Discorso
23 giugno 2011

INTERVENTO DI MASSIMO D'ALEMA ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "LA GIUSTIZIA E I SUOI NEMICI" DI VITO MARINO CAFERRA

Camera dei deputati, Sala del Mappamondo


Non essendo un giurista, non pretenderò di affrontare valutazioni sotto il profilo della cultura giuridica di un testo come “La giustizia e i suoi nemici”, peraltro assai ricco di notazioni e osservazioni. Preferisco esprimere delle considerazioni di carattere politico. Stiamo parlando di un libro che presenta un esame molto articolato di concrete vicende giudiziarie attraverso le quali si esemplifica il modo in cui si è venuto sviluppando il rapporto tra giurisdizione e potere politico. Vi si affrontano, in generale, temi relativi al funzionamento della giustizia innanzitutto nell’ottica del cittadino piuttosto che dal punto di vista corporativo del magistrato: si guarda, cioè, all’interesse generale in relazione alle attese della collettività rispetto a una giustizia efficace.
Allo stesso modo non intendo fare un intervento polemico. Ritengo necessario, tuttavia, domandarsi – ed è quello che farò nel corso del mio intervento – perché la politica, in questi anni, sia stata così impotente nell’individuare percorsi effettivi di intervento ragionevole.
A mio parere, una delle ragioni di tale impotenza risiede nel fatto che, ogniqualvolta si è parlato del rapporto tra il cittadino e la giustizia, è parso che il cittadino a cui si faceva riferimento fosse il cittadino indagato, colui che deve proteggersi dall’invadenza o dall’irragionevolezza del potere giudiziario. Ora, è evidente che non esiste soltanto il cittadino indagato: c’è anche il cittadino che chiede giustizia, o quello che è stato danneggiato dal reato. Pertanto occorre partire anche da quei soggetti che, in generale, hanno interesse a che il “servizio giustizia” funzioni in modo efficace come deterrenza nei confronti del crimine, sotto il profilo della punizione dei reati criminali, e per consentire una piena soddisfazione degli interessi lesi.
Quello che viene presentato oggi è un volume che affronta con equilibrio temi complessi, guardando con coraggio non soltanto alle responsabilità della politica, del legislatore, ma anche alle distorsioni che si sono introdotte nel comportamento concreto, nella mentalità di una parte della magistratura. E qui, a mio giudizio, c’è anche la dimostrazione di quanto siano forti gli anticorpi nei confronti di condotte corporative o devianti del potere giudiziario.
D’altro canto, talvolta abbiamo avuto modo, anche nel dibattito politico, di lamentare le forzature di certe iniziative giudiziarie e, molto spesso, sia pure con una rilevanza mediatica assai minore, è stata la stessa magistratura ad avervi posto rimedio, attraverso decisioni di grande equilibrio. Naturalmente, dal punto di vista di chi è coinvolto in queste vicende, l’ampiezza dei titoli relativi alle indagini non è mai compensata dall’asciuttezza delle notizie relative alle assoluzioni, ma di questo non si può dare la colpa ai magistrati. Tuttavia, rimane il fatto che, nel suo complessivo funzionamento, la macchina della giustizia ha dimostrato in molti casi di agire con equilibrio e di porre rimedio essa stessa a distorsioni o forzature che possono essersi manifestate.
In particolare, questo libro individua una via d’uscita, non tanto, o non soltanto, in diverse indicazioni concrete -alcune delle quali condivisibili, altre meno realistiche nell’immediato- quanto dal punto di vista delle premesse, ossia nella necessità di recuperare senso dello Stato, rispetto delle istituzioni e rispetto di sé, autocontrollo da parte dei protagonisti, da ambo le parti. Quel dominio, quel primato dell’etica nella vita pubblica, viene invocato in modo non retorico, ma come bisogno di superare la crisi italiana, e non soltanto rispetto ai problemi della giustizia. In effetti, a mio giudizio, il principale ostacolo a un cammino riformatore virtuoso risiede proprio nel conflitto tra le istituzioni.
Un conflitto che, comunque, non ha impedito -come ha ricordato il presidente Leone- il realizzarsi di riforme di carattere costituzionale. In proposito, vorrei ricordare che la riforma più rilevante in senso garantista, la riforma costituzionale del giusto processo, fu promossa da quelli che nella vulgata di un dibattito esasperatamente polemico vengono definiti giustizialisti, cioè da noi. E non è un caso, secondo me, che la capacità riformatrice di chi ha avuto una minore passione polemica verso i magistrati si sia dimostrata talora più efficace.
Un altro ostacolo a intraprendere con coraggio la via delle riforme è la tendenza a far degenerare la pur comprensibile critica nei confronti di singole iniziative giudiziarie in una delegittimazione della magistratura. Mi riferisco a quell’idea per cui, in definitiva, il garantismo non debba esprimersi nel ragionevole rafforzamento dei diritti della difesa, bensì in vere e proprie forme di sabotaggio del processo, disegnate di volta in volta in funzione di interessi particolari, o particolarissimi, tramite leggi ad personam. Tutto ciò costituisce un’evidente distorsione della cultura garantista che, al contrario, è diretta ad assicurare che il processo possa svolgersi in modo giusto.
Paradossalmente, chi è apparso in questi anni come il peggior nemico dei giudici, è stato invece il principale garante del fatto che non si facesse alcuna riforma e venissero tutelati i privilegi corporativi della magistratura. Questo perché, ponendo la questione in simili termini, cioè sottoforma di delegittimazione e di conflitto istituzionale, si è rivelato pressoché impossibile far avanzare alcun processo radicale e incisivo di riforme.
Alla base di tutto ciò, secondo me, vi è anche un’analisi sbagliata delle distorsioni: l’idea che la maggiore deviazione della magistratura italiana sia il suo carattere politicizzato, il suo essere al servizio di una parte politica contro l’altra. Anzitutto, sarebbe interessante fare un’analisi della casistica, che dimostra che così non è.
In realtà, però, questa lettura non coglie il vero problema, che, tra l’altro, va molto al di là dei confini del nostro Paese. Mi riferisco al diffondersi di una cultura antipolitica, non soltanto nel campo della magistratura, ma in molti altri campi. Penso, ad esempio, all’ideologia del dominio dell’economia sulla politica, che è stata preminente in questi anni. Tutto ciò ha incoraggiato l’idea che il declino della politica, vista come un’attività complessivamente negativa, un disvalore, aprisse la strada alla necessità di altri corpi e poteri della società che svolgessero un ruolo sostitutivo nei suoi confronti.
Da questo punto di vista, il paradosso è che una simile matrice culturale non è poi così diversa dalla quella che muove l’imprenditore che si fa Stato per sostituirsi ai “politicanti”, ritenuti non in grado di affrontare i problemi del Paese. Ed è la stessa cultura che spinge il giudice che si rende esecutore di una missione moralizzatrice e di rinnovamento della società. In fondo, si tratta di due modi diversi di concepire una supplenza nei confronti della politica tradizionale, che apre la strada all’irruzione di soggetti che mutano radicalmente il rapporto di equilibrio tra i poteri dei diversi settori della vita pubblica.
Allora, se vogliamo affrontare davvero i problemi che abbiamo dinnanzi, dobbiamo rimuovere questi eidola polemici e sgombrare il campo da un’impostazione non vera, rinunciando sia all’approccio minimalistico delle leggi ad personam, che inquinano il dibattito sulle riforme, sia all’approccio massimalistico dei grandi disegni di riforma costituzionale, per i quali non vedo né le condizioni né i tempi.
Un esempio di questo massimalismo lo abbiamo visto di recente: nella materia di cui si discute oggi, le intercettazioni, non si è inteso procedere con un provvedimento misurato, che affrontasse il tema vero, ossia lo stralcio delle intercettazioni non attinenti al reato penale su cui si indaga. Tutto sommato, si trattava di una questione che si poteva risolvere con equilibrio e con un largo consenso, anche a partire dal disegno di legge elaborato dal centrosinistra. Al contrario, si è pensato a un intervento di gran lunga più distorsivo, che limitasse l’uso delle intercettazioni come strumento di indagine, il che è ben altra cosa rispetto alla protezione della privacy. L’esito di questo approccio sta nel fatto che non si è trovata più un’intesa e non si è fatta nessuna legge.
Una riforma in un terreno delicato come quello della giustizia, a mio parere, può essere affrontata solo a due condizioni: da un lato, occorre una larga convergenza delle opinioni politiche, che certamente è esclusa a priori se si parte dall’idea che bisogna punire i magistrati perché “sono di sinistra”, dall’altro, la riforma non deve essere percepita come ostile dalle forze fondamentali della magistratura italiana che, a mio giudizio, sono forze del tutto ragionevoli, e sulla cui ragionevolezza bisogna invece fare leva.
Se vengono meno queste due condizioni, ogni ipotesi riformatrice è innanzitutto velleitaria, perché in un regime democratico –a proposito di sovranità popolare– l’orientamento dei cittadini è fondamentale. E in questa materia, come abbiamo visto, l’orientamento è estremamente sfavorevole a una politica che pretenda di riaffermare il suo primato limitando l’indipendenza e la possibilità di agire dei magistrati.
La democrazia, d’altra parte, non si esaurisce nel voto. La sovranità popolare si manifesta in tante forme, basti vedere come si è espressa nel referendum sul legittimo impedimento. Dunque, questo rapporto di forze reali, che muove dagli orientamenti dell’opinione pubblica, non dal modo in cui essi si riflettono nelle posizioni dei partiti, dovrebbe prendere le distanze da massimalismi che -ripeto- sono improduttivi di riforme. Perché non si può andare contro la volontà della maggioranza dei cittadini, tanto più in materia di riforme costituzionali che, come ci spiega l’articolo 138 Cost., sono sottoposte a un procedimento dal quale non si sfugge.
Inoltre, da profondamente garantista quale sono, penso che ci sia un serio problema di coerenza dell’indirizzo generale. Voglio dire che noi abbiamo avuto un atteggiamento schizofrenico, perché da una parte abbiamo rivendicato, talora giustamente, garanzie per determinate categorie di cittadini, rappresentanti del popolo, uomini politici. Dall’altra, nel corso di questi anni, è andato avanti, a mio giudizio, un indirizzo di espansione del diritto penale in senso pesantemente antigarantista.
Nel volume di Caferra, in proposito, ho trovato preziosa l’indicazione circa la necessità di un diritto penale minimo, di una previsione dell’irrilevanza penale di alcuni fatti come condizione per rendere in qualche modo effettiva, e non totalmente discrezionale, l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione. Ora, noi siamo andati nella direzione opposta: la penalizzazione della tossicodipendenza, la previsione dell’immigrazione clandestina come reato… Tutto questo è andato nella direzione opposta, altro che garantismo!
E così come, sinceramente, trovo che non sia giusto pubblicare sui giornali la vita privata delle persone, con uguale, anzi, direi con maggiore sofferenza, penso che sia profondamente grave e ingiusto chiudere in carcere, anche fino a 18 mesi, quelle persone che vengono in Italia in cerca di un lavoro. Altro che accoglienza: un anno e mezzo di carcerazione preventiva senza processo... Non importa che si tratti di una pratica autorizzata dall’Europa, che in questo dimostra di essere decisamente forcaiola. Nell’approccio alla questione dell’immigrazione clandestina vedo l’uso di due pesi e due misure: queste persone avranno anche la pelle di un altro colore, ma i diritti umani sono universali, almeno così dovrebbe essere.
E se pensiamo a cos’è oggi la condizione carceraria, da garantista, soffro molto di più per questi aspetti che non per altri, che pure non valuto positivamente. Ripeto, ho l’impressione che ci sia stata una certa schizofrenia: un volto feroce verso la povera gente e una grande preoccupazione di tutelare determinate garanzie su un altro versante.
E ancora, vorrei esprimere il mio timore verso l’espansione di una visione panpenalistica. Ad esempio, se dovesse venir approvata una legge sul fine vita per cui, tra qualche anno, assisteremo a processi per accertare se quel determinato medico abbia effettivamente garantito la nutrizione obbligatoria oppure no, allora non potremo certo lamentarci dell’invasività del giudice penale. In questo modo, infatti, apriremmo delle autostrade al panpenalismo anche in materie in cui, secondo me, forse il giudice andrebbe tenuto fuori dalla porta, per lasciare il campo all’umana pietà e alla ragionevolezza delle persone. Dico questo perché ritengo che si dovrebbe partire da indicazioni di buon senso, tenendo aperto il dibattito su alcuni nodi di natura costituzionale che difficilmente potranno trovare soluzione in questa parte residua della legislatura.
Naturalmente, condivido le opinioni che Caferra espone nel suo libro: sia per quanto riguarda, da un lato, l’obbligatorietà dell’azione penale, la quale, per come si presenta oggi, appare in realtà come il massimo di discrezionalità non motivata; sia per quel che riguarda, dall’altro lato, una cautela circa la separazione delle carriere. L’autore, a mio avviso giustamente, ritiene che questa riforma potrebbe accentuare, per certi aspetti, i pericoli corporativi in relazione al ruolo dei pubblici ministeri, finendo per produrre un effetto contrario alle ragioni legittime e alle garanzie per le quali viene promossa.
Tuttavia, penso anche che oggi ci si dovrebbe concentrare maggiormente su altri aspetti. In particolare, su quel razionale impiego delle risorse e delle forze a cui questo libro si riferisce, e su quell’opzione del diritto penale minimo, su quella riserva di codice. E occorre insistere sull’ampliamento dello strumento giuridico dell’irrilevanza penale del fatto, che, a mio giudizio, dovrebbe essere l’indirizzo attraverso il quale ridurre l’invadenza del diritto penale. Infine, bisogna incoraggiare il funzionamento degli organi di autogoverno.
Insomma, dobbiamo creare un clima nel quale la magistratura metta in campo gli anticorpi, innanzitutto di carattere culturale, che, come dimostra il libro, sono già presenti all’interno della stessa, e, rompendo ogni solidarietà corporativa, guardi con coraggio ai problemi reali del potere giudiziario.
Noi che siamo in Parlamento dobbiamo sapere che la delegittimazione dei pm e dei giudici è il modo peggiore di sollecitare questa riflessione critica, di far venire in campo di questi potenti anticorpi di deontologia professionale, di senso del limite, di rispetto delle istituzioni, che sono molto più diffuse di quanto non si possa pensare nel dibattito pubblico.
L’aggressione contro i magistrati eccita, infatti, una risposta corporativa, nella quale si finiscono per proteggere anche i comportamenti peggiori. Il riaprirsi di un dialogo sereno, di un approccio realistico, che lasci da parte ogni velleità massimalistica, forse ci aiuterà ad affrontare questi problemi mettendo in campo le qualità migliori dei magistrati italiani che, a mio giudizio, sono ben rappresentate da questo volume.
Grazie.

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