Intervista
29 luglio 2011

"L'UNIONE E’ FALLITA, ORA UNA COMUNITA’ EURO-MEDITERRANEA CHE PREMI LE DEMOCRAZIE"

Intervista di Karima Moual – Marocco Oggi


Sono passati alcuni mesi dalla imprevedibile primavera araba, dopo i primi entusiasmi sono in molti a fare un passo indietro. Lucio Caracciolo su Limes inaugura: “La primavera è finita. Nelle Arabie le primavere sono brevi - scrive Caracciolo - Sarà per questo che siamo repentinamente slittati dalla lirica rivoluzionaria alla stagione di depressione economica, emergenza sociale e insicurezza geopolitica che investe lo spazio affacciato sul nostro mare. Rimossi i tiranni tunisino ed egiziano, le aspirazioni alla libertà e alla democrazia sono frustrate dalla reazione dei poteri tradizionali, militari in testa". Non crede che sia troppo presto per pretendere che una rivoluzione produca già tutti i suoi frutti?

Si è aperto un processo, ma è ancora presto per giudicarne gli esiti. Tuttavia, quello che è avvenuto ha un valore irreversibile. In alcuni Paesi si è avviato un cambiamento forte, in altri i regimi hanno resistito. In ogni caso, non credo che si tornerà allo status quo, perché ci sono ragioni di fondo che hanno alimentato questi movimenti. C'è stata, soprattutto, la crescita e la maturazione di una nuova generazione, che guarda ai valori democratici di libertà e che aspira a realizzarli nelle società del mondo arabo. Adesso il vero problema, su cui bisognerebbe interrogarsi, è capire come sostenere e accompagnare queste trasformazioni, anziché pretendere di stabilirne i tempi.

Che ruolo politico, dunque, dovremmo avere noi da questa parte del mediterraneo?

L'Europa, al di là delle parole, non ha mai realmente portato avanti una politica per promuovere la democrazia in quella regione. Questo non significa esportarla con la forza. D’altra parte, l’esperienza dell’amministrazione Bush e l’intervento in Iraq hanno dimostrato il fallimento di questa strategia. Piuttosto, la democrazia deve essere sostenuta attraverso il dialogo con la società civile e l'incoraggiamento delle nuove forze. Occorre una posizione intransigente verso i regimi e le dittature che violano i diritti umani, che oppongono al movimento democratico la brutalità della repressione e che devono essere isolati. Penso, ad esempio, alla Siria, dove si è aperta una frattura nel rapporto fra il regime, i cittadini e l'opinione pubblica internazionale. La situazione siriana crea non solo preoccupazione, ma una vera ripulsa morale. Ogni giorno si contano morti, si verificano episodi di violenza intollerabile. Bisogna agire in termini di isolamento politico ed economico, attraverso le sanzioni e una ferma condanna morale.

Ci sono molti modi di fare avvertire la pressione della comunità internazionale, ma poi ci vuole anche una politica vera.

Un ruolo importante lo può e lo deve giocare l’Europa. Gli americani, infatti, sembra non riescano a essere protagonisti nel favorire una nuova stagione di cambiamento in quell’area. Certo, negli anni più recenti, con la nuova amministrazione, hanno lanciato un messaggio positivo. Basta pensare al discorso del presidente Obama al Cairo. Tuttavia, il Congresso americano lo ha poi sostanzialmente vanificato, plaudendo Nethanyau, emblema dell’intransigenza israeliana. Ecco perché sono convinto che in questo momento competa soprattutto all'Europa darsi da fare. E sono molte le cose che l’Europa può fare, a cominciare dal rimettere in discussione forme di collaborazione che hanno dimostrato tutti i loro limiti, compreso il progetto dell'Unione per il Mediterraneo, che ormai appare un arnese del passato.

L’investimento sulla democrazia è stato fatto solo a parole, dice Lei, ma perché è avvenuto questo? Perché l’Europa si è fermata solo alle parole, perché non si è voluto investire davvero in quest'area?

Credo abbia prevalso una logica di potenza. A mio parere, alla base dell’atteggiamento dell’Europa vi sono diverse preoccupazioni. In primo luogo quella economica e, in particolare, della sicurezza energetica, relativa all’approvvigionamento di petrolio e di gas. Accanto a questa, vi è l’esigenza securitaria della lotta al fondamentalismo e al terrorismo di matrice islamica. Una preoccupazione considerata prioritaria, tanto che si è sostenuto che regimi e dittature potessero rappresentare un argine contro l’islamismo. Un discorso che è valso anche rispetto al terzo fattore, ossia la necessità, da parte dell’Occidente, di contenere l'immigrazione. Tutto questo rientra in una logica di realpolitik, che ha implicato una sostanziale indifferenza nei confronti dei regimi, che, anzi, con la loro stabilità costituivano una garanzia agli interessi europei. Si è trattato, a mio avviso, di un grave errore di valutazione: le dittature non offrono nessuna garanzia, neppure dal punto di vista della lotta al terrorismo e al fondamentalismo. Al contrario, la corruzione di questi regimi ha alimentato questi fenomeni, portando instabilità e conflitti. In sintesi, c'è stata una responsabilità europea rispetto a tutto ciò e ora bisogna voltare pagina, prospettare alla sponda Sud del Mediterraneo una collaborazione di segno diverso.

Che tipo di collaborazione?

Penso a quanto avvenne nell'89. Quale fu l'atteggiamento dell'Europa di fronte ai Paesi che si liberavano dal blocco sovietico? Offrimmo loro l'integrazione nell'Unione europea, in cambio, però, del rispetto di determinati valori e principi, innanzitutto quelli della democrazia, dei diritti umani, delle libertà. Ora noi dobbiamo mettere in campo nei confronti dell'altra sponda del Mediterraneo un’operazione che sia in egual modo convincente e che abbia la stessa forza: dobbiamo lanciare l'idea di una comunità euro-mediterranea, aprire la via a una cooperazione speciale con l'Unione europea. Non deve essere l'incontro diplomatico dei regimi esistenti, ma una vera e propria comunità con benefici dal punto di vista dell'integrazione e della collaborazione economica. Una comunità con una propria governance, cui abbiano accesso soltanto quei Paesi che avanzano nel processo della democrazia e dei diritti umani, e che discrimini tutti gli altri. Dobbiamo promuovere il criterio dell'integrazione economica, uscendo dalla logica umiliante degli aiuti. Serve un rilancio ambizioso.

Lei parla di rapporti privilegiati con i Paesi che scommettono sulla democrazia. Come giudica il percorso fatto in Marocco, anche con la nuova Costituzione?

Il Marocco è un partner importante per l'Italia. In questo Paese il processo di democratizzazione si è sviluppato negli anni, anche per merito del dialogo avviato dal re Hassan II. È una storia molto interessante, che viene da lontano. Naturalmente, rimane aperto il grave problema del popolo sahrawi. Quello del Sahara occidentale è un conflitto che rappresenta un grande ostacolo per il funzionamento di tutto il Maghreb. E’ molto importante che le parti raggiungano un accordo, partendo dal progetto delle Nazioni Unite che prevede un referendum sull’autodeterminazione di quella popolazione. Occorre dall’una e dall’altra parte senso di responsabilità e flessibilità, considerando anche i rischi che la mancata risoluzione del conflitto può comportare per tutta l’area, rendendola terreno fertile per organizzazioni terroristiche.

In questo nuovo quadro strategico, il tema israelo-palestinese diventa ancora più stringente.

Credo che per la nuova opinione pubblica nel mondo arabo, a cominciare da quella egiziana, diventerà molto più difficile tollerare il doppio standard che l’Occidente ha applicato al conflitto israelo-palestinese. I regimi arabi, al contrario, non avevano particolare interesse a risolvere questo conflitto. Anzi, il conflitto israelo-palestinese era anche un modo per giustificare se stessi.

Lei fa riferimento all'Egitto. C’è chi avanza preoccupazioni sulla crescita dei fratelli musulmani…

Dobbiamo sapere che è naturale che in un mondo arabo democratico i movimenti islamisti avranno maggior peso. O meglio, saranno più visibili, perché il loro peso lo hanno da tempo. Ripeto, quello che noi dobbiamo chiedere è il rispetto dei diritti umani e dei principi della democrazia, mentre non possiamo demonizzare ex ante i movimenti di ispirazione religiosa. Tra l’altro, è molto più sicuro per tutti averli in Parlamento, vincolati al principio democratico, visto che la clandestinità non può che aumentare i pericoli. Certo, i partiti islamisti devono rispettare il pluralismo, le libertà personali, i diritti umani… Passare da dittature militari nazionaliste a dittature islamiche non sarebbe un passo in avanti: il modello non può essere l'Iran, ma una società pluralista. E la mia proposta sul Mediterraneo credo possa aiutare questo processo. In questo senso, un esempio può essere dato dal dialogo con la Turchia, che, nonostante abbia al governo un partito islamista, ha avviato un importante processo di riforme.

Ritiene utile il programma di aiuti varato dal G8 e dal Fmi?

Come ho detto prima, ritengo che il mondo arabo abbia bisogno di stimoli più che di aiuti. Parliamo di Paesi che hanno risorse che devono essere impiegate meglio. Per questo intendo una cooperazione economica, scientifica e culturale in un quadro di pari dignità, attraverso progetti comuni di sviluppo, come, ad esempio, nel campo delle energie alternative e rinnovabili.

Europa e Stati Uniti stanno affrontando una crisi finanziaria molto difficile. Quale sarà l'impatto della crisi sulla sponda sud del mediterraneo?

Stiamo attraversando una grave crisi economica e finanziaria, che riduce di molto le capacità d’iniziativa dell'Occidente. Una fase dalla quale usciremo con rapporti di forza internazionali profondamente mutati. Ed è una fase nella quale il mondo arabo può avere un ruolo di maggiore responsabilità e assumere maggior peso sulla scena internazionale. Il mondo arabo è pieno di contraddizioni, ma è anche ricco di risorse. Sta a lui cogliere le opportunità di questa sfida.


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