Discorso
10 ottobre 2011

Il nuovo ruolo dell’Europa oltre la crisi<br>

Articolo pubblicato sul n.2/2011 di TamTam Democratico


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Nel giro dei prossimi due anni, il volto politico dell’Europa può cambiare. In quest’arco di tempo, infatti, in Francia, Germania e Italia si terranno elezioni politiche che potranno riconsegnare ai progressisti la guida di tre dei principali Paesi dell’Unione. Gli attuali governi di centrodestra appaiono alla fine del loro ciclo. Guardiamo alla condizione disastrosa in cui versa il governo Berlusconi, alle sconfitte elettorali incassate da Angela Merkel, non ultima quella di Berlino di pochi giorni fa. E guardiamo alla situazione di Sarkozy, dato perdente in tutti i sondaggi francesi. D’altra parte, un primo segnale di questa possibile svolta progressista lo abbiamo avuto in occasione delle recenti elezioni danesi, che hanno riportato il centrosinistra al governo dopo 10 anni di chiusura nazionalistica e identitaria.
La prova che i progressisti europei hanno di fronte è senza dubbio impegnativa, ma ricca di opportunità se sapranno portare avanti un’opera di rinnovamento, a partire dalle proposte che dobbiamo mettere in campo. Per tornare a essere una forza di governo nella stagione politica che sta per aprirsi, non possiamo ritenere che sia sufficiente richiamarsi tout court agli schemi del passato. La crisi che stiamo vivendo, infatti, se da un lato ripropone l’attualità di alcuni grandi temi della sinistra riformista, dall’altro richiede nuovi approcci e strumenti per affrontarli.
In questo senso, sono convinto che il primo tratto fondamentale che deve caratterizzare questo progressismo rinnovato sia il rilancio dell’europeismo. Una strategia vincente non può prescindere da un pensiero riformista che faccia dell’Europa unita il proprio fulcro, ridando all’Unione nuova forza politica ed economica. Proprio per questo le forze progressiste chiamate alla prossima sfida elettorale stanno lavorando per presentarsi ai propri cittadini con alcune proposte comuni a livello europeo che affrontino la crisi economica, finanziaria e sociale.
Non si può continuare a pensare, infatti, ad una Unione che vada avanti a ranghi sparsi: è necessario dotare l’Europa di un propulsore autonomo, che si basi su alcune proposte per rilanciare la crescita, che sono da tempo al centro del progetto politico ed economico dei progressisti europei. Mi riferisco, ad esempio, alla financial transaction tax, all’emissione di eurobond, alla creazione di un’Agenzia indipendente per il debito. Strumenti a cui si deve accompagnare un piano di investimenti in infrastrutture, un pacchetto di misure per la valorizzazione e la tutela del lavoro, maggiori risorse per la ricerca, l’istruzione, le energie rinnovabili. Insomma, una risposta riformista che punti alla crescita economica e alla riduzione delle disuguaglianze, dopo il fallimento dimostrato dai governi delle destre che finora non hanno saputo proporre altro che rigore dei conti e misure fiscali restrittive.

Se le classi dirigenti europee non daranno prova di lungimiranza, se l’Unione non reagirà alla propria debolezza politica ed economica, il declino sarà inesorabile. Ci muoviamo, infatti, in un contesto di tumultuosi cambiamenti, anche nel quadro delle relazioni internazionali. Con la riduzione del potere di iniziativa dell’Occidente e l’emergere (o il ri-emergere) di nuovi attori sulla scena mondiale, l’intero assetto dei rapporti di forza tradizionali si sta scompaginando. Non a caso si usa definire il secolo appena iniziato come “il secolo asiatico”: dall’inizio della crisi finanziaria, nel 2008, il PIL cinese ha proseguito la sua crescita vertiginosa, a ritmi di circa il 10% l’anno, mentre l’Occidente fatica tuttora a riprendersi.
Cina, India, Brasile, Russia, Sudafrica non sono solo partner economici sempre più importanti, ma stanno assumendo iniziative politiche di primo piano a livello mondiale, anche grazie alla perdita di ruolo di Stati Uniti e Unione europea. Il cambiamento in corso è ben esemplificato dal fatto che un Paese come il Brasile, fino a pochi anni fa considerato tra i più poveri al mondo, è stato tra quanti hanno aderito al piano di salvataggio di Paesi europei come la Grecia o il Portogallo, e sta guidando oggi l’azione dei BRICS per un acquisto coordinato di bond europei.
Eppure, tutto questo non vuol dire che l’Europa sia necessariamente destinata a segnare il passo sullo scenario internazionale. Anzi. Sono fermamente convinto che possa e debba ancora giocare un ruolo centrale nel mondo, forte del patrimonio di valori, di cultura, di civiltà che la rende unica e che possiamo far valere, un patrimonio conquistato attraverso secoli di storia. E’ da qui che noi europei dobbiamo partire per ritrovare slancio e fiducia nel futuro. Non si tratterà più di muoversi in una logica di politica di potenza, questo è certo, ma è certo che il nostro messaggio non sarà meno importante che in passato.
Abbiamo l’opportunità di mostrare il nostro ruolo rinnovato accompagnando e sostenendo le rivoluzioni che agitano l’altra sponda del Mediterraneo. In fondo, i giovani protagonisti di queste rivolte aspirano agli stessi valori di democrazia e libertà che noi europei abbiamo conquistato nei secoli e che consideriamo ormai un patrimonio acquisito. Eppure finora l’Europa aveva colpevolmente chiuso un occhio di fronte alla negazione di tali principi da parte dei regimi autoritari che governavano in quella regione, in nome della presunta stabilità e sicurezza rispetto alle forniture energetiche, al controllo dell’immigrazione e del terrorismo.
I recenti avvenimenti ci hanno dimostrato, invece, che il mantenimento dello status quo non assicurava alcuna stabilità, anzi, non faceva che alimentare la rabbia di quei popoli che si sono infine rivoltati. Il nostro compito, oggi, deve essere quello di condannare con fermezza le violazioni dei diritti fondamentali e isolare i regimi che tuttora le perseguono. E dobbiamo essere noi a guidare questo processo, anche perché gli Stati Uniti oggi non sembrano in grado di poter dare una risposta coerente al dossier mediorientale. Pensiamo al contrasto tra i lungimiranti discorsi di Obama verso il mondo arabo e la calorosa accoglienza riservata dal Congresso – a maggioranza Repubblicana – nei confronti del premier Netanyahu in occasione della sua visita a Washington.
Solo l’Unione può intervenire con una proposta politica forte in questa regione, assumendo quel ruolo di guida che già ebbe nel 1989, quando propose ai Paesi dell’Est che si liberavano dal comunismo l’ingresso nella Comunità europea, a condizione che rispettassero alcuni parametri e i valori fondamentali di democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani.
Ecco, dobbiamo mettere in piedi un’operazione simile verso la sponda Sud del Mediterraneo. Penso a una forma di cooperazione stretta con l’Unione, non certo nella forma di un nuovo allargamento, ma che assuma comunque i lineamenti di una vera e propria comunità euro-mediterranea con i Paesi dell’altra sponda che scelgono la democrazia. Una proposta che non ripeta gli stessi errori di progetti vuoti come l’Unione per il Mediterraneo di Sarkozy, ma che abbia un vero significato simbolico e, soprattutto, politico.
Naturalmente, una seria azione credibile non può prescindere da una posizione incisiva sul conflitto israelo-palestinese. Per la nuova opinione pubblica araba, infatti, la soluzione del conflitto è un banco di prova fondamentale nel rapporto con l’Europa e gli Stati Uniti. In questo senso ho apprezzato molto la posizione di Javier Solana e Martti Ahtisaari, che hanno chiesto all’Unione europea di appoggiare la richiesta di Abu Mazen all’ONU. E’ evidente che il riconoscimento da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite non risolve il conflitto e che uno Stato palestinese può nascere solo da un negoziato con Israele, ma è anche chiaro che senza una forte pressione internazionale e una posizione chiara delle istituzioni globali, il risultato non si sblocca, anche per il rifiuto israeliano di fermare gli insediamenti in Cisgiordania. Se l’Occidente esita, noi rischiamo non solo che si faccia sempre più largo l’attivismo della Turchia di Erdogan, ma che oggi la Turchia e domani l’Egitto si spostino su posizioni antioccidentali.
Ho indicato i capitoli e le ragioni per le quali, a mio parere, i progressisti devono riprendere in mano la bandiera dell’europeismo per aprire una stagione che non dovrà essere socialdemocratica in senso classico. Certo, i socialisti ne saranno protagonisti, ma assieme ad altri. Dovremo muovere necessariamente sulla base di coalizioni, nelle quali troveranno spazio l’ambientalismo, il pensiero liberale di sinistra, le forze di ispirazione cattolica e religiosa, i movimenti provenienti dalla società civile. Penso a un centrosinistra di tipo plurale e aperto, sulla scia di quanto accade nei grandi Paesi del mondo. Solo così saremo in grado di affrontare le sfide cruciali che abbiamo di fronte con uno spirito rinnovato e con la forza necessaria per ridare all’Europa lo slancio di cui ha bisogno.


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