Discorso
20 giugno 2011

Relazione di Massimo D’Alema alla Prima conferenza nazionale del PD sulla sicurezza, “La sicurezza come diritto di libertà”

Roma, Residenza di Ripetta


Buonasera. Vorrei ringraziarvi per l’invito a partecipare a questa Conferenza sulla sicurezza organizzata dal Partito democratico.
Al centro della mia introduzione vorrei mettere un’analisi della situazione relativa all'attuazione della legge di riforma dei Servizi segreti, la legge 124 del 2007, che ha rappresentato un punto d'arrivo di un lungo e impegnativo lavoro, a partire dalla Commissione presieduta dal generale Roberto Jucci, volto ad adeguare la struttura e il funzionamento dei nostri Servizi ai cambiamenti così profondi che sono intervenuti. Mi riferisco a quel complesso di mutamenti che hanno riguardato sia lo scenario internazionale, sia la situazione interna al nostro Paese, dopo la fine della guerra Fredda.
Infatti, non c'è il minimo dubbio che sulla realtà storica dei Servizi segreti abbia influito non soltanto la sfida della competizione, lo scontro tra mondo occidentale e comunismo sovietico, ma anche il modo in cui questa vicenda internazionale si è concretamente riflessa nella realtà politica e istituzionale dell’Italia. Tra le democrazie occidentali, il nostro è stato certamente uno dei Paesi che più di tutti è stato attraversato dalla guerra Fredda e questo ha profondamente condizionato la storia e il ruolo dei Servizi segreti italiani.
Uno degli apparati dello Stato che meno hanno risentito della rottura portata dalla Resistenza, dalla guerra di liberazione, infatti, è stato proprio quello dell’intelligence che, nell'immediato Dopoguerra, fu riorganizzato dagli inglesi in chiave anticomunista, utilizzando come struttura portante ciò che rimaneva della vecchia struttura fascista. Ci fu un vero e proprio recupero del personale che aveva operato a servizio del fascismo, a partire dal generale Mario Roatta, che fu reinserito ancorché fosse stato giudicato da un tribunale della Repubblica colpevole dell'assassinio dei fratelli Rosselli. Fu questo il marchio di avvio dell' esperienza dei Servizi segreti nel Dopoguerra, nel clima del mondo diviso in due blocchi.
Pertanto la riforma non è soltanto di natura strutturale e organizzativa: se questi sono certamente aspetti fondamentali, non meno importante è un' opera di costruzione di una nuova mentalità, sia all' interno degli apparati, sia nel rapporto tra questi e il sistema politico nel suo complesso.
Lo spirito della riforma, ma anche di tutto il lavoro preparatorio, è stato quello di rimuovere prevenzioni reciproche, di creare le condizioni per una politica bipartisan per la sicurezza del sistema informativo dell’intelligence, dopo che per lungo tempo questa struttura dello Stato è rimasta profondamente di parte.
E qui c'è una diversità rispetto alla vicenda che, invece, ha riguardato altri corpi di sicurezza. Perché non c'è il minimo dubbio che, nella seconda metà degli anni Settanta, per quanto riguarda, ad esempio, la Polizia, una corresponsabilità tra maggioranza e opposizione, nata nel clima della solidarietà nazionale e dell'impegno comune contro il terrorismo, aveva creato le condizioni di una riforma, di uno spirito e di una mentalità nuovi.
Al contrario, per quanto riguarda i Servizi segreti questo non accadde. Non c'è una sostanziale soluzione di continuità e tale problema si è posto via via nel corso di questi anni, a partire anche da quella enorme novità storica che è stato l'alternarsi al governo di forze di diverso segno politico e culturale.
E, ripeto, non si tratta soltanto di rimuovere prevenzioni, come in parte si dice nell’ultimo numero del Quaderno di intelligence “Gnosis”, frutto di ricerche molto interessanti, si tratta di qualcosa di più. Persino di andare oltre quella nozione di Servizi deviati che è entrata nell' immaginario collettivo e che, a mio giudizio, è una nozione distorcente. Perché, in realtà, operare contro la sinistra, in quel contesto, non era una deviazione, bensì parte della mission dei Servizi segreti. Può darsi che sia stato in qualche caso deviante il ricorso a determinati mezzi, ma che questo rientrasse pienamente nel mandato dei Servizi non c'è il minimo dubbio.
In proposito, è uscito recentemente un libro di Franzinelli sul Piano Solo, un saggio estremamente interessante anche perché basato in parte su documentazioni inedite e in parte su archivi privati, in particolare quello del presidente Antonio Segni. Si tratta di uno studio importante perché rimuove l'immagine storica di un piano eversivo preparato dal generale De Lorenzo, e dimostra chiaramente che esso era stato predisposto su indicazioni di autorità politico-istituzionali, non per iniziativa deviante di qualche ambiente militare. Come appare anche evidente che lo smantellamento di quel tipo di pianificazioni avviene, non a caso, in un clima internazionale segnato dai primi passi della distensione e per esplicito intervento del governo degli Stati Uniti d' America.
Faccio questo riferimento perché, certamente, è difficile parlare dei Servizi segreti italiani al di fuori della collocazione atlantica dei nostri apparati che li ha visti, in particolare per quanto riguarda l’intelligence militare, operare nel quadro di una stretta collaborazione di natura operativa con i Servizi occidentali, specialmente con quelli americani.
Tutto ciò, a mio giudizio, oggi può essere visto in una dimensione storica e può persino trovare una spiegazione storica, al di là delle opinioni. Quello che appare meno giustificabile, invece, è il protrarsi di questa impostazione anche nel tempo in cui le esigenze di sicurezza, da cui essa scaturì, sono via via venute meno, mentre il carattere fazioso di certi apparati dello Stato è venuto meno molto più lentamente. Solo in una certa misura questo è normale, perché le strutture, gli apparati, hanno per loro natura una tendenza conservativa, sono inerti al cambiamento.
Ecco, la riforma tende a rimuovere questa inerzia, punta a una radicale riorganizzazione e ad adeguare le strutture di intelligence a nuovi compiti, che richiedono certamente una grande flessibilità. La legge 124 definisce questi compiti molto al di là della sicurezza militare, introducendo il concetto di interesse nazionale alla protezione degli interessi economici, scientifici e tecnologici del Paese. Questo comporta, in primo luogo, una nuova mentalità.
Se consideriamo oggi i due compiti principali del Servizio di intelligence, uno è sicuramente relativo alla lotta contro il terrorismo internazionale, il che ovviamente configura un certo sistema di alleanze, che è fondamentalmente quello tradizionale allargato a nuovi partners, perché la fine della guerra Fredda ha aperto canali di collaborazione anche con Servizi segreti di Paesi ex nemici.
Ma il secondo compito, quello della protezione di interessi nazionali, nel mondo della globalizzazione e della competizione tra sistemi statali, configura tutta un'altra articolazione, perché in questo campo anche Paesi amici diventano potenzialmente avversari.
Dunque, rispetto allo schieramento tradizionale del sistema di intelligence come parte dello blocco occidentale, oggi ci troviamo di fronte a una più complessa articolazione tra aree di cooperazione internazionale e aree nelle quali la tutela dell'interesse nazionale comporta anche una capacità operativa indipendente e persino talora competitiva nei confronti dei Servizi di Paesi amici.
E’ evidente, pertanto, che questo scenario richiede un profondo rinnovamento, l'acquisizione di nuove professionalità, soprattutto nel campo economico dell'analisi finanziaria, dell'informatica. E di queste professionalità tradizionalmente la nostra struttura è carente, essendo basata fondamentalmente sul personale che proviene da forze di polizia o militari, quindi con una propensione di natura operativa e una relativamente debole struttura di analisi, di approfondimento, di studio ed elaborazione delle fonti aperte.
Basti considerare che si valuta che internet e le fonti aperte contengano tra l'85% e il 90% del fabbisogno informativo necessario alla sicurezza di un Paese come il nostro. Ma ricavare dalla rete queste informazioni è un'operazione complessa, che richiede livelli di competenza e di professionalità elevatissimi.
La riforma è anche questo, non si limita a creare nuove regole politiche o istituzionali, ma è un' opera lunga e difficile di riorganizzazione, di acquisizione di nuove competenze, di ricambio del personale e di ridislocazione delle forze. In proposito, una delle particolarità del nostro sistema di intelligence è che nel passato la sicurezza militare, cioè quella che oggi la riforma affida all’Aise (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), era in larga parte dislocata all'interno, e non credo per caso. Nel senso che, ovviamente, come ho spiegato prima, c'era una missione prevalente che non si svolgeva lontano dai confini nazionali, ma al loro interno. Nel processo in atto sono stati fatti dei passi importanti nella direzione di una più precisa distinzione di responsabilità tra le due agenzie e del passaggio di determinate funzioni e personale all’Aisi (Agenzia Informazioni e sicurezza interna), che, avendo come compito preminente quello della lotta alla criminalità organizzata, è più propriamente radicata e organizzata sul territorio nazionale.
Il processo di riforma che è complesso, ma va avanti nonostante molti ostacoli, comporta un rapporto di collaborazione tra governo e Parlamento. Ovviamente, questa collaborazione ha avuto aspetti positivi, come quelli del dialogo tra l'Autorità delegata e il Copasir, ma ha avuto anche aspetti gravemente manchevoli su cui non si può non attirare l'attenzione.
La grande novità della riforma dal punto di vista politico, infatti, è innanzitutto una chiara attribuzione di responsabilità al Presidente del Consiglio. In tal senso, la precedente struttura dei Servizi che faceva tradizionalmente capo in parte al Ministero dell’Interno, in parte al Ministero della Difesa, aveva un sistema assai frammentario di responsabilità politica. La legge 124, invece, riconduce il sistema alla Presidenza del Consiglio, alla responsabilità politica del Capo del governo e alla responsabilità operativa del Dis (Dipartimento per l’Informazione e la Sicurezza), strumento operativo della Presidenza del Consiglio. Poi ci sono le due Agenzie, che sono articolazioni organizzative e operative con una loro autonomia, ma il flusso informativo affluisce alla Presidenza del Consiglio ed è gestito dal Dis. Su questo aspetto, senza dubbio, la riforma ha introdotto un elemento molto forte di chiarezza e di responsabilità.
Nel 2009, inoltre, la sentenza della Corte costituzionale, in materia di segreto di Stato, ha contribuito a rafforzare questo principio di responsabilità. Infatti, in quel provvedimento, che ha rigettato il ricorso dei giudici di Milano avverso l'opposizione del segreto di Stato nella vicenda Abu Omar, si sottolinea la responsabilità politica del Capo del governo e la insindacabilità in sede giurisdizionale delle sue decisioni, salvo ovviamente il sindacato della Corte stessa. E si nega alla magistratura ordinaria il potere di giudicare la decisione dei due ex presidenti del Consiglio, attribuendo solo al Comitato parlamentare il potere di pronunciare un parere sulla legittimità dell’opposizione del segreto di Stato.
Questa sentenza, che è parsa a non pochi commentatori persino eccessivamente netta nel proteggere le prerogative del potere politico, tuttavia rende cruciale il rapporto tra governo e Parlamento, sia pure nella forma particolarissima del rapporto tra Capo del governo e Copasir: parliamo di un comitato ristretto e le cui attività sono coperte per legge dal segreto, non dell'Aula di Montecitorio.
Ora, è nella legge che si stabilisce che il presidente del Consiglio risponde periodicamente al Copasir sulle materie di sua esclusiva competenza. Il fatto che il presidente del Consiglio non abbia mai voluto incontrare il Comitato parlamentare non è un vulnus di poco conto. Il che vuol dire che la riforma, in un punto così essenziale, perché il rapporto Capo del governo-Comitato parlamentare rappresenta il cuore della responsabilità politica delineata dalla legge, è rimasta inapplicata.
Non si tratta di un difetto della legge, ma rientra nella costatazione di una certa idiosincrasia, da parte di Berlusconi, per le leggi in generale, che si manifesta anche in questo delicato e particolare settore, oltre che in molti altri, come è noto all'opinione pubblica. Da questo punto di vista, è difficile dire come funziona questa legge, perché in un ganglio essenziale del suo meccanismo non è stata ancora attuata per il rifiuto opposto dal presidente del Consiglio. E, naturalmente, il Parlamento non ha alcun mezzo di coercizione, se non una sanzione politica.
Oltre questo importante limite, trovo che i punti più delicati risiedano soprattutto nella difficoltà a fare i conti con un'esperienza del passato, nei confronti della quale sarebbe interesse della struttura di informazione e sicurezza un taglio netto, anche per quanto riguarda l’aspetto organizzativo. Qui, si è aperta una questione molto rilevante, poiché il governo, sotto l'impulso del Copasir e grazie a una forte determinazione del Dis, ha avviato un programma di turnover estremamente ampio che, nel giro di due anni, dovrebbe portare all'uscita di 594 funzionari. E’, questo, un pezzo non piccolo della riforma, che aprirà la possibilità di immissione di nuove professionalità e, soprattutto, di una nuova generazione. Si tratta di un' operazione molto impegnativa, che naturalmente suscita tante resistenze.
In particolare, i funzionari coinvolti in questi provvedimenti hanno fatto ricorso in sede di giustizia amministrativa. Tuttavia, credo ci sia da riflettere sulla ragionevolezza che il rapporto di lavoro, in un settore così delicato, sia tutelabile in un procedimento amministrativo ordinario. A mio giudizio, infatti, è abbastanza evidente che, in un lavoro di questo genere, il venire meno di un rapporto fiduciario difficilmente può essere impugnato di fronte al TAR. In proposito, suggerirò alcuni punti che forse meritano una qualche revisione in sede legislativa, nel senso che ci sono delle rigidità che difficilmente sono comprensibili per il tipo di struttura dei Servizi segreti.
Inoltre, ci sono aspetti più controversi per lo più relativi alla necessaria opera di trasparenza. Naturalmente, quando parlo di ciò, mi riferisco a una trasparenza ragionevole per i Servizi segreti, mentre non credo che possiamo accedere a posizioni di principio secondo cui non ci deve essere il segreto di Stato. E in altri Paesi democratici questo strumento di protezione dello Stato è assai più severo che da noi. Il segreto di Stato costituisce uno strumento eccezionale che deve essere utilizzato solo in casi altrettanto eccezionali.
La legge 124 prevede anche una forma di garanzia funzionale per gli agenti dei Servizi: essi, nel supremo interesse della sicurezza della Repubblica, possono essere autorizzati a compiere atti, entro determinati limiti, che la legge configura come reati. Ora, è evidente che la rilevanza di questi poteri, l’autorizzazione di atti che configurano reati e l’opposizione del segreto di Stato alla magistratura, che pur ritengo necessari, ne impone un uso estremamente misurato e sottoposto a un controllo politico che deve essere penetrante. Si tratta di un punto molto serio di interpretazione della legge, perché noi ci siamo trovati di fronte a casi in cui il segreto è stato opposto anche al Copasir. Ripeto, ci deve essere un controllo che non sia soggetto a sbarramenti e ci deve essere un uso proporzionato e ragionevole di questi poteri.
Quando ero vicepresidente del Consiglio, condivisi la decisione del Presidente Romano Prodi, convalidata poi da Berlusconi, di confermare l’opposizione del segreto di Stato nel caso Abu Omar: una vicenda molto delicata, ma in cui, indubbiamente, si trattava di proteggere un valore essenziale, ossia la nostra collaborazione con i Servizi collegati di un Paese amico e alleato dell’Italia.
Viceversa, a mio giudizio, in almeno due casi questo uso non è stato né proporzionato né ragionevole. Penso alla decisione del governo di opporre il segreto di Stato sui comportamenti del dottor Mancini, nella vicenda Telecom-Mancini-Tavaroli, dove si configurava l'ipotesi di reato di associazione per delinquere. In quel caso, indubbiamente, non vi era nessuna possibile finalità di sicurezza dello Stato nel dossieraggio fatto insieme dal servizio informativo di una grande azienda delicatissima, quella dei telefoni, da un investigatore privato e da un altissimo funzionario del Servizio segreto militare: il segreto di Stato, a mio giudizio, non aveva nessuna ragione e ha finito per gettare un'ombra su una vicenda già piena di ombre.
Il secondo caso riguarda il segreto di Stato opposto durante le indagini condotte dal Tribunale di Perugia sulla vicenda, molto dubbia, di via Nazionale. Lì, com’è noto, si conducevano ricerche che, per dichiarazione degli stessi Servizi segreti, apparivano totalmente estranee ai loro compiti istituzionali, perché colà sono stati ritrovati dossier riguardanti, tra gli altri, magistrati e giornalisti. E il fatto che sia stato impedito l’accertamento dei magistrati, a mio giudizio, è stata una scelta molto grave. Decisione che non abbiamo potuto censurare perché il Comitato si è diviso e, avendo un carattere paritetico, non ha potuto deliberare alcunché. Detto questo, si tratta di episodi abbastanza significativi e preoccupanti che credo noi dobbiamo sottolineare.
Più in generale, al Copasir abbiamo avuto una discussione su alcuni punti cruciali della riforma, uno dei quali interessa il limite temporale per il segreto. La legge 124 stabilisce un termine non derogabile per il segreto di Stato: quindici anni più altri quindici, e i secondi quindici richiedono comunque una deliberazione da parte dell'autorità politica. Invece di dare attuazione a questo principio, la Presidenza del Consiglio ha nominato una commissione, presieduta dal presidente emerito della Corte costituzionale, Renato Granata, che ha suggerito una protezione di “secondo livello”. Noi, come Copasir, in questo caso a maggioranza, ci siamo pronunciati in maniera nettamente contraria e il governo ha garantito che terrà conto di questa nostra osservazione.
Un’altra questione aperta, abbastanza delicata, riguarda la declassifica automatica dei documenti. E qui ci sono due concetti che spesso nella pubblicistica vengono confusi: una cosa è il segreto di Stato, ossia il segreto che si oppone alla magistratura, altra cosa è la classificazione dei documenti in riservato, riservatissimo, segreto o segretissimo, un principio di riservatezza di carattere burocratico, che restringe la consultabilità dei documenti a determinate categorie di cittadini, che devono disporre del nulla osta sicurezza, ma non ne impedisce l’acquisizione da parte dei giudici. Si tratta, evidentemente, di due cose molto diverse tra di loro.
In proposito, la legge prevede un meccanismo di declassifica che, di cinque anni in cinque anni, prevede che la protezione gradualmente scenda di livello, fino a fare cadere, in un arco temporale di quindici anni, ogni forma di classificazione.
A questo principio viene opposta la preoccupazione che tale meccanismo automatico possa portare a rendere pubblici quei documenti che investono anche responsabilità di altri Servizi. Il Copasir ha preso posizione per difendere il meccanismo previsto dalla riforma, anche perché cambiare le leggi con i regolamenti è un pessimo precedente.
Qui il problema deve essere visto con un certo realismo e, a mio parere, riguarda innanzitutto l'enormità dell'area protetta da criteri di riservatezza. A volte, vediamo recapitarci persino ritagli di giornale con stampigliato “riservato”, nondimeno bisogna riconoscere che c'è un'ossessione burocratica alla riservatezza che talora raggiunge livelli francamente incomprensibili. Ad esempio, il regolamento dove si spiegano agli studiosi i criteri di accesso agli archivi dei Servizi segreti è stato classificato segreto, con il risultato che essi non possono leggerlo, il che naturalmente rende piuttosto difficile l'accesso, a meno che i richiedenti non dispongano in partenza di un nulla osta sicurezza.
Insomma, c’è una certa smania del segreto. Tuttavia, credo che se si vogliono proteggere dei segreti conviene restringerne enormemente l’area e declassificare tutto ciò che ragionevolmente può essere declassificato, perché quando i segreti sono troppo estesi non sono difendibili, come dimostra l'esperienza di Wikileaks.
Per quanto riguarda i documenti che chiamano in campo la collaborazione con i Servizi stranieri, si tratta di un punto effettivamente delicato, fermo restando che deve esserci un principio di reciprocità. In Italia, infatti, ci siamo trovati a tenere nascoste delle carte sulle vicende italiane che nel frattempo la Cia aveva declassificato e reso pubbliche, naturalmente senza chiedere permesso a nessuno, meno che mai al nostro Paese. Quindi ho l'impressione che tale questione meriti di essere approfondita, ma senza introdurre ulteriori sbarramenti.
Altra questione ancora è quella degli archivi e della loro accessibilità materiale. Questo è uno degli aspetti più complessi della riforma, tanto è vero che, a distanza di quattro anni, mostra una faticosa attuazione. Tuttavia, è stato ora istituito un archivio centrale del Dis, al quale dovrebbero affluire tutti i materiali degli archivi delle Agenzie, ma rimane assolutamente importante che questi documenti, trascorsi i tempi previsti dalla legge, vengano resi pubblici secondo le norme ordinarie. Mi riferisco alla legge 241, che in materia di trasparenza dei documenti è estremamente garantista.
Ripeto, ritengo che sia molto importante rendere accessibili agli studiosi e alle persone interessate queste documentazioni: è un impegno, che ho ribadito recentemente a Bologna, in un convegno organizzato dalle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi.
Badate, non dobbiamo alimentare soverchie illusioni sul fatto che esistano armadi dove sono contenute le verità su tutti i ministeri italiani, perché non credo affatto che sia così. Anzi. Tuttavia, è vero che c'è un' esigenza di trasparenza e lo dico nell'interesse stesso dei Servizi segreti. Se si sfoglia la storiografia in materia di intelligence, infatti, ci si rende conto che questa ossessione di segretezza ha fatto sì che le uniche fonti utilizzate siano quelle rivenienti da atti giudiziari. Là dove non c'era il segreto di Stato, ancorché vi fosse una classifica (riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo), i magistrati hanno acquisito i documenti e li hanno allegati agli atti dei processi, dunque tutta la storiografia dei Servizi è basata esclusivamente su atti giudiziari. Risulta, pertanto, solo una storia di deviazioni e reati.
Ma quella dei Servizi non è vero che sia solo storia di deviazioni e reati. E’ anche storia di operazioni a difesa della sicurezza del Paese, che però rimane occulta. Rischia di venire alla luce soltanto la parte negativa. Ecco perché ritengo che sia non solo interesse del Paese, ma anche dei Servizi, una ragionevole operazione di trasparenza. Ferme restando, ovviamente, le esigenze di riservatezza per la sicurezza dello Stato.
Insomma, ci sono grandi questioni che sono ancora aperte, anche perché questo processo di riforma si è dovuto misurare con una debolezza della guida politica, di questo governo, che è subentrato al nostro troppo presto e nelle mani del quale abbiamo dovuto lasciare anche l’attuazione della l. 124.
Innanzitutto, occorre capire come rafforzare l'impegno sulle nuove frontiere della sicurezza. Il Copasir, sotto la presidenza di Francesco Rutelli, ha svolto un' indagine molto interessante, su tutti i temi della cyber security. Abbiamo fatto anche una relazione al Parlamento contenente una serie di proposte per il governo, misure che possono essere prese per rafforzare il sistema di sicurezza di fronte ad una minaccia nuova, che ha una portata potenzialmente enorme. Ora, invece, stiamo facendo un'indagine sulla sicurezza energetica del Paese, sulla sicurezza delle grandi infrastrutture nei nuovi scenari geopolitici internazionali, in particolare in relazione ai cambiamenti che riguardano le regioni che si affacciano sul Mediterraneo.
Il tema della sicurezza affronta queste grandi sfide. Si è aperto, infatti, un delicatissimo problema quello relativo al rapporto tra apparati di informazione e sicurezza e sistema delle imprese: quando sono in gioco interessi nazionali, in che misura gli apparati di sicurezza possono collaborare con imprese private, quali sono le imprese private che rappresentano un interesse nazionale che deve essere tutelato. In alcuni casi, credo sia inevitabile l’instaurazione di un rapporto, si tratta di stabilirne limiti e contenuti.
Tutti i Paesi, oramai, usano i Servizi segreti nella competizione economica senza il minimo dubbio. Ogni Paese è esposto a operazioni di spionaggio nei confronti del patrimonio tecnologico, scientifico, innovativo delle sue imprese. Ecco perché dobbiamo trovare il modo di proteggere le nostre aziende attraverso un'efficace controspionaggio. Si tratta di un punto molto delicato, che certamente richiede un'altissima responsabilità politica. Qui, infatti, si incontrano interesse pubblico e interessi privati. E’ evidente che non può che essere il governo, cioè il Comitato interministeriale per la Sicurezza (Cisr), a stabilire se una determinata impresa rappresenti un interesse nazionale che deve essere tutelato. Non può certo essere una scelta affidata a un funzionario dei Servizi segreti. E una decisione di questo tipo non può sottrarsi a un controllo di tipo parlamentare da parte del Copasir.
Prima di concludere con delle osservazioni sul funzionamento del Comitato che presiedo, vorrei accennare a un altro problema controverso che riguarda l'intelligence militare.
La legge, infatti, stabilisce un principio di controllo parlamentare su queste attività, ma c’è n’è una parte che sfugge a qualsiasi verifica, in particolare, in quel settore delicatissimo dell' intelligence che riguarda il controllo delle comunicazioni dei segnali e delle immagini (Sigint). Si tratta di un campo in rapidissima evoluzione, dove le potenzialità della tecnologia sono enormi. Ad esempio, ci sono sistemi per i quali uno può essere seguito audio-video, 24 ore su 24, da satelliti-sistemi di intercettazione. Dunque, legittimamente l'intelligence militare ha sviluppato un proprio sistema, mentre esisteva già un sistema altamente sofisticato che fa capo all'Aise. A parte l’aspetto dei costi dello sviluppo di strumentazioni di questo tipo, che sono difficilmente descrivibili, ritengo che tale questione possa essere risolta in due modi diversi: o attraverso una sostanziale unificazione, la creazione di una struttura nazionale per le attività cosiddette Sigint, oppure sottoponendo anche le attività di intelligence militari al controllo parlamentare del Copasir.
Controllo che, in realtà, funziona in modo abbastanza limitato. Innanzitutto, per via del carattere paritetico del Comitato e a causa dell'impianto della legge che, come è stato giustamente osservato da taluni studiosi, risente di una visione in parte superata, quella della dialettica governo–Parlamento. Oggi, invero, viviamo in un sistema in cui non c'è alcuna dialettica tra queste due istituzioni: in un contesto in cui la legge elettorale garantisce una piena subordinazione della maggioranza parlamentare al governo, la vera dialettica è quella tra maggioranza e opposizione, e il vero problema delle garanzie parlamentari andrebbe spostato proprio sulle garanzie per l'opposizione.
È, questo, un problema sistemico, e lo sottolineo alla vigilia di una fase in cui forse non sarà più un nostro interesse primario risolverlo. D’altra parte noi siamo sempre stati bravi a creare le garanzie per gli altri, ma forse in questo caso non abbiamo attentamente riflettuto: il carattere paritetico di questo organismo parlamentare comporta che se il governo oppone una ragione di riservatezza alla richiesta di un documento, la decisione può essere impugnata solo all'unanimità, il che vuol dire praticamente a possibilità zero allo stato attuale.
Vi sono alcuni limiti del funzionamento del Copasir che, a mio avviso, ne richiedono una revisione. Personalmente sono favorevole a un’idea del controllo parlamentare sul modello americano: un organismo ristrettissimo - dieci componenti sono troppi -, ma senza alcuna barriera, ivi compresa l'informazione su operazioni in corso. E’ evidente che tale modello garantisce maggiormente il carattere bipartisan della politica di sicurezza.
E vorrei aggiungere che, in un Paese dove c'è l' alternanza al governo, questa è anche la garanzia per gli operatori, i quali, se sono autorizzati a compiere operazioni ad altissimo rischio, hanno interesse che ne siano informati anche quelli che, forse tra un mese o tra un anno, andranno al governo, per potere operare in un quadro di certezza e di responsabilità condivisa. Sia chiaro, questo non vuol dire certo la codecisione, ma ritengo che in un Paese democratico avanzato, l'opposizione, nelle forme proprie, dunque attraverso pochissime qualificate persone vincolate al segreto, non possa non essere informata.
Tanto più questo è ragionevole, perché l’alternanza fa sì che le opposizioni via via diventino governo, quindi a un certo punto tali informazioni le hanno avute, le hanno o le avranno. Ad esempio, oggi, mi sento opporre dei segreti di cose che ovviamente già so, per forza di cose, perché sono stato Presidente e vicepresidente del Consiglio, quindi dunque si tratta di un meccanismo che diventa anche abbastanza ridicolo, oltre che rischioso.
Tutto ciò, a mio avviso, comporta inevitabilmente una qualche revisione e un rafforzamento del controllo parlamentare, come condizione per realizzare quello che poi è l' idea di fondo della l. 124, cioè un'idea nuova e condivisa della sicurezza del Paese.
Ora, è chiaro che non è facile, tutto questo allude a un Paese normale e noi sappiamo quanto sia complicato creare le condizioni di un funzionamento normale della nostra democrazia.
La riforma è in cammino e sicuramente sono stati fatti dei passi in avanti: ci sono difficoltà, ci sono ostacoli, ci sono questioni che meritano una qualche revisione della norma primaria, per renderla più efficace rispetto alle giuste finalità della riforma, e credo che questo faccia parte a pieno titolo di una politica della sicurezza del nostro partito. Grazie

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