Intervista
11 dicembre 2011

PIU' EUROPA, PIU' CRESCITA<BR><br>I PROGRESSISTI SI UNISCANO

Intervista di Umberto De Giovannangeli - L'Unità


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«L’operazione-salvezza che si è fatta in Italia con il governo Monti e le misure adottate hanno avuto un impatto importante sulle scelte compiute al vertice europeo di Bruxelles. Ora, però, occorre attrezzarsi per giocare la partita decisiva: quella della crescita. Una piattaforma europea per la crescita deve diventare, a mio avviso, l’impegno comune dei progressisti e del centrosinistra». A sostenerlo è Massimo D’Alema. «La crisi - rimarca l’ex premier ed ex ministro degli Esteri - spinge verso il rafforzamento di una dimensione europea. I conservatori l’affrontano centrando tutto sulla stabilità finanziaria e i patti intergovernativi; le forze progressiste devono puntare su una prospettiva marcatamente federalista e su uno sviluppo possibile».

Qual è il suo giudizio sul recente vertice di Bruxelles e quale Europa emerge da una tempesta finanziaria tutt’altro che conclusa?

«Il giudizio sul vertice è necessariamente complesso, articolato, tale da evidenziarne i risultati ottenuti e anche i problemi irrisolti. Ci sono stati passi in avanti, in particolare per ciò che concerne il meccanismo di salvaguardia contro i rischi speculativi. Una volta che tale meccanismo sarà portato a regime, con il rafforzamento dell’attuale Fondo salva-Stati - che avrà un impatto significativo sulle politiche di stabilità, grazie anche al ruolo più incisivo assunto dalla Bce - tutto questo dovrebbe determinare un’azione più efficace e solidale per affrontare il problema del debito. D’altro canto, ciò ha comportato il rafforzamento dei vincoli per quanto attiene il contenimento dei deficit e la messa a punto di misure sanzionatorie».

Luci e ombre, dunque…

«Iniziamo dalle prime, tutt’altro che scontate alla vigilia del vertice. Si può sostenere a ragion veduta che quello raggiunto a Bruxelles è un compromesso tutto sommato ragionevole. Si è trattato di un compromesso politico, non solo economico-finanziario, che nasce dalla presa d’atto della impraticabilità dell’idea della riforma dei trattati. In questo senso, la leadership “Merkozy” non è che abbia funzionato a meraviglia».

Il “compromesso di Bruxelles” lascia comunque aperti diversi problemi. Quali quelli più evidenti?

«I problemi esistono, e sarebbe un errore sottovalutarne la portata. Innanzitutto David Cameron si è chiamato fuori e dunque quelli messi a punto sono meccanismi a 26 e non a 27. L’assenza della Gran Bretagna porta con sé che il meccanismo di salvaguardia studiato è di carattere intergovernativo, il che comporta che la Commissione europea si configuri di fatto come un organo tecnico dei governi, mentre rischia di ridursi il ruolo del Parlamento europeo. Si pone insomma una grande questione di democrazia, di controllo, di trasparenza. L’altro aspetto che fa seriamente riflettere è quello che riguarda l’orizzonte della governance economica. L’orizzonte pare limitato, parziale, in quanto si limita all’aspetto della stabilità finanziaria e del debito, mentre rimane nell’alveo degli auspici, e nulla più, la necessità di un’azione coordinata a livello europeo per la crescita e l’occupazione. Per rimanere ai problemi irrisolti, resta il veto tedesco sugli Eurobond. Complessivamente si paga un debito all’egemonia conservatrice e monetarista in Europa. Sullo sfondo, resta il bisogno, che attende una risposta all’altezza, di politiche di sviluppo».

L’Italia del dopo-Berlusconi in Europa. Quale ruolo può giocare e con quali ambizioni?

«L’Italia ha il drammatico problema di tornare a giocare, perché l’Europa ci aveva messo fuori squadra. Da questo punto di vista, abbiamo fatto un recupero straordinario. Il punto di emarginazione, di discredito, quasi di vergogna, cui eravamo precipitati con il governo Berlusconi, non è noto agli italiani, ma è ben chiaro a quelli che leggono i giornali stranieri. Con il governo Monti siamo tornati ad essere guardati con rispetto e ascoltati. I risultati raggiunti al vertice di Bruxelles - una precondizione per attivare politiche di crescita - per quanto parziali non sarebbero stati possibili senza il governo Monti e le misure adottate nel nostro Paese. La paura del default dell’Italia avrebbe bloccato ogni meccanismo di solidarietà. Al contrario, l’operazione-salvezza che si è avviata in Italia ha avuto una ricaduta importante nella definizione di quei meccanismi solidali di cui abbiamo parlato».

A suo giudizio il compromesso finale è stato tutto sommato positivo. Ma resta la domanda: per quale finalità?

«La finalità è giocare la partita più difficile, quella che vale un campionato. È la sfida politica della crescita, che rimane il vero grande problema del’Europa e che necessita di uno sforzo comune. Ma in questa partita credo che l’Italia possa e debba giocare un ruolo di primo piano».

Una sfida che chiama in causa i progressisti europei…

«Direi proprio di sì. Una piattaforma europea per la crescita deve diventare l’impegno dei progressisti e del centrosinistra. E questo anche nella prospettiva delle scadenze elettorali più importanti dei prossimi 18 mesi: le elezioni presidenziali in Francia, e quelle legislative in Italia e in Germania. Un’iniziativa comune è possibile, oltre che necessaria. Sono sempre più convinto che il primo tratto fondamentale che deve caratterizzare questo progressismo rinnovato sia il rilancio dell’europeismo. Una strategia vincente non può prescindere da un pensiero riformista che faccia dell’Europa unita il proprio fulcro, ridando all’Unione nuova forza politica ed economica. Proprio per questo le forze progressiste chiamate alle prossime sfide elettorali stanno lavorando per presentarsi ai propri cittadini con alcune proposte comuni a livello europeo che affrontino la crisi economica, finanziaria e sociale»

Su quali basi si può fondare l’impegno comune delle forze di centrosinistra dell’Europa?

«Le basi sono già delineate: sono quelle che mirano ad una efficace governance macroeconomica europea che si avvalga di strumenti tipicamente progressisti, quali la Financial Transaction Tax, un’Agenzia europea per il debito, l’emissione di Eurobond. Dobbiamo anche impegnarci per ridefinire una vera politica sociale europea, fondata sul lavoro, promuovere la ricerca, incentivare la riconversione verso una green economy, riformare i mercati finanziari. In questa ottica, lascia ben sperare il giudizio negativo del segretario del Labour Party Ed Miliband sull’antieuropeismo del primo ministro conservatore. La presa di posizione di Miliband è un buon segnale. Vuol dire che esiste un mondo politico, il nostro - quello delle forze laburiste, socialdemocratiche, progressiste, di centrosinistra europee - che si qualifica come quello più coerentemente europeista. Occorre avere piena consapevolezza che la crisi spinge decisamente verso il rafforzamento di una dimensione europea. Le ricette nazionali sono destinate al fallimento. La sfida è su quale Europa costruire. I conservatori puntano esclusivamente sulla stabilità finanziaria e su intese intergovernative. L’orizzonte dei progressisti deve essere altro: un’Europa più federalista, che ha al suo centro la crescita e lo sviluppo. Un’Europa possibile, proiettata nel futuro».

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