattato, utilizzando l’intero spettro di opportunità che esso introduce, allo scopo di costruire una nuova Europa: un’Europa dei cittadini, dello sviluppo, della solidarietà.
Tuttavia, ciò non vuol dire che dobbiamo limitarci a questo, che il dibattito sulla struttura istituzionale debba essere accantonato per sempre. E’ soltanto rimandato, ma non deve essere dimenticato.

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La prima sfida che l’Europa deve affrontare consiste nel trovare una risposta adeguata alla crisi finanziaria. La strategia elaborata dall’attuale maggioranza di centrodestra non solo è inadeguata, ma rischia addirittura di aggravare ulteriormente la situazione, mettendo a repentaglio la tenuta dell’eurozona.
Certo, non vanno sottovalutate le significative innovazioni oggi in atto: l’istituzione di meccanismi di stabilità, il rafforzamento della governance economica. Riforme che solo alcuni mesi fa sarebbero state impensabili. E non intendo sminuirne l’importanza.
Tuttavia, deve essere chiaro che il problema principale sta nell’approccio che sta dietro a queste riforme, nelle condizioni politiche che le hanno determinate, sull’impianto culturale della risposta alla crisi che si sta delineando.
Mi riferisco all’idea che il peggioramento del deficit sia più la causa che la conseguenza della crisi, della profonda sottovalutazione degli squilibri macroeconomici, della teoria dei presunti effetti espansivi di politiche fiscali restrittive.
Mi riferisco a una governance economica basata sul rigore fiscale, senza strumenti efficaci per sostenere gli investimenti e la crescita. Insomma, mi riferisco a un modello di sviluppo basato sul primato della domanda esterna.
Questa formula, però, non può funzionare.
Da un lato, infatti, essa rischia di aggravare le differenze sociali, economiche e geografiche all’interno dell’Unione. Dall’altro, potrebbe avere l’effetto di innescare in molti Paesi europei una pericolosa spirale recessiva e di crisi del debito pubblico, che potrebbe rivelarsi troppo onerosa per i dispositivi di solidarietà europea.
Non intendo con ciò negare che vi sia una necessità di potenziare i meccanismi di sorveglianza preposti ad assicurare la responsabilità fiscale dei singoli Stati membri, né il bisogno di consolidare il Mercato unico, come delineato dal rapporto Monti.
Ma se vogliamo lasciarci alle spalle la crisi e rilanciare il Modello sociale europeo, dobbiamo dotare l’Unione di un propulsore autonomo. E ciò deve essere fatto mettendo in campo un grande piano di sviluppo, che si basi sugli investimenti pubblici e privati e sul consumo collettivo, tutti fattori essenziali al fine della promozione dello sviluppo in Europa e della correzione degli squilibri di crescita tra le varie regioni.
Per tutti questi motivi, dobbiamo impegnarci, al livello istituzionale come nella società civile, a insistere per una efficace governance macroeconomica europea che si avvalga di strumenti tipicamente progressisti, quali la Financial Transaction Tax, un’Agenzia europea per il debito, l’emissione di Eurobonds.
Dobbiamo anche impegnarci per ridefinire una vera politica sociale europea, fondata sul lavoro, promuovere la ricerca, incentivare la riconversione verso una green economy, riformare i mercati finanziari.
Di sicuro, insomma, gli obiettivi non ci mancano. La domanda è se abbiamo i mezzi sufficienti per raggiungerli.
Una ambiziosa strategia europea di investimenti necessita di molto più che un semplice – pur importante – rafforzamento del Patto di stabilità e di crescita. Occorre anche un’interpretazione estensiva delle norme del Trattato e un notevole sviluppo della condivisione di sovranità a livello comunitario.

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La seconda sfida fondamentale riguarda il ruolo dell’Europa nel mondo.
Anche qui, non possiamo separare l’impegno per un’Europa più forte e assertiva da una profonda svolta politica.
L’evoluzione del sistema internazionale verso un ordine multipolare, il mutamento del concetto di sicurezza – sempre più multidimensionale e transnazionale – l’impatto della crisi economica sulla spesa dei governi per la difesa e sulla disponibilità degli Stati Uniti a impegnarsi nei teatri di crisi più vicini all’Europa, le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona: sono tutti fattori cruciali che rendono indispensabile e, al tempo stesso, possibile, la creazione di una vera ed efficace politica estera europea, di una concreta politica di difesa comune e la valorizzazione dell’approccio originale dell’Unione alla gestione delle crisi.
Purtroppo, invece, assistiamo oggi a segnali scoraggianti di regressione nazionale e di ridimensionamento delle ambizioni in politica estera, come mostrano chiaramente i recenti avvenimenti in Libia e l’accordo di difesa anglo-francese.
Persino nel campo dello Spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia vi sono segnali preoccupanti di una pericolosa tendenza verso la chiusura nazionalistica.
Ma una efficace politica estera, lo Spazio commune di libertà, sicurezza e giustizia e una politica migratoria comune devono essere sostenuti da una reale svolta politica.
Da questo punto di vista, la Primavera araba rappresenta un test importante per misurare la volontà dell’Unione europea e dei suoi Stati membri a impegnarsi verso una politica estera più decisa.
Le rivolte nel Nord Africa e in Medio Oriente non costituiscono certo una minaccia alla stabilità della regione. Al contrario, esse mostrano fino a che punto i regimi autoritari, sostenuti dall’Occidente, abbiano fondato la supposta stabilità attraverso il continuo ricorso a corruzione, cattiva amministrazione e uso della forza, che hanno avuto l’effetto di aggravare le disuguaglianze economiche e sociali. Una stabilità, quindi, ben fragile.
Per queste ragioni, se non vogliamo che queste rivolte si evolvano in senso antioccidentale, dobbiamo sostenerle con convinzione e senza esitazioni.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa ha saputo avviare un grande processo di allargamento, che ha contribuito sensibilmente alla democratizzazione dell’Europa dell’Est.
Oggi siamo chiamati a un compito simile nel Mediterraneo. Certo, non siamo nella posizione di poter promettere un allargamento. Tuttavia, è necessaria un’ampia iniziativa politica, che passi anche attraverso la creazione di nuove istituzioni. Dobbiamo superare i limiti e le debolezze mostrati dai precedenti esperimenti istituzionali, impegnandoci in modo deciso per la democrazia e il rispetto dei diritti umani.
Inoltre, è giunto il momento di un impegno senza riserve nella ricerca di una soluzione al conflitto israelo-palestinese. L’Unione europea non deve più mostrarsi indulgente nei confronti della politica di corto respiro di Israele, che va contro gli interessi di tutte le parti coinvolte.
Da ultimo, ma non meno importante, i recenti eventi nel Mediterraneo devono indurre l’Europa a pensare alla costruzione di una vera politica migratoria comune. L’approccio dei governi di centrodestra si limita, infatti, al mero rafforzamento dei controlli alle frontiere, mentre l’Europa necessita anche di politiche di integrazione. Dobbiamo renderci conto del fatto che gli immigrati non costituiscono una minaccia alla sicurezza dell’Europa e dei suoi cittadini. Anzi, gli Stati membri avranno bisogno di milioni di immigrati per compensare la tendenza demografica negativa.
Per queste ragioni, le rivolte nel Mediterraneo, con tutte le conseguenze che comportano, rappresentano un’opportunità da non perdere, se l’Europa intende dimostrare la fermezza del suo impegno per la transizione democratica nei Paesi arabi e il sostegno a quei valori che stanno alla base dello stesso progetto europeo.

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Se intendiamo fornire una risposta a queste sfide, dobbiamo mettere al centro della nostra strategia la costruzione di un’Europa politica, assieme a una grande alleanza sociale, politica e intellettuale.
A questo scopo, possiamo e dobbiamo avvalerci della preziosa esperienza del Gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.
Inoltre, potrebbe essere il momento giusto per prendere in considerazione la possibilità, prevista dai Trattati, di unire in una sola carica le due figure di Presidente del Consiglio europeo e Presidente della Commissione.
Per quanto attiene alla struttura istituzionale dell’Unione, è in atto un significativo sviluppo nella dialettica tra la dimensione intergovernativa e quella comunitaria. Questo rapporto, infatti, in passato vedeva il Consiglio e la Commissione su due fronti opposti, mentre con Lisbona Parlamento e Consiglio emergono come le principali istituzioni politiche dell’Unione.
Questa evoluzione è un segno di un livello più avanzato del dialogo politico europeo, e sono convinto che la sua naturale evoluzione condurrà alla piena saldatura tra europeismo e progressismo.
Inoltre, dobbiamo anche favorire lo sviluppo di una società civile europea, difendendo e valorizzando il quadro normativo del Trattato di Lisbona, in particolare la Carta dei diritti fondamentali.
Ancora, dobbiamo incoraggiare il ricorso all’Iniziativa cittadina europea, allo scopo di creare un vero spazio democratico comunitario e promuovere la partecipazione dei cittadini al processo decisionale dell’Unione. Dobbiamo sostenere grandi campagne elettorali transnazionali, allo scopo di radicare i partiti politici europei all’interno delle società civili, fornendo al tempo stesso una prospettiva più marcatamente comunitaria ai partiti nazionali. Infine, dobbiamo rafforzare la dimensione europea delle forze economiche e sociali locali. Penso, ad esempio, ai sindacati.

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I prossimi mesi saranno decisivi nella creazione dell’Europa politica che vogliamo e di cui abbiamo bisogno.
Le elezioni che si terranno nel giro dei prossimi due anni in Francia, Germania e Italia, oltre alle elezioni europee del 2014, delineeranno la prossima maggioranza dell’Unione. Si tratta di una straordinaria opportunità per costruire una strategia comune europea tra le forze progressiste, che, in un futuro, potrebbe favorire quella svolta politica che auspico e di cui ho parlato poc’anzi.
Tuttavia, per mettere insieme un programma progressista comune occorre un dialogo profondo e costante tra le diverse anime del centrosinistra europeo.
La Fondazione per gli Studi Progressisti europei ha deciso di accettare questa sfida ambiziosa, ed è per questo che siamo qui oggi, per dare il nostro primo contributo alla costruzione di un nuovo discorso politico, per assumerci l’onere di fornire un apporto sostanziale alla difficile ricerca di un grande progetto europeo.





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