Discorso
16 maggio 2009

INIZIATIVA SU ALDO MORO CON D’ALEMA E GERO GRASSI

GIOVANI DEMOCRATICI DI BARI


Non inizierò il mio intervento dal principio, bensì dalla fine. Voglio dire che comincerò dal momento in cui Moro fu rapito, da quella giornata così drammatica e cruciale per la storia d’Italia, in cui si presentava alle Camere il governo presieduto dall’on. Andreotti. Si trattava, invero, della prima volta che un governo democristiano riceveva il voto favorevole del Partito comunista: un governo di solidarietà nazionale che rappresentava l’apice della tessitura politica del nuovo esecutivo.
La cruciale legislatura, apertasi con le elezioni del ’76, era caratterizzata proprio da questo inedito equilibrio delle forze: il Partito comunista aveva raggiunto il massimo storico e la Democrazia cristiana aveva recuperato terreno rispetto alle amministrative del ’75, anche perché aveva raccolto un voto moderato di fronte all’avanzata comunista, attestandosi al 38% rispetto al 34% del Pci. Erano due grandi forze che si bilanciavano e che, in un momento di acuta crisi del Paese, all’indomani delle elezioni politiche, formarono il governo che fu chiamato della “non sfiducia”. Grazie all’astensione del Pci, questo governo avviò la legislatura, ma a un certo punto si creò una situazione di stallo. La non sfiducia, infatti, era una condizione di precarietà, perché il governo, fondandosi sul voto favorevole della Dc e sulla astensione degli altri partiti, aveva una base minoritaria in Parlamento.
La conseguenza di tutto ciò fu che, di fronte a una grave crisi economica e sociale, quel governo apparve debole. E, nel 1980, i dati dell’economia erano disastrosi. La situazione dell’Italia trent’anni fa era praticamente come quella di oggi, con la differenza che allora c’era una classe dirigente che ne aveva la percezione e cercava di fornire delle risposte. Ebbene, in quel momento di grande crisi, prevalse la necessità di fare un passo in avanti, e cioè di rafforzare quell’esecutivo passando dalla condizione di non sfiducia al governo della solidarietà. Progetto al quale Moro aveva lavorato molto.
C’era un rapporto personale forte tra Moro e Berlinguer. Non ho mai partecipato direttamente a un colloquio tra i due, ma facendo parte della direzione del Pci, in quanto segretario dell’organizzazione giovanile, ho avuto la possibilità di raccogliere molte testimonianze da personalità come Antonio Tatò o Luciano Barca. Ebbene, si dice che il dialogo tra questi due uomini fosse straordinario perché parlavano pochissimo, erano estremamente riservati e si intendevano con una rapidità assoluta. Berlinguer si fidava di Moro, cosa che non avveniva con altri capi democristiani, e Moro si fidava di Berlinguer. Insomma, erano due uomini politici che, al di là della differenza delle storie, avevano un grande rispetto l’uno dell’altro.
Alla fine fu costruita l’alleanza, ma Moro dovette pagare un prezzo alto, perché dentro la Dc c’era una resistenza molto aspra all’idea di dar vita a un governo sostenuto dai comunisti. Nacque un governo che rappresentava l’unità della Democrazia cristiana e non aveva un profilo innovativo, anche perché c’erano molte personalità consumate. Insomma, non era un governo brillantissimo. Tuttavia, Moro dovette garantire la tenuta del suo partito in un passaggio così delicato, così importante. Dall’altra parte, c’era una forte tensione nel Partito comunista, perché ovviamente l’ipotesi di votare la fiducia a un governo con quelle caratteristiche aveva suscitato molte contrarietà.
Dunque parliamo di una giornata carica di tensioni, perché si presentava alle Camere un governo di solidarietà nazionale per la prima volta nel Dopoguerra, ma anche carica di incognite, perché quel governo suscitava delle avversioni.
Ricordo bene quella mattina. Vivevo a Roma, a Villa Bonelli, e non lontano da me abitava mio padre che, in quel momento, rivestiva la carica di presidente della commissione Finanze della Camera dei Deputati. All’inizio della legislatura, infatti, i comunisti assunsero alcuni importanti ruoli istituzionali, in quanto erano diventati una forza nell’ambito della maggioranza, sia pure nella forma dell’astensione. La sede della Fgci era in via della Vite, a due passi dal Parlamento, e tutte le mattine mio padre ed io andavamo a lavorare insieme, con una sola automobile. Uscivo presto, mi incamminavo verso la casa dei miei genitori e con mio padre ci vedevamo all’angolo di via Camillo Montalcini. E’ un fatto che mi è rimasta in mente tutta la vita: ogni mattina ci incontravamo davanti al garage dove poi Moro sarebbe stato tenuto prigioniero dalle Brigate Rosse. E quel giorno, mentre ci stavamo recando a lavoro, arrivò la notizia del suo rapimento e del massacro della scorta.
Era un momento in cui Moro non ricopriva alcuna carica istituzionale: non era capo dello Stato, non era capo del governo, non era presidente della Camera, e non era neanche leader della Dc, perché il segretario era Benigno Zaccagnini. Eppure la sensazione di tutti gli italiani fu che era stata colpita la persona che più di ogni altra rappresentava il punto di equilibrio del sistema democratico, in quanto protagonista, tessitore della democrazia, uomo che, avendo la visione più lucida del processo di evoluzione democratica del Paese, ne era il portatore e il garante. Al di là della carica, dunque, era la forza della sua personalità, il suo carisma mite che gli garantiva quella funzione, avvertita da tutto il Paese.
Ricordo bene anche la drammatica riunione della direzione del Partito comunista che si svolse la stessa mattina del rapimento di Moro. Il Pci era un partito molto centralista, ma la direzione era un organismo veramente democratico, ristretto, nel quale si discuteva di politica in modo estremamente aperto, ma poi si votava e la posizione assunta veniva appoggiata da tutti. Si usciva compatti. Anzi, normalmente chi era contrario alla decisione, veniva incaricato di annunciarla. Una sorta di contrappasso! Però -ripeto- dentro quella ristretta oligarchia la democrazia era totale.
Quella mattina ci fu una discussione rapida. Amendola, come al solito, fece un intervento molto breve, forse meno di tre minuti, e incisivo. Disse: “Io sarei stato contrario a questo governo. Adesso, però, è in gioco la democrazia e bisogna immediatamente votare a favore”. E aggiunse: “Credo che saremo posti di fronte a un problema drammatico, cioè se lo Stato debba o meno trattare con i terroristi. Io non credo che lo si possa fare”. Erano persone che avevano una grande forza, una chiarezza di visione. Effettivamente, fu poi votata la fiducia al governo e si aprì quella lunga fase del compromesso storico.
Ma vorrei tornare sulla figura e il ruolo di Moro. Perché era percepito come il baricentro, la personalità che, più di ogni altra, appariva una garanzia per la tenuta del sistema democratico? Naturalmente, per capirne le ragioni bisognerebbe ripercorrere interamente la sua vicenda politica. In ogni caso, un elemento determinante è stato certamente il fatto che Moro rappresentava un’idea della politica come processo di consolidamento delle istituzioni democratiche del Paese.
La democrazia italiana è fragile. Innanzitutto, perché siamo un Paese giovane. La nostra Unità è storia recente. Pensiamo al fatto che noi ci apprestiamo a celebrare 150 anni, mentre la Cina 4500. Ma la nostra è anche un’Unità precaria, sia perché il nostro passato è pluristatale, sia per la portata delle contraddizioni interne tra Nord e Sud. Inoltre, la nostra storia democratica, segnata dalla dittatura fascista, è stata estremamente incerta. Il processo stesso di nascita dello Stato italiano è avvenuto per iniziativa di avanguardie, con una limitatissima base popolare. Il Risorgimento, infatti, ha visto come protagonisti delle minoranze, il popolo del Mezzogiorno fu ostile e fu piegato soltanto attraverso una lunga e sanguinosa guerra civile.
In questo quadro, quindi, la percezione fu che il Paese, giovane e con una democrazia fragile, avesse bisogno della politica e dei partiti, la cui azione doveva essere finalizzata principalmente al consolidamento della democrazia, allargandone le basi di massa e includendo settori della società che erano rimasti estranei alla storia nazionale.
Vedete, nella visione morotea, quello della politica non era un compito partigiano. Cuore della esperienza morotea è la politica intesa come strumento di rafforzamento della democrazia. Tutta l’azione di Moro ha avuto al centro questa esigenza. E’ per questi motivi che con lui si è colpito uno dei fondamenti del nostro sistema democratico. Quel gesto è stato percepito da tutti gli italiani, a prescindere delle opinioni politiche, come un attacco alla democrazia, perché diretto contro l’interprete più lucido di una concezione della politica come radicamento del sistema democratico nella tradizione nazionale.
Di fronte a un attacco simile, proprio per la debolezza della nostra democrazia, si rese necessaria l’assunzione di una comune responsabilità da parte delle grandi forze politiche. E, al di là della diversità delle risposte, perché terza fase e compromesso storico non erano la stessa cosa, i due protagonisti, Moro e Berlinguer, condividevano una visione pessimista della fragilità della democrazia italiana e, quindi, l’idea della responsabilità della politica, oltre i sentimenti di parte, per il rafforzamento del sistema democratico.
Ora, la mia ricostruzione non vuole certo avere carattere rievocativo, piuttosto suscitare l’interesse culturale intorno a un grande protagonista.
In questa prospettiva, un altro aspetto importante riguarda il modo in cui Moro contribuì alle stagioni del riformismo italiano, nel dialogo tra le culture costitutive del sistema democratico. Un riformismo che ha avuto una storia molto particolare. Perché mentre la dialettica politica, in molti Paesi europei è stata bipolare tra due schieramenti, quello riformista e quello conservatore, nell’Italia del Dopoguerra il riformismo ha rappresentato una tradizione politico-culturale trasversale agli schieramenti. Tanto è vero che le riforme nel nostro Paese sono state il frutto di un dialogo tra i partiti e del prevalere delle componenti riformiste al loro interno, sulla base di una spinta che veniva dalla società.
E nella Dc Moro è stato senza dubbio uno dei più grandi interpreti del riformismo cattolico. Certo, non fu l’unico. Ad esempio, penso al ruolo che ebbe una personalità come Amintore Fanfani. Ma la Democrazia cristiana esprimeva anche il conservatorismo cattolico. Si trattava, invero, di un partito con un’originale costruzione in cui l’unità politica dei cattolici ha consentito di tenere insieme le due componenti.
Il riformismo di Moro, però, ebbe una caratteristica originale rispetto a quello di Fanfani, perché fu fortemente influenzato dalla sua visione della politica. Volendo collocarla nel presente, la sua idea della politica rappresenta esattamente l’opposto, sotto ogni profilo, di quella dell’attuale presidente del Consiglio. In effetti, se dovessi pensare a due figure totalmente contrastanti, dal punto di vista culturale, antropologico, nella storia del nostro Paese, esse sarebbero certamente loro: Aldo Moro e Silvio Berlusconi. Per fare solo un esempio, a Moro non sarebbe mai venuto in mente di predicare la “politica del fare”, un’espressione che appare così brillante, ma che nel merito non produce nulla di utile.
Nella visione morotea della politica, infatti, vi era un primato dell’aspetto etico-culturale. Essa era intesa, innanzitutto, come capacità di interpretare la società, i suoi movimenti profondi, i suoi bisogni e da questa interpretazione la politica doveva far scaturire le scelte necessarie per accompagnare un’evoluzione della società stessa. Inoltre, c’era un’idea profondamente democratica del suo limite: la politica, certamente, era importante, ma non era tutto, e per questo era necessario sviluppare una dialettica con la società civile.
In questo senso, Moro fu uno straordinario lettore dei grandi processi sociali. Per capirlo, è sufficiente rileggere ciò che scrisse sul ’68, l’intuizione della portata profonda e sconvolgente di quello che stava avvenendo nella coscienza giovanile e, quindi, del bisogno, per la politica, di adeguarsi e costruire delle risposte.
Il riformismo di Moro, invero, non è un’azione che violenta i processi sociali. Apparentemente passiva, la sua visione contiene una rilettura dell’idea gramsciana dell’egemonia.
Secondo Gramsci, l’egemonia non consiste nell’esercizio o nell’esibizione dell’autorità. L’autorevolezza della politica deriva innanzitutto dal suo primato etico-culturale, dunque da quella capacità di comprendere, di interpretare e di anticipare gli esiti dei grandi processi sociali. Vedete, c’è qualcosa di taoista in questa idea di egemonia. Il principio fondamentale di quella filosofia, infatti, è il non agire. Il contrario del fare. E’ un non agire, però, che ha prodotto una delle società più sviluppate e più ricche del mondo. Parliamo, dunque, di un’idea particolare del non agire, nel senso di non violentare il corso profondo delle cose, ma di saperle interpretare, accompagnarle, farle maturare.
Ebbene, questa visione della politica ha prodotto grandi riforme e grandi avanzamenti del Paese. L’apparente immobilismo della Prima Repubblica, che oggi viene definito con un termine spregiativo “consociativismo”, ha determinato un’importante modernizzazione dell’Italia. Siamo passati dalla condizione di Paese devastato dalla guerra all’essere la quinta potenza industriale nel mondo. Nella Seconda Repubblica, le poche importanti riforme le ha fatte il centrosinistra, in particolare nella seconda metà degli anni Novanta. Penso alla scelta di entrare nell’euro, alla riforma delle pensioni, allo scioglimento dell’Iri. Al contrario, la cosiddetta “politica del fare” non ha prodotto alcuna riforma importante.
Anno cruciale per le riforme è stato il 1978. Mi riferisco, in primo luogo, alla riforma che ha introdotto il Servizio sanitario nazionale, grazie alla quale oggi l’Italia è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra i primi Paesi al mondo dove la tutela della salute dei cittadini è più universalmente garantita. Un Paese in cui tutti hanno diritto alle cure, anche a quelle specialistiche. Badate, è una conquista della civiltà. Penso alla legge 180, che è stata, nonostante i problemi nella sua applicazione, una delle riforme più avanzate che ha avuto il merito di porre fine alla segregazione dei malati di mente. E il ‘78 è anche l’anno della legge 194, che rappresenta una testimonianza altissima di come questa idea della politica fosse accompagnata a una concezione della laicità dello Stato e a una visione altrettanto laica del ruolo dei cristiani nella politica. Un comportamento che non richiedeva la rinuncia ai propri valori, ma questi dovevano convivere con la laicità dello Stato. La legge sull’interruzione della gravidanza fu approvata con la netta contrarietà della Democrazia cristiana che era al governo del Paese. La Dc, tuttavia, non usò mai il ricatto del governo per impedire quella riforma e accettò che si formasse in Parlamento una maggioranza che la isolasse. E parliamo di un provvedimento che metteva radicalmente in discussione i valori costitutivi di quel partito, perché una cosa sono le convinzioni religiose, un’altra è la laicità dello Stato.
In generale, di questa idea laica dello Stato e della politica, Moro fu uno straordinario interprete. Vorrei citare, in proposito, un brano di un discorso che egli tenne al Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, all’indomani del referendum sul divorzio. E’ un passaggio importante, che trovo molto bello: «Settori dell’opinione pubblica sono oggi ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani -penso al dibattito odierno sulla biopolitica-. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando di realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Il linguaggio di Moro non era mai impattante, ma le affermazioni venivano presentate in modo graduale, sottile. Insomma, il capo della Dc diceva ai democristiani di testimoniare i propri valori nella società e che non era possibile pensare di imporli con la forza della legge, perché lo spirito del tempo richiede libertà.
Se confrontiamo queste parole con il dibattito pubblico italiano di oggi, ci rendiamo conto del significato di una visione democratica della politica, dell’abisso che ci separa da allora. Tra l’altro, viviamo un tempo in cui vi sono alcuni che vogliono imporre con la legge certi valori tradizionali, mentre nella loro vita personale testimoniano esattamente il contrario. E’ davvero difficile pensare a qualcosa di più lontano rispetto all’idea di Moro, che afferma al tempo stesso la laicità dello Stato e il rispetto della libertà. Un’idea che riconosce il limite della politica, che non può pensare di imporre per legge principi etici religiosi, considerando contemporaneamente la testimonianza dei cristiani, i quali non rinunciano a predicare i loro valori nella vita sociale. Ecco, ritengo che questo sia un aspetto imprescindibile della lezione morotea.
Naturalmente, questa grande tradizione laica fu della Democrazia cristiana, non soltanto di Moro. Certamente, primo straordinario interprete ne fu Alcide De Gasperi. Andrea Riccardi, nel suo bel libro “Pio XII e Alcide De Gasperi – Una storia segreta”, ha ricostruito la vicenda drammatica del conflitto tra De Gasperi e la Santa Sede a proposito delle elezioni comunali di Roma. Un conflitto nato quando la Santa Sede, spaventata dalla possibilità che i socialcomunisti potessero assumere l’amministrazione della “Città eterna”, cercò di spingere la Dc ad un’alleanza di centrodestra, ma De Gasperi dissentì. Ciò portò a una drammatica rottura, anche personale: il Papa rifiutò persino di riceverlo. Si tratta di una vicenda che Riccardi ricostruisce in modo straordinario, riportando anche il colloquio tra il Legato pontificio e la moglie di De Gasperi, quando lei gli disse: «Si, noi siamo anticomunisti, siamo cristiani, siamo rispettosi della Chiesa, ma siamo anche antifascisti».
Ora, se Moro non fu l’unico, tra le personalità della Dc fu, sicuramente, una di quelle che seppe raccogliere meglio il senso di quella tradizione e la collocò dentro la sua visione della politica e dei suoi limiti. Una visione che si discosta da quella comunista, in cui era preminente l’idea dell’onnipotenza della politica come levatrice della storia. In Moro, infatti, era molto forte l’idea del primato della persona, dei suoi diritti naturali, in uno Stato che li riconosce, non li stabilisce. Solo dopo il riconoscimento di questo primato c’era lo Stato.
E’ dunque la politica, quella che deve interpretare, accompagnare i grandi processi sociali senza forzarli né costringerli entro dei limiti, a produrre grandi riforme per il Paese. Non certo la cosiddetta “politica del fare”.
Se noi ci rendiamo conto della complessità della storia del riformismo italiano, in particolare del fatto che non è stato patrimonio di un partito o di una parte, ma qualcosa che ha attraversato l’intero campo politico, comprendiamo meglio anche le radici del Partito democratico. Cioè possiamo capire come sia stata possibile l’idea di costruire un grande partito con delle radici plurali, di cui ciascuno è testimone, ma che hanno un tratto comune, perché si riferiscono alle diverse tradizioni del riformismo italiano. In questo senso, il Partito democratico è plurale, perché unisce. Pluralità non è sinonimo di confusione.
Vorrei concludere toccando un altro punto importante dell’eredità morotea che abbiamo cercato di raccogliere. Mi riferisco al contributo che questa tradizione democratica ha dato alla definizione di una politica estera italiana, che è poi diventata patrimonio comune delle grandi forze politiche del Paese.
Moro e Fanfani, infatti, hanno sostenuto sia la scelta atlantica, l’alleanza con il campo occidentale, con gli Stati Uniti d’America, sia la scelta europea, interpretando con grande radicalità la vocazione europeista dell’Italia. Tuttavia, in questo contesto euroatlantico, non è mai stata trascurata l’aspirazione dell’Italia a essere Paese del dialogo.
Paese del dialogo verso l’Est, perché nella politica estera italiana si riflettevano due nostre peculiarità: l’universalismo cattolico, in quanto sede della cristianità, e la presenza di un grande Partito comunista, visto più come un’opportunità che come un problema. Il Pci, infatti, rendeva l’Italia il Paese occidentale che meglio poteva sviluppare una politica del dialogo e della coesistenza pacifica con l’altra parte del mondo. La Dc interpretò il ruolo di frontiera dell’Italia anche come Paese del dialogo verso il Sud: la dimensione mediterranea, il rapporto con il mondo arabo, la collocazione come grande potenza europea non coloniale, o con una limitatissima tradizione coloniale e, quindi, più aperta al dialogo con il nazionalismo arabo. Tra l’altro, sempre sfruttando la peculiare collocazione geografica del nostro Paese, si utilizzò la politica estera come uno strumento per rafforzare la posizione economica dell’Italia. Penso, innanzitutto, al ruolo che ha avuto l’Eni nel Mediterraneo, dove interessi e valori erano elementi costitutivi di una politica estera e di una visione internazionale dell’Italia.
Ecco, a mio parere, ciò che importa è proprio questa interpretazione del duplice ruolo dell’Italia: fermezza della difesa della collocazione euroatlantica, ma, allo stesso tempo, visione dinamica nel dialogo, nella coesistenza pacifica, nel rapporto con i nuovi Paesi emergenti.
Nella nostra esperienza abbiamo cercato di riprendere questa grande tradizione, che non ha mai fatto del nostro Paese un soldatino della politica americana. Lo è diventato successivamente, negli anni Berlusconi-Bush, ma questo è, a mio giudizio, un periodo che si colloca fuori dal solco della grande politica estera italiana. Una politica estera che all’inizio fu voluta dalla Democrazia cristiana, nella dialettica con i comunisti che avevano rotto il Patto atlantico, tuttavia, alla fine, sulla base di quei fondamenti si è costruita una visione condivisa, e fu una vittoria della Dc.
Uno dei risultati più importanti degli anni della solidarietà nazionale, infatti, fu proprio l’approvazione in Parlamento di un documento di grandissimo respiro sui lineamenti della politica estera italiana, condiviso da tutte le grandi forze politiche democratiche. Un documento che, in una visione di lungo periodo, resta il fondamento della visione che abbiamo ancora oggi. Certo molte cose sono cambiate, ma quell’ispirazione di fondo rimane a mio giudizio attuale.
Grazie.

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