Discorso
26 settembre 2011

SOCIALDEMOCRAZIA: ECLISSE O RILANCIO?<br>

Intervento di Massimo D’Alema all’iniziativa promossa dall’Associazione Lavoro & Welfare e pubblicato dalla rivista Welfare-Lavoro di Cesare Damiano

Roma - Sede nazionale del Partito democratico


Partiamo dal titolo “Socialdemocrazia: eclisse o rilancio?” Per quanto mi riguarda, l’alternativa che ci pone la domanda è più complessa. La vera questione, che appassiona le stesse forze socialiste e socialdemocratiche, è piuttosto quella di come promuovere una nuova strategia o una nuova identità (tema, quest’ultimo, su cui il dibattito europeo è molto più prudente), in grado di creare le condizioni per una nuova stagione progressista in Europa. E, in tal senso, credo che siano davvero pochi gli esponenti del socialismo europeo a ritenere che ciò possa avvenire semplicemente sulla base di un rilancio della tradizione socialdemocratica.
Pertanto, a mio avviso, se non si tratta di una situazione di declino, perché per certi aspetti il movimento socialista viene riassumendo un ruolo centrale nelle dinamiche politiche europee, nemmeno si può parlare di rilancio, nel senso che questa rinnovata funzione non avverrà sulla base di un recupero del modello ideologico-sociale tradizionale delle socialdemocrazie. Se si volesse dare una risposta a questo dilemma, bisognerebbe quindi scindere drasticamente tra il modello sociale, che appare irrimediabilmente tramontato, e il movimento socialista, che è una forza vitale e costituisce l’asse di ogni possibile centrosinistra europeo. E’ chiaro, una coalizione progressista di tipo nuovo vedrà il movimento socialista in una condizione che sarà sempre meno quella di una forza esclusiva, ma certamente ne sarà componente fondamentale, e, se ce la fa, guida.
Su scala europea è indubbiamente così, ma oramai è così anche all’interno di gran parte dei singoli Paesi europei. Il che è già l’indice delle novità: sono venute meno le premesse del modello socialdemocratico. E non soltanto quelle di carattere socioeconomico, su cui si sofferma Giuseppe Berta nel libro “Eclisse della socialdemocrazia”, ossia quel modello che aveva come presupposto una certa composizione di classe delle società europee e una determinata visione economica del progresso europeo. E’ senz’altro venuta meno l’idea che la socialdemocrazia possa essere forza della redistribuzione della ricchezza, un’idea nata in società e sistemi economici che conoscevano soltanto la crescita e dove la funzione redistributiva di equilibrio sociale diventava fondamentale. Dunque, non ci sono più le premesse politico-istituzionali del compromesso socialdemocratico che faceva perno sullo Stato nazionale, la sua funzione e i suoi poteri.
E, aggiungerei, sono venute a mancare anche le premesse antropologiche. Se c’è una sconfitta della sinistra in Europa, a mio parere, è esattamente su questo livello: “l’homo socialdemocraticus”, animato da una fondamentale fiducia nel progresso economico e scientifico, è entrato in crisi di fronte alla globalizzazione, agli enormi cambiamenti e ai grandi interrogativi che il presente ci pone. In questo senso, paradossalmente, la destra tanto si è mostrata incapace sul piano del governo della crisi, quanto è stata egemone sul piano antropologico, nella capacità di percepire il sentimento di paura e di angoscia degli europei di fronte al mutamento del mondo e di offrire a questa paura la risposta di certezze antiche: la terra, il sangue, la religione… Risposte che sul fronte politico non hanno prodotto grandi risultati, non hanno invertito il declino europeo, anzi, per certi aspetti lo hanno addirittura accelerato. Ma sono risposte che si sono dimostrate molto efficaci dal punto di vista della capacità di riscuotere consenso, di suscitare empatie. La destra, infatti, ha mostrato una grande attitudine, che talvolta la sinistra con la sua ideologia ha perduto: ha saputo parlare al cittadino europeo medio, alle sue paure, alle sue angosce, alle sue incertezze, con tutte quelle conseguenze che abbiamo visto. C’è una grande letteratura, penso innanzitutto a Zygmunt Bauman, tesa a dimostrare come la crisi del modello socialdemocratico è stata anche una crisi culturale, filosofica, antropologica.
Nondimeno, il movimento socialista c’è, è sopravvissuto al venire meno delle premesse del modello socialdemocratico e si presenta oggi come la forza senza la quale –ripeto- non è possibile una nuova stagione progressista. Una nuova stagione progressista che per molti aspetti sembra venire avanti in Europa.
Penso, in primo luogo, alla recente vittoria in Danimarca, largamente trascurata dai media italiani che, tuttavia, hanno svolto un’analisi accurata della borsetta della signora Helle Thorning-Schmidt… Lì una coalizione verdi-liberali è riuscita a ottenere la maggioranza dei consensi, parliamo di un Paese in cui l’offensiva di destra era stata molto forte e nel quale si erano affacciate anche componenti di tipo razzista, etnocentrico, che sembravano aver acquisito un peso determinante nella vita politica. E, in fondo, il pensiero liberale di sinistra, l’ambientalismo, alcuni degli ingredienti della coalizione danese, fanno parte dei tratti identitari di una nuova coalizione progressista -la chiameremo così, per ora- europea.
Ma sono anche i sondaggi in Germania, al di là dei ripetuti risultati elettorali, a dimostrarci come una coalizione rosso-verde si mostri oggi, ragionevolmente, come la proposta politica più forte. Badate, parliamo della Germania della cancelliera Angela Merkel, ossia di un punto alto del governo dei conservatori in Europa. Eppure, con ogni probabilità, se saranno in grado di dar vita a un programma condiviso, a un’ispirazione comune, i socialdemocratici e i verdi potranno raggiungere un grande risultato. Al momento, infatti, secondo i sondaggi queste due forze messe assieme rappresentano circa il 50% dei voti, con una notevole capacità di recupero “a sinistra”, e con una coalizione che non ha bisogno della Linke per governare la Germania. Ciò non dovrebbe sorprenderci, perché si tratta della stessa coalizione che ha prevalso anche in lander di grande tradizione democristiana.
Andiamo verso le elezioni anche in Francia, dove, nel frattempo, è stato adottato dal Partito socialista il modello delle primarie aperte: non sappiamo ancora che impatto avranno nella loro tradizione, ma, certamente, la scelta che solitamente era affidata ai circa duecentomila iscritti (in Francia il Ps è un partito di élite, non è mai stato un partito di massa) coinvolgerà oltre un milione di elettori e di simpatizzanti. Una scelta, questa, che certamente darà forza a un candidato socialista che, sulla base dei sondaggi, sembra presentarsi come il candidato più forte al primo turno per le elezioni presidenziali. D’altro canto, è recente la notizia che i socialisti hanno conquistato per la prima volta la maggioranza al Senato. Non era mai accaduto nella storia della Francia, il che è il riflesso del fatto che essi governano largamente le amministrazioni locali e tutte quelle regionali.
Insomma, parliamo di due grandi Paesi fondatori dell’Unione, nei quali intorno al movimento socialista, certamente con caratteristiche in parte nuove, ma pur sempre con una presenza essenziale del Partito socialista e socialdemocratico, si delinea una possibile alternativa di governo.
E credo che, a maggior ragione in questo momento, vi sia l’urgenza di un cambiamento. Lo dico nella mia veste di presidente della Fondazione europea per gli studi progressisti, quindi quale partecipe del dibattito dei socialisti europei: è già largamente presente in questi partiti l’esigenza di candidarsi al governo in base a una riflessione critica sugli errori del passato. Quindi, quell’urgenza di cambiamento non è appannaggio esclusivo del nostro partito ma, in forme diverse, è qualcosa che attraversa tutta la sinistra europea. I nomi, certo, sono i figli della storia, delle tradizioni, ma è indubbio che sotto i termini socialista, laburista, socialdemocratico stiano avvenendo cambiamenti molto profondi, radicali, di cultura politica e di analisi della società. Altrimenti non si comprenderebbe perché forze che sembravano condannate a un inesorabile declino tornino a candidarsi come forze di governo in Paesi fondamentali dell’Unione europea.
Cosa significa non commettere gli errori del passato? Qui vorrei tornare a una parte del libro di Berta che concentra l’analisi dell’eclissi socialdemocratica sulla sconfitta della “terza via”, quasi con una critica da sinistra, che non di rado è tentazione di un certo pensiero cattolico. Ora, sono sempre abbastanza perplesso verso le critiche da sinistra nei confronti di partiti che rappresentano la sinistra e che, semmai, hanno maggiori problemi a destra.
Perché, è vero, la “terza via” è stata sconfitta. Quell’esperienza ha pagato un prezzo molto alto a una certa subalternità al pensiero neoliberale e a una visione ottimistica della globalizzazione. Tuttavia, non bisogna sottovalutare due aspetti.
Primo, non si deve tralasciare la funzione comunque positiva, e secondo me necessaria, che quella stagione ha avuto portando elementi di cultura liberale nella tradizione statalista del movimento socialista. La sconfitta della “terza via”, a mio avviso, non dovrebbe spingere i socialisti a rinnegare tali elementi di cultura liberale.
Secondo, non c’è stata solo la sconfitta del Blairismo. Non possiamo, infatti, trascurare il dato che nella sconfitta del movimento socialista, che quindici anni fa ha toccato la sua forza più grande in Europa, sia stata parallelamente vinta anche la resistenza ortodossa. Penso, in particolare, ai socialisti francesi. Voglio dire che così come si è rivelata illusoria l’idea che si potesse cavalcare la globalizzazione e “le sue magnifiche sorti e progressive”, si è rivelata parimenti illusoria l’idea che si potesse difendere il compromesso socialdemocratico nazionale nell’epoca della globalizzazione. E questo spirito antiglobalizzazione dei socialisti francesi è arrivato fino alla tragedia del referendum in cui una parte del gruppo dirigente ha votato contro l’Europa. Questo rappresenta una macchia non piccola, e anche perciò è oggi oggetto di una riflessione autocritica.
Poco tempo fa ho partecipato a un interessante seminario sull’Europa dei quadri socialisti dell’Alta Garonna, regione importante di forte tradizione socialista, in cui ha fatto il suo ingresso anche Lionel Jospin. In quell’occasione si è parlato esclusivamente dell’Europa, diventata ormai uno dei temi centrali del dibattito sia in Francia che in Germania. E, da parte di non pochi esponenti che allora sostennero la campagna contro la Costituzione europea (una componente importante del Ps, guidata da Laurent Fabius), ho ascoltato accenti sinceramente autocritici sugli effetti devastanti che il referendum francese ha avuto.
In definitiva, sappiamo che la “terza via” si è rivelata un’esperienza subalterna, non in grado di incidere sulla globalizzazione e sulle sue dinamiche, ma anche il vecchio socialismo ortodosso ha mostrato tutta la sua debolezza di fronte alle novità del mondo globale.
E’ importante ribadirlo, perché una nuova stagione progressista non potrà nascere soltanto dall’idea che dobbiamo tornare ai nostri principi, che abbiamo perduto perché li abbiamo traditi e che, in definitiva, solo una sinistra che riparte dai suoi principi può tornare ad essere una forza dirigente in Europa.
Certo, la crisi che stiamo vivendo ripropone l’attualità di alcuni grandi cardini della sinistra riformista. Mi riferisco innanzitutto al principio della necessità di un’azione pubblica, o, per meglio dire, di un primato della politica rispetto all’ideologia neoliberista antipolitica che ha dominato in questi anni e che nulla ha a che fare con il liberalismo democratico. L’ideologia liberista antipolitica, infatti, sostiene che bisogna accettare il dominio dell’economia, che la politica non serve o che deve esserne ancella. Ora, è chiaro che la crisi ha dimostrato il drammatico errore di questa impostazione e ha riportato in primo piano la necessità di un’azione pubblica, di un primato della politica.
L’altra grande idea-forza della sinistra riformista che torna attuale è il tema dell’eguaglianza. Il pensiero neoliberista ha prevalso sulla base dell’idea che la diseguaglianza fosse il motore dello sviluppo. Ma le enormi diseguaglianze sociali che si sono prodotte sono diventate uno dei fattori scatenanti della crisi e hanno costituito il vero ostacolo su cui è inciampata la crescita. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi da caduta della domanda, che evidentemente nasce dall’impoverimento delle classi medie, del mondo del lavoro. Insomma, si è rovesciato il paradigma neoliberista che vuole la diseguaglianza come motore di sviluppo e si è riproposta con forza l’esigenza di politiche per l’eguaglianza.
Tuttavia, nel momento stesso in cui tornano centrali questi due temi, muta il vento, altrimenti non si capirebbe perché la sinistra torna a vincere, o può tornare a vincere, in luoghi fondamentali d’Europa. Dobbiamo però sapere, a mio avviso, che gli strumenti con cui tradizionalmente abbiamo interpretato queste necessità non sono più attuali.
Se si pensasse davvero che la crisi del mondo globale rinazionalizzi le politiche economiche si compirebbe un errore gigantesco. E’ naturale, torna l’esigenza di un primato della politica, ma in termini radicalmente nuovi rispetto all’esperienza del Novecento. E, sia perché il primato della politica dovrà realizzarsi attraverso una capacità regolativa, di garanzia, e non con il ritorno alle gestioni pubbliche, sia perché esso comporta la costruzione di strumenti sovranazionali di governance, senza i quali non c’è alcun primato della politica ma semplicemente l’illusione di un protezionismo neonazionalista che non porta da nessuna parte.
Quindi, mutano gli strumenti e muta l’approccio. E si presenta un nuovo grande interrogativo: quali strategie per l’eguaglianza o, perlomeno, per ridurre le diseguaglianze in un’epoca in cui diminuiscono drasticamente le risorse pubbliche? E’ vero, noi dobbiamo difendere l’idea europea del welfare, ma dobbiamo sapere che occorre ripensarne radicalmente gli strumenti. Nei prossimi anni, infatti, la sfida tra politiche di sviluppo, di crescita e equilibrio dei conti pubblici, ossia come garantire un equilibrio tra rigore e crescita, sarà drammatica. E, dato che la moltiplicazione delle risorse pubbliche è un’operazione molto difficile, non credo che si possa pensare a politiche che contino esclusivamente su quest’ultime. Dunque, quali strategie per l’eguaglianza, in un’epoca in cui non si può garantire un vasto uso delle risorse pubbliche, è un altro importante problema che è tutto di fronte a noi.
Allora, se partiamo dall’idea che è possibile una nuova stagione progressista, credo che essa non sarà socialdemocratica nel senso classico del modello culturale e sociale proprio di quella esperienza. I socialisti, però, ne saranno certamente tra i protagonisti fondamentali: è questo il contesto europeo nel quale ci muoviamo.
Come è indubbio che questa nuova stagione muoverà sulla base di coalizioni progressiste all’interno delle quali saranno presenti il pensiero liberale di sinistra, i movimenti ambientalisti e quelli di ispirazione cattolica e religiosa. Pensiamo al tema della solidarietà, della welfare society, campo in cui l’esperienza cattolica è certamente straordinaria.
Si tratterà quindi di un progressismo plurale che dovrà cercare nuovi principi unificanti, che non saranno -ripeto- quelli del compromesso socialdemocratico e dello Stato nazionale che ne è garante. Un nuovo principio unificante non potrà che essere l’europeismo. D’altra parte, l’occasione perduta dei socialisti europei è stata proprio l’aver mancato, alla fine degli anni ’90, il salto di qualità nel processo di unità europea. Qui hanno pesato sia l’idea blairiana che non c’era bisogno di strumenti politici, sia le vecchie resistenze francesi e una certa idea dell’Europa delle nazioni. Quindi una nuova stagione progressista sarà se sarà europeista, o non sarà.
E, infine, vorrei esprimere la consapevolezza di un limite: il socialismo è stata una grande esperienza, ma non ha varcato i confini dell’Europa. Il che, nel tempo del mondo globale, non è un limite piccolo. Le forze politiche al governo nei grandi Paesi emergenti o negli Stati Uniti sono forze che non hanno una matrice socialista. Sono forze progressiste, cresciute fuori dalla dimensione culturale e ideologica del socialismo europeo. Si tratta di un dato della storia che consiglierebbe ai socialisti europei di avere il coraggio di andare oltre i confini, anche geografici, della loro esperienza storica.
In questo quadro, è evidente che nel contesto attuale, che richiede una politica a livello globale, ha pressoché perduto di ogni significato un contenitore come l’Internazionale socialista. Un contenitore che riflette, dal punto di vista geopolitico e culturale, un mondo che non c’è più: sede in Europa, presidenza europea… Oggi, invero, viviamo in un mondo in cui l’Europa rappresenta una porzione sempre più piccola della politica e dell’economia, e dove, paradossalmente, sono grandi forze progressiste quelle che governano in Brasile, in India, in Sudafrica.
Bisogna prendere atto che si è conclusa una storia e che occorre lavorare a ricostruire su basi nuove il profilo politico dei progressisti su scala globale. Ciò significa anche riconoscere, da parte dei socialisti europei, che essi stessi sono una componente di un movimento più ampio, che non può che definirsi progressista. E, d’altra parte, anche loro lo sanno, altrimenti perché, quando si muovono nel mondo, si danno nomi che richiamano il progressismo, come ad esempio il Global Progressive Forum? Evidentemente anche i nomi hanno un loro significato.
Prendere atto di tutto questo con una svolta radicale sarebbe una scelta coraggiosa. Ciò non vuol dire l’eclisse del socialismo, ma prendere atto che il suo spazio si è ridotto. Se avrà il coraggio di rompere le sue rigidità ideologiche e non essere prigioniero di un certo orgoglio del passato, il socialismo europeo potrà dare un contributo fondamentale a un movimento progressista su scala globale. Un nuovo movimento progressista che si candida ad essere il grande soggetto politico che fa i conti con la globalizzazione e che cerca di colmare quel gap tra politica ed economia che rappresenta il grande dramma del mondo di oggi.
Grazie.

stampa