Discorso
11 marzo 2011

COSTITUZIONE E DEMOCRAZIA

Lectio magistralis di Massimo D'Alema nell'ambito della scuola di formazione promossa dall'associazione Lavoro&Welfare, dal Pd delle Marche, dai Gd e dalla fondazione Primo maggio - Ancona, Teatro sperimentale


Vorrei ringraziare l’associazione “Lavoro e Welfare”, il Partito democratico delle Marche, la fondazione Primo Maggio e i Giovani democratici per avermi invitato a tenere la lezione conclusiva di questa scuola di formazione politica che ha avuto una grande partecipazione.
Innanzitutto, contesterei l’uso della sontuosa espressione lectio magistralis riferita al mio intervento su un tema di così grande rilievo come quello del funzionamento e dei problemi della nostra democrazia, alla luce della Costituzione, del suo valore, degli aspetti immutabili del suo dettato e, dall’altra parte, degli aspetti suscettibili di una riforma e di un aggiornamento.
In proposito, qualche giorno fa, in una bellissima conferenza dedicata al Novecento, Raniero La Valle definiva il suo discorso lectio discipularis, cioè l’intervento di un discepolo, in polemica con l’espressione lectio magistralis. Da un lato, sottolineando un aspetto che appartiene alla sua cultura, egli ha affermato che, in una società che si dice cristiana, non si dovrebbe dimenticare il testo del Vangelo di Matteo, che recita: «Voi non fatevi chiamare maestro, perché uno solo è il vostro Maestro». Dall’altro lato, perché egli si definisce discepolo del Novecento, di questo secolo grande, terribile e affascinante, pieno di morti e di rinascite, un secolo di cui la Costituzione repubblicana rappresenta senza dubbio un tornante positivo.
La Costituzione italiana, infatti, è figlia di una stagione particolare che, a cavallo della fine della Seconda guerra mondiale, segnò non soltanto la vittoria dell’antifascismo, la fine della dittatura fascista, ma anche l’aprirsi di una nuova grande fase internazionale e l’inizio della stagione della democrazia. Badate, il nostro è un Paese che non ha conosciuto una forma di democrazia moderna fino al 1945. All’indomani dell’Unità d’Italia c’era una democrazia ristretta, censitaria, quella del vecchio Stato liberale e solo dopo la breve stagione della crisi del primo Dopoguerra sorsero i partiti popolari, di massa e ci fu l’avvento del sistema proporzionale. Tuttavia, si trattò di una stagione brevissima che si concluse con il colpo di Stato fascista e l’inizio della dittatura.
Dunque, si può dire che la Costituzione è l’atto fondativo della nostra democrazia. Una democrazia giovane rispetto all’esperienza di altri grandi Paesi europei. Una democrazia recente, nata nella temperie degli anni che vedono la caduta del nazifascismo, la vittoria della coalizione antifascista, la collaborazione tra le grandi democrazie occidentali e l’Unione Sovietica. Una stagione breve, ma che ha rappresentato un punto di svolta.
In quegli anni vi furono, infatti, l’Assemblea di San Francisco, la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Fu l’inizio di un ordine internazionale basato su valori e principi che segnavano la fine della guerra e il tentativo di uscire da certe culture, da quell’idea della politica internazionale come dialettica amico-nemico che aveva drammaticamente segnato la storia del Novecento sino a quel momento.
La Costituzione italiana, perciò, è figlia di una determinata fase storica che si potrebbe definire la stagione di una “costituente mondiale”, in cui emerse la novità del costituzionalismo come teoria dello Stato: l’idea, cioè, che il fondamento dello Stato democratico siano le costituzioni e non la logica della forza.
In questo senso, la nostra Costituzione contiene un rovesciamento, almeno in linea di principio, di alcuni dei cardini della storia passata. Innanzitutto, perché vi si afferma il valore dell’eguaglianza, che fino a Hegel, Spencer, Nietzsche e Croce non aveva fatto irruzione nella cultura europea, mentre la diseguaglianza aveva fondato il suo dominio. Lo stesso principio di égalité della Rivoluzione francese riguardava i soli citoyens, non era l’eguaglianza di tutti gli esseri umani.
Al contrario, quest’idea marca la Costituzione repubblicana, rappresentando un punto di sintesi alto, straordinario, tra il pensiero liberale, quello cristiano e quello della sinistra, che concorrono a definire il suo retroterra culturale. Vi si afferma l’eguaglianza fra tutti gli esseri umani, tra uomini e donne. E non scordiamoci che le donne, in Italia, conquistano il diritto di voto proprio in quegli anni, precisamente nel ’46. Un’eguaglianza intesa sia come affermazione di principio sia come affermazione programmatica. L’art. 3, infatti, dispone che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. In quest’articolo, quindi, si riconosce – e qui sta l’impronta della sinistra – che viviamo in una società che genera diseguaglianza. Per questo l’eguaglianza non è soltanto quella naturale, ma costituisce un obiettivo della Repubblica e delle politiche pubbliche.
Il secondo grande rovesciamento che la Carta opera è quello che riguarda la guerra. “Prosecuzione della politica con altri mezzi”, come veniva definita da Carl von Clausewitz, la guerra è stata madre e principio delle cose, “sposa indissolubile dello Stato”. I popoli, infatti, si sono affermati nel corso della storia proprio attraverso l’uso della forza, che è stato giudicato legittimo fino al processo di Norimberga. È in quella occasione che, per la prima volta, è apparso il concetto di crimine di guerra. E la nostra Carta assume tale novità dichiarando di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e vietando il ricorso alla forza se non come mezzo di difesa (art.11 Cost.).
Infine, l’altra e forse più eversiva novità è che viene fissato un limite alla sovranità, principio consustanziale all’idea stessa di Stato e principio assoluto su cui si era fondata anche la capacità del Paese di garantire la convivenza. La nostra Costituzione si apre alla dimensione dei rapporti internazionali configuratisi dopo la Seconda guerra mondiale e al principio dell’interdipendenza, accettando una sottomissione alla prevalenza del diritto internazionale e riconoscendo il limite della sovranità nell’adesione alle organizzazioni e agli accordi internazionali (art.10 Cost.).
In questo senso, si tratta di una Costituzione che predispone il nostro Paese a essere parte di un nuovo ordinamento di giustizia e di pace tra le nazioni, e in cui il ripudio della guerra e il conformarsi al diritto internazionale consuetudinario, su scala internazionale, prevalgono sul carattere assoluto del principio di sovranità. Dunque, la sovranità viene interamente condizionata al costituzionalismo, ossia al valere, per i cittadini e per gli stranieri, dei diritti e delle garanzie previste dalla Costituzione.
Certo, allora questi principi erano ben lungi dall’affermarsi pienamente e noi potremmo ripercorrere tutti i momenti, nel corso della storia repubblicana, in cui sono stati violati, negati o in cui ne è stata ostacolata la piena realizzazione. Tuttavia, essi hanno costituito un punto di riferimento, un orizzonte comune, il che fa della nostra Costituzione molto più di un insieme di regole: ne fa un programma condiviso che ha dato un orientamento alla storia della comunità. Dunque un’insieme di valori, non solo di norme. In tale prospettiva, la nostra Carta fondamentale si differenzia rispetto a quelle che, in altri Paesi, hanno avuto soltanto il merito di introdurre le leggi che regolano la vita civile e democratica, la convivenza tra i cittadini. È diversa perché essa stabilisce un nucleo di valori intorno a cui la comunità si è riorganizzata e indica una finalità dell’agire collettivo degli italiani.
La Costituzione, quindi, ha rappresentato un compromesso alto fra le culture democratiche e ha garantito, pure negli anni difficili del Dopoguerra, della guerra fredda e delle più aspre contrapposizioni, un riferimento forte a una comune responsabilità dei partiti, delle forze politiche, delle correnti culturali che avevano concorso a definire i suoi principi. Mi riferisco al collante antifascista che, pure nei momenti più difficili della divisione, ha rappresentato quel fattore di salvaguardia dell’unità del Paese.
In proposito, mi fa piacere raccontarvi un ricordo che traggo dalla mia esperienza personale. Mio padre era legato da una grande amicizia con Benigno Zaccagnini, erano stati ragazzi insieme, erano due giovani che vivevano a Ravenna ed erano vicini di casa. Zaccagnini, poi, è diventato un dirigente della Democrazia cristiana, mentre mio padre un parlamentare del Partito comunista, ma questa amicizia non si è mai spezzata. In fondo, alla base di questo affetto c’era il fatto che tutti e due, insieme, andarono a combattere nella Ventottesima Brigata Garibaldi. Ebbene, l’aver combattuto insieme contro i tedeschi e contro i fascisti, ha rappresentato, pure negli anni della guerra fredda, qualcosa di più di un’esperienza comune, era un legame indissolubile.
E si tratta dello stesso legame che ha costituito qualcosa di molto importante per l’Italia, che ha vissuto una fragile unità. In altri Paesi, infatti, i cittadini hanno sviluppato un forte senso dell’appartenenza e dello Stato, prima e in maniera più intensa rispetto a noi, che abbiamo vissuto la partecipazione e la comunità politica, soprattutto nel Dopoguerra, attraverso la mediazione dei partiti. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che le forze politiche abbiano svolto un ruolo essenziale, si potrebbe dire persino di supplenza.
D’altra parte la Costituzione è difficile da intendere senza la funzione dei partiti: il riconoscimento del loro ruolo è una premessa e un caposaldo della Carta stessa. Perché essi hanno rappresentato quel tramite tra i cittadini e lo Stato che prima non esisteva, compiendo quell’opera di nazionalizzazione delle masse fondamentale per la costruzione degli Stati nazionali moderni.
Nel nostro Paese, infatti, sono stati proprio i partiti ad organizzare masse di cittadini prima estranee, emarginate dalla formazione dello Stato italiano. Mi riferisco, per certi aspetti, ai cattolici, in quanto lo Stato italiano nacque in aperta contrapposizione con il potere temporale della Chiesa. Tanto è vero che il rapporto tra i cattolici e la vita pubblica è stato a lungo ostacolato dal non expedit.
In principio le masse popolari hanno avuto un ruolo subalterno, ma nel momento in cui sono state organizzate dalla sinistra, hanno rivendicato i propri diritti, incontrando prima la repressione dello Stato liberale -ricordiamoci che il Novecento si con il generale Bava Beccaris- poi l’oppressione fascista, con la distruzione delle Case del popolo, delle sedi delle organizzazioni della sinistra. Si trattava perciò di mondi che, almeno fino al ’45, erano estranei alla vita dello Stato, nel quale vedevano un nemico, un oppressore. Ebbene, è attraverso la Costituzione e l’azione dei grandi partiti democratici che le masse popolari entrano da protagoniste nella vita pubblica e nelle istituzioni dello Stato.
Naturalmente, il fatto che i cittadini si riconoscano nello Stato tramite i partiti ha costituito anche uno dei limiti dell’Unità nazionale. In questo senso, in un libro molto bello di qualche anno fa, “Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana”, Remo Bodei, riferendosi agli italiani e alla loro identità nazionale, parla di un “noi diviso”. Questo “noi” è nato diviso sin dall’origine, anche se poi la Costituzione ha rappresentato, e rappresenta tutt’oggi, un compromesso alto tra le diverse parti di questo “noi”. In particolare, tra la tradizione liberale, il mondo cattolico e la sinistra.
Quanto detto segna la forza e il limite del nostro sistema democratico nel Dopoguerra, di cui non intendo qui affrontare la storia.
Dedicherò la prima parte del mio intervento alla Costituzione italiana e la seconda ai problemi della democrazia di oggi, essendo chiaro che questi ultimi derivano anche dai limiti dell’esperienza che abbiamo alle spalle. Un’esperienza che ha avuto forza nella sua genesi, nel grande moto democratico e antifascista, nei valori costituzionali che ne hanno rappresentato la sintesi, ma che hanno anche mostrato limiti quali la guerra fredda, la democrazia bloccata e l’incapacità della sinistra di configurarsi come un’alternativa credibile di governo in un mondo diviso in due. D’altra parte, gli effetti della democrazia bloccata nel campo delle forze filo-occidentali sono stati quelli di ostacolare le spinte riformiste più coraggiose, più avanzate.
La democrazia, invero, era caratterizzata da un bipolarismo imperfetto, perché basato su due schieramenti: uno, come disse Moro, “condannato ad essere sempre una forza di governo”, con tutte le patologie che l’assenza di ricambio determina, e l’altro condannato ad essere perennemente una forza di opposizione. E, per quanto il genio togliattiano avesse intuito la necessità che il Pci fosse una forza di governo seppure all’opposizione, tuttavia anche una forza condannata perennemente all’opposizione sviluppa tutte le patologie tipiche di tale condizione. Non è vero, infatti, che soltanto il potere produce patologie, che possono derivare anche dalla prolungata assenza da un ruolo di governo.
Ebbene, questo sistema arrivò al suo punto più alto e alla sua crisi nella seconda metà degli anni ’70, quando la società italiana espresse il bisogno fisiologico di un cambiamento di guida del Paese. Precisamente nel ’76, quando il Partito comunista si rivelò incapace di offrire agli italiani quel ricambio di classe dirigente che sarebbe stato necessario.
È in questo contesto che si avvia il dialogo tra Moro e Berlinguer, nel tentativo di aprire una nuova fase della vita democratica, sforzo che fallì anche per effetto di un ritorno verso la guerra fredda, di un inasprimento di tutte le condizioni della situazione internazionale e delle fortissime resistenze interne nel nostro Paese.
Emblematicamente, in quel giorno del maggio del 1978, quando Moro venne assassinato dalle Brigate Rosse, si chiuse la stagione in cui la democrazia dei partiti ebbe una funzione positiva e ne cominciò il declino, con il loro ripiegarsi su se stessi. È in quel momento che si esaurisce, per usare un’espressione che Berlinguer utilizzò a proposito del campo del socialismo reale, la loro “spinta propulsiva”.
In fondo, la questione morale che Berlinguer denunciò non riguardava soltanto l’immoralità dei singoli, che come tale è un fatto fisiologico ¬-anche se, in certi momenti, nella politica italiana ha raggiunto dei livelli patologici-. Si trattava, piuttosto, del fenomeno della “occupazione dello Stato da parte dei partiti”, un’occupazione che ne sostituiva il ruolo, la loro capacità egemonica, trasformandoli in macchine di potere.
Il punto di arrivo di questa lunga crisi è all’inizio degli anni ’90, quando viene meno il collante esterno rappresentato dalla guerra fredda e dunque dalla contrapposizione tra i blocchi. La caduta del muro di Berlino, infatti, non ha avuto effetti soltanto sul Partito comunista, ma sull’intero sistema politico italiano. Evidentemente, quel sistema politico congelato era l’espressione, nel nostro Paese, della realtà internazionale.
Così veniva meno quella “condanna” ad essere perennemente al governo di certe forze politiche, veniva meno il ruolo storico del Partito comunista. Ripeto, a crollare fu l’intero sistema politico e non certo per un complotto dei magistrati, ma perché, in qualche modo, le sue strutture erano marcite e la capacità di quel sistema di garantire lo sviluppo del Paese si era consumata.
Insomma, sono convinto che per comprendere appieno i problemi di oggi, dobbiamo tornare a riflettere su quel passaggio, ossia sul modo in cui avvenne quella crisi, all’inizio degli anni ’90. Una fase di luci e ombre.
Da una parte, emersero grandi spinte positive: l’idea di una democrazia dell’alternanza e di un meccanismo di ricambio della classe dirigente del Paese. Da ciò prese forza il movimento referendario, alla ricerca di una riforma delle legge elettorale che rompesse quella logica di occupazione burocratica del potere, determinando un nuovo rapporto tra rappresentanza e cittadini: un insieme di elementi che produssero una carica innovatrice e significative riforme. Penso, ad esempio, all’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province.
Dall’altra parte, però, parliamo di un moto che ha portato con sé alcuni limiti e una profonda ambiguità culturale che definirei “il peso dell’antipolitica”. Mi riferisco a un’ideologia del cambiamento e dell’innovazione fondata sulla contrapposizione tra società civile e sistema dei partiti, all’irrompere sulla scena di masse di cittadini senza il tramite dei partiti, al sorgere di capi in un rapporto diretto con l’opinione pubblica, grazie al valore crescente dei mezzi di informazione e del denaro, nuovi strumenti di intermediazione. Da questo punto di vista, la politica conosce l’horror vacui: dove la mediazione non è esercitata dai partiti entrano in campo altri potenti mediatori del consenso.
Questo complesso processo che abbiamo conosciuto ha avuto esiti profondamente contraddittori. Certo, ci siamo in parte liberati dei difetti, dei guasti del sistema dei partiti, ma se ne sono prodotti altri. La grande illusione che la crisi di quel sistema avrebbe portato l’avvento di una società civile “buona”, ha indotto la sinistra a sottovalutare un aspetto importante. Mi riferisco al fatto che, nel momento in cui scompare la mediazione politica, la società civile direttamente irrompe nello Stato sulla base dei rapporti di forza esistenti. E questi, non casualmente, da noi hanno fatto sì che il campione della società civile fosse Silvio Berlusconi. Un imprenditore che certamente disponeva di ingenti risorse economiche e si mostrava capace di rappresentare gli umori profondi della società italiana, di organizzarli attraverso strumenti totalmente alternativi ai partiti. Penso, ad esempio, al nuovo soggetto politico che è sceso in campo, la grande azienda capitalistica che si fa partito, oppure ai mezzi di comunicazione di massa che sono utilizzati non soltanto come strumenti di propaganda politica, ma per la formazione dell’opinione pubblica e della cultura diffusa.
Dunque, la caduta della mediazione politica - voglio insistere su questo punto - non cancella tout court la mediazione, ma la sostituisce con altri soggetti, siano essi movimenti di opinione o grandi giornali.
In questo contesto, anche nel campo del centrosinistra sono venuti avanti nuovi mediatori, ma quello che conta, naturalmente, è il rapporto di forze. E non è un caso che i grandi partiti siano sorti piuttosto nel campo popolare, perché essi nascono dal bisogno di associarsi tra coloro che sono più deboli nel conflitto sociale e civile. Il grande capitalista, invece, sente meno la necessità di legarsi in un partito, perché la forma politica del proprietario dei mezzi di produzione è lo Stato. In questo senso, il partito nasce come espressione di chi è all’opposizione, di chi non ha il potere, di chi vuole organizzarsi allo scopo di avere una propria forza che si contrapponga a quella statale e che, in prospettiva, occupi e conquisti lo Stato.
Per tutti questi motivi, la fine della democrazia dei partiti non è mai un processo neutrale, nei suoi effetti e nei rapporti di forza sociali. Questo discorso potrà sembrare vetero, ma ha una certa conferma empirica. La fine della democrazia dei partiti, infatti, ha spostato i rapporti di forza a favore di quella parte della società che dispone del denaro, dei mezzi di comunicazione e della proprietà degli strumenti di produzione.
È questo il processo che ha condizionato la vicenda democratica del nostro Paese negli ultimi vent’anni e, indubbiamente, tale rendita di potere si è spostata a favore della parte più forte della popolazione. Anche perciò, a mio parere, sarebbe stato interesse del campo democratico costruire un bipolarismo sulla base di un nuovo accordo sulle regole e non nel vuoto di un processo sregolato, orientato verso una forma plebiscitaria. Un processo che ha dato luogo a un sistema che si potrebbe definire una forma di presidenzialismo di fatto. D’altra parte, che cosa distingue un presidenzialismo vero e proprio, sul modello americano, a una democrazia presidenziale di fatto?
Ebbene, in Italia formalmente non c’è l’elezione diretta del capo del governo, ma questa avviene di fatto, attraverso la legge elettorale. Tuttavia, resta l’assenza di quel sistema di controlli e di equilibri proprio dei veri sistemi presidenziali. Perciò, mentre il presidente degli Stati Uniti d’America, che è legittimamente e costituzionalmente eletto dai cittadini, deve misurarsi con un Parlamento che costituisce un fortissimo contropotere, il capo del governo italiano, che non è eletto dai cittadini ma tale risulta di fatto, non ha di fronte a sé nessun contrappeso. Anzi, la legge elettorale gli consente anche di nominare il Parlamento, in un sistema di tipo plebiscitario che non ha eguali in nessuna democrazia del mondo.
Insomma, questa nostra seconda Repubblica ha prodotto, da una parte, il venire meno della mediazione dei partiti che ha messo in campo altri mediatori, determinando uno scivolamento dei rapporti di forza tra le classi. Dall’altra, il sorgere di un bipolarismo senza regole, senza un rinnovato patto costituzionale, che era interesse nostro ricercare. Non è vero, come si sostiene in una certa pubblicistica di tipo radicale, che la Bicamerale era un cedimento a Berlusconi, ma era interesse nostro, e lui ne era talmente consapevole che l’ha fatta fallire.
In questo bisogna ammettere che Berlusconi ha sempre capito molto meglio di una parte dei nostri che cosa gli convenisse fare ed è sempre stato molto aiutato da quelli che dalla nostra parte non lo capivano. L’assenza di un nuovo patto sulle regole ha favorito quello scivolamento verso un sistema plebiscitario, il cedimento verso la personalizzazione estrema.
Vedete, a mio parere, la personalizzazione della politica è un dato oggettivo, ma in tutti sistemi democratici essa è bilanciata dall’esistenza di strutture collettive. Voglio farvi degli esempi concreti: un Paese con un’estrema personalizzazione della politica è il Regno Unito dove, di fatto, la dialettica politica si fonda sulla contrapposizione tra il Primo ministro e i leader dell’opposizione. Sono poche le figure istituzionali forti come il Primo ministro inglese, anche perché ha un capo dello Stato puramente formale come la Regina d’Inghilterra. Si tratta, dunque, di un sistema con un fortissima personalizzazione della dialettica politica, ma in cui il Primo ministro può essere sostituito dal suo partito. E lo hanno fatto tanto i conservatori con la signora Thatcher, come i laburisti con Tony Blair. Insomma, quello inglese è un sistema bilanciato dall’esistenza di strutture collettive che hanno un’estrema forza e un’assoluta legittimità. Fa parte della Costituzione materiale del Regno Unito il fatto che quell’enorme potere personale sia bilanciato dal potere dei partiti. Un principio, questo, che vale più o meno per tute le democrazie.
In Italia, invece, si è sviluppata una personalizzazione confusa, in cui il potere personale non ha bilanciamenti. La tesi secondo cui non si può cambiare presidente del Consiglio, per esempio, è palesemente anticostituzionale. Ciononostante, essa appartiene ormai al senso comune di una grande parte del nostro Paese ed è stata introiettata anche a sinistra come un dato di senso comune che ha cambiato la nostra Costituzione.
La legge elettorale, infatti, formalmente stabilisce soltanto che sulla scheda deve esserci il nome del leader della coalizione, ma di fatto i cittadini sono convinti di votare per il candidato a guidare il governo. In questo modo si è aggirata la nostra Costituzione che, viceversa, prevede che spetti al presidente della Repubblica nominare il premier. Badate che quando la regola scritta e la percezione diffusa divergono in modo così clamoroso, la democrazia è in pericolo. Perché la democrazia è fatta di regole scritte, di leggi, di norme che sono il fondamento del vivere comune.
In definitiva, questo presidenzialismo di fatto, attraverso la destrutturazione dei partiti e l’estrema personalizzazione della politica, ci consegna una democrazia rischiosa, in cui l’elemento plebiscitario, populista, rischia di prendere il sopravvento su un processo di formazione della volontà popolare.
È vero che la sovranità è del popolo, ma è anche vero, dice la Costituzione, che il popolo la esercita nelle forme previste dalla Carta. E non è affatto vero che l’esercizio diretto della sovranità sia la forma più alta della democrazia. Trovo che in questa idea ci sia uno strano miscuglio di sessantottismo e cultura populista di destra che ha dato luogo a un impasto abbastanza inquietante.
Certo, da una parte il berlusconismo ha codificato tutto questo, teorizzandolo in chiave plebiscitaria, personalistica e facendone un insieme di norme non scritte che hanno dato un segno alla storia di questa seconda Repubblica. Tuttavia, penso che, in una certa misura, questa cultura sia penetrata anche nel nostro campo. Per questo credo che il Paese non debba solo liberarsi di Berlusconi, ma del berlusconismo.
Ora, tutto questo da luogo a una democrazia apparentemente forte, ma di fatto estremamente fragile. Il populismo plebiscitario, per sua natura, è un meccanismo che concentra enormi poteri nelle mani di una persona, ma non lo aiuta a prendere quelle decisioni difficili, necessarie a un grande Paese in un’epoca come quella che stiamo vivendo.
Può apparire un paradosso, ma in questi ultimi quindici anni abbiamo avuto il massimo di concentrazione del potere, una relativa stabilità dei governi e il minimo delle riforme. Anche noi abbiamo visto nella stabilità dei governi il bene supremo, forse, però, aveva ragione Giovanni Sartori quando ammoniva che la stabilità non può essere di per sé la stella Polare, perché quella dei cattivi governi è un male e nella fisiologia delle democrazie parlamentari i cattivi governi devono poter essere cambiati.
Dunque, ecco il paradosso: nonostante abbiamo avuto maggioranze parlamentari vastissime, grazie a sistemi maggioritari che hanno profondamente corretto il voto popolare, c’è stata una scarsità di decisioni importanti. Ciò è successo in particolare nell’ultimo decennio, perché, in verità, il centrosinistra alcune misure importanti negli anni ’90 le ha prese.
Per concludere, è evidente che occorre apportare delle modifiche al nostro sistema, dalla forma istituzionale alla legge elettorale, se vogliamo avere dei governi e dei Parlamenti in grado di decidere nell’interesse del Paese e tornare a parlare di democrazia.
Grazie.


stampa