Discorso
5 maggio 2011

Intervento di Massimo D’Alema a "L'EMIGRAZIONE NELLA STORIA UNITARIA"

Convegno promosso dal Centro Studi PD e da PDMondo - Teatro dei Comici, piazza di Santa Chiara, Roma


Vorrei ringraziare, in primo luogo, il Centro Studi PD per avermi coinvolto in questa iniziativa, durante la quale ho potuto apprezzare contributi che ho trovato di grande interesse sia sul piano dell’analisi culturale, dei processi e dei dati, sia dal punto di vista della proposta politica.
Farò una riflessione solo in parte relativa all’attualità politica, perché preferirei affrontare un discorso più generale su questo grande tema, che giustamente avete riproposto all’attenzione del Paese: quale rapporto, quale politica, quali prospettive ha l’Italia verso gli italiani nel mondo e i loro discendenti. Mi riferisco sia all’Italia delle istituzioni e delle autonomie locali, che al sistema delle imprese.
Ebbene, quale progetto abbiamo nei confronti di quest’altra Italia che ha messo radici fuori dal nostro Paese e rappresenta una parte importante della società civile in diverse parti del mondo? La presenza italiana, infatti, è certamente molto rilevante nel continente americano, ma piccoli e grandi comunità di italiani sono presenti anche in Europa, in Australia, insomma, in ogni continente.
A questo proposito, ricordo sempre un episodio che riguarda uno dei nostri diplomatici più attivi, l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, il quale si è battuto alle Nazioni Unite contro la riforma del Consiglio di sicurezza che proponeva di allargare la platea dei membri permanenti a Germania e Giappone. Una riforma che avrebbe portato l’Italia a essere la prima degli esclusi dal novero di quei membri. Una riforma che, quindi, abbiamo sempre contrastato perché particolarmente umiliante nei confronti del nostro Paese.
Tuttavia, molte grandi nazioni erano favorevoli a quella proposta, in primis gli Stati Uniti. Ciò comportava che l’Italia, per vincere la sua battaglia, avrebbe dovuto trovare i numeri all’interno dell’Assemblea generale. Ora, l’Assemblea dell’Onu ha una particolarità relativa al meccanismo decisionale: “un Paese, un voto”. Questo vuol dire, ad esempio, che il voto delle Isole Palau vale come quello degli Stati Uniti. Cercare i voti può diventare, quindi, un’esperienza interessante. A questo scopo, l’ambasciatore Fulci consultò gli elenchi telefonici di tutti i Paesi nei quali vi erano degli italiani. Spesso si trattava, tra l’altro, di connazionali che avevano fatto fortuna. Ebbene, malgrado un certo ascendente degli Stati Uniti nell’area, ottenemmo il sostegno di quasi tutte le isole del Pacifico, proprio grazie all’influenza di uomini d’affari italiani che si erano stabiliti lì nel corso degli anni e che avevano una notevole capacità lobbistica nel condizionare i sistemi politici locali.
Dico questo perché, evidentemente, esiste una straordinaria rete di italiani che vivono in tutto il mondo. Una parte di essi possiede la cittadinanza e il diritto di voto nel nostro Paese, ed è piuttosto numerosa: parliamo di 4 milioni di persone. Di questi, però, coloro che esercitano effettivamente il diritto di voto e partecipano alla vita associativa rappresentano un numero decisamente più ristretto. Parliamo, in sostanza, di uno “zoccolo duro” di una realtà enormemente più vasta, composta dai circa 60 milioni di italo-discendenti in tutto il mondo.
Oggi dobbiamo interrogarci su questa presenza così numerosa e rilevante di italiani nelle società di alcuni grandi Paesi e continenti: cosa rappresentano? Costituiscono un punto di forza per l’Italia? Senza dubbio lo sono stati nel passato. E non solo perché hanno contribuito con le loro rimesse alla crescita del Paese, ma anche perché hanno determinato un legame straordinario tra un Paese provinciale e arretrato, quale era allora l’Italia, e il resto del mondo, contribuendo all’apertura di nuovi orizzonti. E lo hanno fatto nel modo molecolare che è tipico della società italiana, attraverso mille relazioni familiari. Insomma, i rapporti con il mondo sono stati un punto di forza di un Paese che si è costruito come nazione solo in tempi relativamente recenti.
A maggior ragione credo che oggi, nell’era della globalizzazione, la rete degli italiani all’estero possa costituire qualcosa di più per il nostro Paese. A cominciare, ad esempio, dalla capacità di imporre il marchio Italia, inteso come stile di vita e modello di consumo, come modo di mangiare, vestirsi, ascoltare la musica… Si tratta di un contributo straordinario, che pochi Paesi possono vantare e che concorre a sostenere in modo significativo il sistema Italia in un mercato internazionale sempre più competitivo.
Purtroppo, nei fatti approfittiamo ben poco di questa opportunità. Pensiamo a quanto è sottoutilizzata la rete della gastronomia italiana nel mondo. La nostra è seconda soltanto a quella cinese, ma questa è stata un grande strumento di penetrazione culturale ed è ancora alimentata in modo sostanziale dalla Cina, anche dal punto di vista dell’approvvigionamento. Al contrario di gran parte della nostra rete alimentare, con il marchio Italia che è diventato simile a un franchising.
Basta considerare che la più grande multinazionale della pizza è canadese, per dimostrare che abbiamo dato al mondo il prodotto alimentare forse più popolare e più diffuso, ma siamo riusciti comunque a fare in modo che se ne smarrisse l’italianità. È un esempio che può far sorridere, ma è interessante per capire come il nostro Paese si sia sempre occupato poco o male di “quell’altra Italia”.
All’origine di tutto questo, a mio parere, c’è una ragione profonda che risiede in una sorta di senso di colpa, una volontà di rimozione del fenomeno migratorio. Queste persone, d’altra parte, sono emigrate come un popolo senza nazione. Sono espatriati: veneti, calabresi, napoletani, che, solo per convenzione, venivano chiamati tutti insieme “italiani”. Non scordiamoci, infatti, che l’esodo è cominciato prima che fosse fatta l’Italia.
A questo proposito, mi è capitato spesso di raccontare quanto accadde durante il primo vertice euro-latinoamericano con Fernando Henrique Cardoso, un grande intellettuale, un ottimo presidente del Brasile che ha preparato il terreno a un successore ancora più bravo. In quella occasione Cardoso fece un bellissimo discorso sull’influenza dell’Europa nella storia e nella formazione dell’America Latina. Fu significativo che, nel riferirsi ad alcuni Paesi europei, disse ”la Spagna”, “il Portogallo”, “la Francia”, “l’Inghilterra”… Quando parlò del nostro Paese, invece, disse gli “italiani”, non pronunciò mai “l’Italia”. Questo perché in Brasile non si ha una chiara percezione di cosa essa sia, mentre gli italiani sono ben conosciuti, poiché costituiscono una parte rilevante di quella società.
Ripeto, il fatto che quella italiana sia stata, in sostanza, l’emigrazione di un popolo senza nazione, spiega molto bene anche l’evoluzione del ruolo che gli italiani nel mondo hanno assunto nelle società in cui si sono stabiliti. Essi, in realtà, hanno avuto uno scarso peso sul piano politico e istituzionale, ma una forte influenza nelle società civili. In questo contesto, abbiamo sì esportato la nostra capacità imprenditoriale, ma non è successo altrettanto con la lingua italiana, anche perché essa non era nemmeno parlata da gran parte di coloro che espatriavano.
Incontrare questo mondo e scoprirne il profondo legame con l’Italia, patria lontana, è qualcosa di toccante. Entro i confini il nazionalismo non commuove, ma laggiù, in America Latina, è diverso.
Tempo fa, andai a fare campagna elettorale tra le montagne del Rio Grande, nella Sierra, nel sud del Brasile, dove si sono stabiliti i nostri connazionali. Scelsero quella zona perché arrivarono dopo i tedeschi, che, insieme ai portoghesi, avevano occupato la pianura, tanto è vero che si possono trovare case in stile tirolese. Gli italiani, giunti verso la metà degli anni ‘70, si spinsero allora verso la montagna.
Ancora oggi, in questi boschi di araucarie, si trova un villaggio che si chiama Nuova Vicenza e gli italiani che vi risiedono parlano una lingua con un vero e proprio vocabolario e una sua letteratura: il Taliàn, una forma linguistica che combina dialetto veneto e trentino dell’800. Una lingua che ha scarsissimi legami con l’italiano che conoscono i nostri giovani, ma che rappresenta un’interessante testimonianza di una tradizione che si è mantenuta viva.
Da questi esempi appare comprensibile perché i nostri emigranti non siano riusciti a portare la lingua italiana in Brasile. In Argentina, viceversa, ciò parve realizzabile. La nostra lingua, tuttavia, non diventò mai una lingua ufficiale, finendo per perdersi nel corso degli anni. Ciò a differenza dei latinos, che stanno imponendo con grande forza lo spagnolo come seconda lingua nazionale negli Stati Uniti, al punto che ormai non è pensabile fare carriera politica ad alti livelli senza averlo studiato. Si tratta, a ben vedere, di una grande rivincita delle lingue latine.
La nostra emigrazione ha seguito un’altra direzione, quella delle filiere familiari, paesane, con uno straordinario trasferimento di comunità, di storie personali, di know-how. È capitato addirittura che alcuni pescatori di Marettimo siano finiti in una zona dell’Alaska dove hanno importato lo stesso metodo di pesca adoperato in Sicilia. Insomma, all’estero si è trasferita una parte della nostra civiltà fatta di mille particolarismi, senza un’impronta nazionale.
Durante il fascismo vi fu un tentativo di nazionalizzare gli italiani all’estero, attraverso una grande operazione politica che, con l’avvento della Repubblica, non ha più avuto seguito. Il fascismo, infatti, cercò di fare degli italiani nel mondo la rappresentanza dell’impero, “la grande Italia”, e lo fece anche attraverso diversi investimenti. In alcuni Paesi, certo, incontrò l’ostilità delle autorità locali, in altri, invece, si avvalse della collaborazione delle classi dirigenti.
In ogni caso, questo tentativo si trasformò in un enorme disastro, perché l’italianità all’estero fu poi coinvolta nella tragedia della guerra, della sconfitta, della vergogna del fascismo. Il che portò, in seguito, a un’ulteriore ondata di de-italianizzazione. Per esempio, in Brasile, entrato in guerra a fianco delle potenze alleate contro il nazifascismo, fu addirittura proibito l’uso della nostra lingua e si attuò una vera persecuzione nei confronti degli italiani, identificati con il regime fascista.
In gran parte di questi Paesi, dunque, le comunità italiane fascistizzate divennero il simbolo esteriore del nemico, il che rappresentava anche una vergogna.
Dopo la guerra, tutto ciò ha ulteriormente accentuato la tendenza degli italiani a “mimetizzarsi”, capacità che, a mio giudizio, rappresenta una virtù. Essi diventarono parte integrante del tessuto sociale del Paese di accoglienza, se non arrivando addirittura a identificarsi con i bianchi, come avvenne negli Stati Uniti, al fine di inserirsi nella fascia sociale più protetta. Insomma, in qualche modo hanno cercato di perdere quei connotati che rendono una comunità immediatamente riconoscibile.
L’Italia democratica non si è mai posta il problema di avere una vera politica verso questo mondo, limitandosi, al più, a inseguire il folklore delle varie “little Italy” o facendone un mero riferimento retorico. Anche la sinistra, per un lungo periodo, non ha avuto una propria visione. Anzi, in una parte di essa, a volte, ha pesato una certa diffidenza verso questa realtà, proprio per l’impronta fascista e nazionalista che l’emigrazione italiana aveva preso.
Successivamente, attraverso i passaggi elettorali nella Circoscrizione estero, che noi stessi abbiamo contribuito a istituire con la riforma costituzionale del 1998, questa diffidenza si è mostrata errata, poiché quella temuta impronta tra gli italiani nel mondo era, nei fatti, assai contenuta. Questo perché, col tempo, essi hanno elaborato una visione dell’Italia spesso più avanzata di chi risiede in Patria. Basti pensare che non guardano il TG1 e hanno informazioni libere spesso più serie e di qualità di quelle che si possono trovare nel nostro Paese. Ciononostante, è indubbio che, per diverso tempo, la sinistra ha visto le comunità di italiani all’estero soltanto come quelli che “tornavano per votare e votavano per tornare”. In questo senso, l’emigrazione era intesa come un male.
Ora, è sicuramente importante occuparsi di coloro che intendono rimpatriare, il che, in passato, ha fatto sì che l’attenzione politica della sinistra italiana si concentrasse in modo quasi esclusivo sull’emigrazione europea. Ma qui, oggi, parliamo d’altro, ossia del grande valore rappresentato da quanti se ne sono andati definitivamente e, tuttavia, hanno mantenuto un legame affettivo e culturale con la madrepatria. Sono domande che abbiamo cominciato a porci soltanto di recente.
In questo senso, l’istituzione della Circoscrizione estero e il voto per corrispondenza hanno rappresentato certamente un punto di svolta, aprendo una fase nuova. Ma tali misure non hanno ancora cambiato radicalmente l’approccio del Paese verso questi suoi cittadini e discendenti. Voglio dire che l’Italia, intesa come sistema-Paese, nell’epoca della globalizzazione, non si è ancora posta seriamente il problema di approntare una politica che faccia degli italiani nel mondo un riferimento importante dell’azione di politica estera ed economica.
In fondo, il fenomeno della partecipazione politica attraverso il voto ha coinvolto un segmento abbastanza ristretto degli italiani nel mondo, parte certamente importante che è il nostro principale referente, ma che non deve diventare una dimensione chiusa, quella delle associazioni, dei patronati, delle istituzioni locali.
Dunque, un mondo che, ruotando oggi esclusivamente intorno alle istituzioni italiane all’estero, rischia di rimanere un cerchio ristretto che non arriva a coinvolgere neppure la maggioranza degli aventi diritto al voto, figuriamoci poi l’enorme massa di figli di italiani che si sono largamente integrati nei Paesi di residenza e non si sentono attratti dal nostro. Anche perché, e qui vi è una responsabilità dei governi italiani, siamo stati poco attrattivi e largamente deficitari nell’offerta politico-culturale dei nostri istituti all’estero.
Noi non possediamo, ad esempio, una rete consolidata come quella del Goethe-Institut o la mole di investimenti che impiega la Francia nella promozione della sua lingua e della sua cultura. È quindi comprensibile che una parte di emigrati più integrata, scolarizzata ed economicamente più dinamica non avverta il richiamo del rapporto con il nostro Paese.
In questo senso, credo fermamente che ciò debba rappresentare un punto centrale della nostra politica estera. Da un lato, dobbiamo considerare il mondo attivo, politicizzato, organizzato una risorsa preziosa, perché sono loro i nostri primi interlocutori, dall’altro dobbiamo incoraggiarli, a partire dalla rappresentanza, a uscire da una logica di autoreferenzialità. I parlamentari italiani eletti all’estero, infatti, possono svolgere una funzione positiva nella misura in cui essi sono messi dal Parlamento e dal governo nelle condizioni di rappresentare realmente un tramite tra l’Italia e le ripartizioni in cui sono eletti, dunque non solo tra l’Italia e comunità ristrette.
È un punto che voglio sottolineare con forza: è enormemente importante che noi eleggiamo parlamentari negli Stati Uniti, in Canada, in Brasile, in Argentina, in Australia, purché essi diventino una parte della proiezione internazionale del nostro Paese e non si limitino a rappresentare soltanto i problemi – pur assolutamente legittimi, quali la pensione, i contributi, il problema burocratico e di servizio – di una ristretta comunità. Non devono rimanere prigionieri di questa logica.
Insomma, occorre fare di questa presenza politica in Parlamento un punto di forza della proiezione del nostro Paese nel mondo, riconoscendo che, essendo anche loro eletti senza vincolo di mandato, non sono parlamentari di serie “B” o “di settore”, bensì rappresentanti dell’Italia a tutti gli effetti. E il loro sforzo dovrebbe essere volto ad allargare la propria rappresentanza, aprendosi alle istanze di un mondo che, sebbene non partecipi alle elezioni all’estero, svolge comunque un ruolo attivo nella società del Paese di residenza.
In Brasile, per esempio, a votare sono soltanto poche centinaia di migliaia di nostri connazionali, ma lì vivono 24 milioni di persone di origine italiana, tra i quali vi è una parte importante dell’industria brasiliana. Non possiamo certo accontentarci di coinvolgerne solo duecentomila. Senza contare il fatto che incontrare gli imprenditori di origine italiana a Palazzo Italia a San Paolo vuol dire imbattersi nei due terzi del PIL brasiliano. Ricostruire un rapporto con quel mondo, quindi, è fondamentale per noi e può costituire davvero la chiave di una politica estera più forte.
Infine, vi è il tema della nuova emigrazione, un fenomeno che nel nostro Paese continua tutt’ora, anche se presenta un carattere meno strutturale, coinvolgendo una nuova generazione di giovani che si muove, in parte per necessità, in parte per desiderio di conoscere il mondo. Il rapporto del nostro Paese con questa realtà è altrettanto importante, anche perché ne sono protagoniste persone di grande valore, ed è quindi nostro interesse far sì che un giorno possano ritornare, forti di un’esperienza internazionale.
Ecco, dunque, la complessità del tema dell’Italia nel mondo. Un fenomeno costituito da varie “italie”, con livelli di intensità diversi sia nel rapporto con il nostro Paese che nell’integrazione nei Paesi di destinazione. Bisogna impostare una politica verso sessanta milioni di persone, che devono essere considerate come una straordinaria risorsa per l’Italia per il rilancio del suo ruolo, del suo prestigio, della sua economia. Un’opera che sarà molto complessa da svolgere.
Vorrei aggiungere qualche parola sugli effetti disastrosi che il governo Berlusconi sta producendo, smantellando di fatto l’universo degli italiani all’estero e distruggendo ogni canale di collegamento con loro. Ha ragione Pier Luigi Bersani a criticare non soltanto il modo in cui si sta affrontando il tema della razionalizzazione della rete consolare, in parte inevitabile, ma i criteri stessi che muovono le scelte di questo governo. Si nota l’assenza totale di una politica per gli istituti italiani di cultura e per la lingua italiana nel mondo, cui si accompagna l’azzeramento della cooperazione internazionale, un fatto sconvolgente nei suoi effetti di lungo periodo. Noi avevamo portato questo importante settore a una cifra pur modesta (600 milioni di euro), ma, soprattutto, avevamo introdotto un fondo di 150 milioni per il volontariato e le ONG italiane. Una somma che faceva da volano per lo sviluppo locale. Ebbene, è stato cancellato tutto.
Non solo, perché il governo Berlusconi è tornato alla precedente pratica di non pagare le quote associative alle organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte. Quando sono stato ministro degli Esteri ho dovuto discutere con Tommaso Padoa-Schioppa, persona piacevole, ma comprensibilmente molto attenta nel gestire il denaro pubblico, per poter ottenere un fondo speciale di 500 milioni per pagare i debiti lasciati da Berlusconi, alcuni dei quali assolutamente vergognosi.
Basta un esempio: in occasione del G8 di Genova, Berlusconi aveva lanciato a nome dell’Italia la proposta di istituire un fondo globale contro l’AIDS, ricevendo elogi da tutti, salvo poi non versare neanche un euro. Un fatto davvero imbarazzante a livello internazionale, anche perché, naturalmente, i Paesi stranieri non si occupano delle nostre questioni interne e dei forti dissensi a Berlusconi: l’Italia viene identificata in colui che in quel momento la rappresenta. È chiaro, quindi, che il ministro degli Esteri del governo successivo venga guardato con una certa diffidenza e diventa molto difficile spiegare come vi sia una effettiva discontinuità. Insomma, nel 2006, quando siamo andati al governo, abbiamo saldato tutti i debiti per riguadagnare credito agli occhi della comunità internazionale. Tuttavia, essendo stato poi nuovamente azzerato il fondo per la cooperazione, il sistema dei pagamenti è tornato ai livelli del secondo governo Berlusconi.
Chi succederà a questo governo avrà un compito molto difficile in questo senso, perché si troverà con parecchi debiti da onerare. E si tratta di un problema strettamente legato al prestigio di un Paese e della sua politica estera.
Senza cooperazione, senza alcuna iniziativa culturale, che politica estera si può fare? Quella delle amicizie particolari con i leader più discussi? Insomma, i punti di riferimento rischiano di venire progressivamente meno e ci troviamo a interloquire solo attraverso una rete di rapporti personali con Paesi che, tra l’altro, non figurano nemmeno tra le maggiori potenze, quando invece un Paese come l’Italia dovrebbe interloquire con i grandi della Terra.
Solo pochi minuti fa, per esempio, il presidente del Consiglio ha dichiarato di essere contrario all’intervento militare in Libia, deciso dal Parlamento e di esservi quindi stato costretto! Domando: in quale Paese del mondo il capo del governo, nell’inviare i propri militari a combattere rischiando la vita, contemporaneamente se ne lava le mani dando la colpa al Parlamento? Senza contare, tra l’altro, che lui ne è proprietario per una parte molto rilevante. Rendiamoci conto di quale messaggio devastante sia questo, segno di totale mancanza di senso di responsabilità e di senso dello Stato.
Ora dobbiamo guardare oltre Berlusconi, lavorando per costruire un progetto culturale ed economico che consideri i 60 milioni di italiani all’estero come una leva importante per restituire un profilo alto all’Italia nel mondo. Un progetto che coinvolga, naturalmente, le politiche pubbliche, la cultura e, soprattutto, le imprese.
Ecco, se ho un rilievo da fare in una discussione così interessante e di ampio respiro, è che sarebbe stato utile invitare qualche rappresentante del mondo delle imprese, perché hanno una percezione più immediata di quali opportunità possono essere offerte. Ma, soprattutto, perché una seria politica di iniziativa e di investimento ha bisogno anche di partnership tra pubblico e privato, coinvolgendo le forze associate.
Credo sia importante uscire da questo incontro con un pacchetto di proposte, idee, riforme che sono necessarie, ma che devono essere attuate in maniera diversa rispetto alla visione di questo governo e questa maggioranza. Mi riferisco, ad esempio, alla riforma della rappresentanza, che rischia di indebolirne notevolmente il ruolo. Una linea di riforma ragionevole dovrebbe piuttosto muoversi lungo la strada che lo stesso Consiglio generale degli italiani all’estero ha individuato, con le sue proposte di autoriforma, già dalla scorsa legislatura.
Inoltre, è particolarmente importante mettere insieme mondo dell’Università, Ministero degli Esteri, Ministero dei Beni Culturali e sistema delle imprese. Un percorso che noi avevamo già avviato, costituendo presso la Farnesina un comitato che riuniva tutti questi soggetti per cominciare a discutere del ruolo dell’Italia nel mondo. E non solo dal punto di vista del funzionamento di ambasciate e consolati, ma, in particolare, di come il sistema Italia nel suo insieme, compresi i cittadini residenti all’estero, possa essere in grado di costruire una presenza significativa, avendo come priorità una strategia-Paese. Si trattava di attività importanti, che, purtroppo, sono state interrotte. Naturalmente, speriamo che qualcuno possa riprenderle quando il Partito democratico andrà al governo, e mi auguro che a farlo sia una nuova generazione.
Vorrei aggiungere un’ultima considerazione. Credo che l’esperienza italiana potrebbe costituire la base per una riflessione coraggiosa. Si è accennato all’Europa e al rapporto tra l’emigrazione e la sfida dell’immigrazione in Italia. Noi siamo un popolo che si è globalizzato abbastanza precocemente rispetto al grande ciclo mondiale e potremmo dare un contributo rilevante a una discussione su un nuovo modello di cittadinanza.
Perché, se è pur vero che la legge sulla rappresentanza all’estero che abbiamo varato è audace e importante, per le ragioni che ho fin qui esposto, il nodo centrale non è tanto quello di preservare lo ius sanguinis per gli italiani di terza generazione che permette loro di votare per il nostro Parlamento: il problema reale è, piuttosto, il fatto che nel mondo globale deve diffondersi un modello di cittadinanza che sia progressivamente fondato sullo ius soli. Questo è il fondamento della civiltà dei diritti nell’epoca della mondializzazione e a noi deve interessare che l’italiano, in qualunque angolo del pianeta si trovi, sia innanzitutto cittadino.
A questo proposito, ho rivisto la classificazione dei diritti di Thomas H. Marshall. Ecco, credo che il vero nodo stia nei diritti politici. Salvo nei Paesi in cui vige la dittatura, in fondo, ormai, i diritti individuali e fondamentali di libertà sono ampiamente tutelati. I diritti sociali, invece, che sono spesso legati al lavoro, non lo sono, ma la chiave per accedervi a pieno titolo risiede nella possibilità di partecipare pleno iure alla vita politica. Mi riferisco, cioè, al diritto di partecipazione attiva e passiva al voto.
In un mondo in cui si muovono continuamente grandi masse di popolazione da un continente all’altro, credo debba imporsi come cardine di un modello di cittadinanza globale il principio secondo cui una persona abbia pienezza di diritti, a prescindere dal luogo in cui si trovi a vivere e a pagare le tasse.
Questo, secondo me, è il vero nodo strategico. E, naturalmente, tocca anche i diritti dell’immigrazione. In Italia è giusto occuparsi di integrazione, di mediazione culturale o del fatto che i figli degli immigrati vadano a scuola, ma il giorno in cui essi avranno il diritto di voto, ogni sindaco sarà costretto a occuparsene, anche se leghista. Quando potranno partecipare a pieno titolo alla vita politica, le istituzioni muteranno inevitabilmente il loro atteggiamento. La chiave dell’integrazione è tutta lì.
In questa prospettiva, la vicenda italiana può costituire una base di partenza, a partire dalla straordinaria esperienza del cosmopolitismo che ha reso gli italiani cittadini del mondo.
Inoltre, il modello di cittadinanza globale dovrebbe muovere anzitutto dal livello europeo, che è ciò che si sta costruendo e sperimentando attualmente. Una visione di principi condivisi che si dovrebbe affermare anche al di fuori dell’Europa, come risposta al problema del rapporto tra individui e mondo globale.
Il nostro Paese potrebbe dare un importante contributo e, in questo senso, sarebbe utile raccogliere le diverse storie dell’emigrazione italiana, partendo dalla grande esperienza collettiva della conquista della cittadinanza. E, da qui, proporre un modello di integrazione al mondo globale, forti del fatto che nel nostro Paese, nell’ultimo decennio, si sono spostati milioni di persone da altri continenti.
Penso, quindi, che se il Partito democratico si darà un programma così ambizioso, impegnandosi a varare il pacchetto delle riforme politiche necessarie sulla base di questa iniziativa di alto respiro politico e culturale, lancerà un buon messaggio al Paese e al mondo.
Grazie


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