Discorso
17 febbraio 2012

IL MONDO OLTRE LA DESTRA

Intervento di Massimo D'Alema al seminario del Centro studi PD - Roma


Ho trovato molto interessante l’introduzione di Gianni Cuperlo e il dibattito che ne è seguito. Vorrei andare al merito dei problemi, degli interrogativi, nella forma di una discussione aperta, che serve più a raccogliere delle idee che non a dare delle risposte compiute. Spetterà, poi, naturalmente a chi conclude, trarne le somme.
Innanzitutto, cedo anch'io alla tentazione di ripartire dal titolo “Oltre la destra”, che, credo, meriti una specificazione. In realtà, il vero grande problema aperto è che cosa c'è dopo la crisi.
Non è affatto detto, infatti, che dopo questa grande crisi del capitalismo occidentale, globalizzato, verrà necessariamente la sinistra, così come non è scontato che la crisi coincida con la fine della destra, anche se, sicuramente, all'origine di essa c'è il fallimento di una certa ideologia della destra, come diceva Cuperlo nella sua citazione iniziale di Alan Greenspan.
Sono d'accordo con Carlo Galli: non è che la politica sia scomparsa, ma questa ideologia è consistita nell’idea che l'economia, in particolare quella capitalistica di mercato, dovesse definire l'orizzonte entro il quale la politica si sarebbe dovuta muovere. E la politica ha svolto i suoi compiti dentro questo orizzonte di senso. E’ stato scritto: “il compito della politica è rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno dispiegarsi delle virtù benefiche dell'economia capitalistica di mercato”. In questo senso la politica è stata subalterna.
Il dominio di un liberismo che ha posto la politica in una condizione di subalternità è sicuramente all'origine della crisi che viviamo. Le uscite dalla crisi devono scontare il peso, l'eredità di un'epoca che Tommaso Padoa Schioppa definì di “abdicazione” della politica. E, in effetti, la crisi ha aperto anche uno spazio ad altre forme della destra: il populismo, una risposta a questo individualismo liquido del mondo globale in termini di riscoperta regressiva della comunità, la religione, il sangue… Forme di destra che si affacciano prepotentemente.
Tuttavia, considero sinceramente le ideologie antiglobalistiche regressive, illiberali, come il segno di una crisi, di un arretramento. Non ho simpatia per la decrescita, nella quale siamo dolorosamente dentro. E penso che un progetto democratico di sinistra per uscire dalla crisi comporti il non disperdere gli elementi di avanzamento che la globalizzazione ha portato con sé, a partire dal fatto che miliardi di esseri umani si sono affacciati sulla scena della storia dell'economia, del consumo. Trovo che sia aristocraticamente occidentale questa visione negativa della globalizzazione. Si, per alcuni aspetti ci abbiamo rimesso, ma penso che non possiamo rinunciare a vedere gli elementi di avanzamento e di progresso.
La libertà che si è affermata sarà stata anche adolescenziale, sono d'accordo - e poi darò una mia interpretazione di che cosa significhi una libertà matura -. Però, sono convinto che una risposta regressiva, illiberale non possa far parte del nostro progetto, quello che dobbiamo costruire, il quale deve essere più avanti, non certo più indietro, rispetto agli avanzamenti che, sia pure in un processo selvaggio, i decenni che abbiamo le spalle hanno determinato.
Non è scontato l'esito. Perché? Perché, in realtà, questo indebolirsi della politica ha reso problematico il riferimento stesso alla democrazia. Il meccanismo bipolare di alternanza destra-sinistra si è incrinato in Europa, dal momento che lo spazio della politica si è ridotto e che la tendenza è andare nella direzione di una condizione di debolezza a convergere.
In Finlandia, uno dei Paesi del modello socialdemocratico nordico, oggi c’è un governo di cui fanno parte i conservatori, i socialdemocratici, in cui i maggiori partiti hanno avuto tra il 7% e il 15% dei voti, dove la frammentazione politica, l'emergere prepotente di un nuovo discrimine, non è destra-sinistra, ma politica-antipolitica.
Ecco, il rischio è che la governabilità delle nostre società si costruisca lungo questo discrimine, annebbiando, nel nome della comune responsabilità della politica, il discrimine destra-sinistra che, invece, ha funzionato anche come grande elemento vivificatore della politica. La politica, infatti, vive se è luogo di conflitto, di idee, di passioni, di interessi.
La nostra risposta tecnocratica non è solo un caso di emergenza, è la versione di questa difficoltà che non è solo italiana. Uscirne comporta riguadagnare terreno e per riguadagnare terreno occorre che la politica sia in grado di ripresentarsi come campo di alternative vere, di conflitti. Credo che questo sia il problema, che interessa anche la questione del potere.
La politica, infatti, non ha senso se non è anche esercizio della forza, con un determinato grado di libertà nella possibilità di assumere decisioni diverse, altrimenti essa diventa l’esecuzione dei compiti dettati dall'economia. E’ stato un uomo di governo, un intellettuale della Corea del Sud ad usare questa espressione, che mi sembra straordinaria. O la politica riguadagna la sua libertà in termini di esercizio democratico del potere, riprende la propria “padronanza del destino”, oppure non ha senso.
E’ evidente che i compiti che l’economia ci assegna possono essere fatti bene o male, e noi probabilmente siamo quelli che li facciamo meglio, persino di Monti. Basta guardare alle performance dei governi di centrosinistra in termini di riduzione della spesa pubblica e lo spread al 34% nel 2008. Questo per dire che almeno ogni tanto i nostri risultati dovremo rivendicarli.
In ogni caso, a mio parere, non si tratta di parlare di libertà di insolvenza, perché vi sono molte opzioni: non si può dire che l’alternativa è tra non pagare i debiti o massacrare la Grecia. Per esempio, se avessimo un'agenzia europea del debito pubblico e ci si fosse mossi per tempo, sarebbe costato meno all'Europa salvare la Grecia senza costringere i greci a sacrifici insopportabili, oppure si potevano predisporre piani di rientro graduali, imponendo alle banche di farsene in parte carico. Insomma, c'è la politica, altrimenti la scelta è soltanto tra la l’eseguire i compiti e la rivolta popolare. Non è così.
La politica deve riguadagnare la sua padronanza, ossia la possibilità di decidere fra alternative, comandare, altrimenti non ha senso.
Mi ha colpito molto l’ultimo libro di Bill Clinton che uscirà presto in Italia, di cui ho letto alcune anticipazioni. È una riflessione molto interessante, anche in termini autocritici, di uno dei grandi protagonisti degli ultimi vent’anni. Il tema del suo libro parte dall’idea che il mondo sia stato distrutto dalla demonizzazione dello Stato e che bisogna quindi riscoprirne la centralità. Il titolo, “Rimettiamoci al lavoro”, è un appello alla politica, e il sottotitolo, “uno Stato creativo condizione di un'economia forte”, rovescia i termini del dibattito. Il testo è pieno di recuperi positivi del New Deal, della Works Progress Administration, della Civilian Conservation corps, ossia di ciò che il pensiero dominante ha considerato morto, sepolto e assolutamente scorretto riproporre. Siccome e Clinton resta un politico molto popolare negli Stati Uniti, non in Tanzania, forse può essere considerato uno dei punti di riferimento.
Ecco, ritengo che sia proprio nel far coincidere la libertà con il rifiuto della dimensione statuale che risiede il carattere adolescenziale della libertà. Una libertà matura, viceversa, è la libertà dell'agire collettivo che riscopre gli strumenti della forza. La statualità è la forza della politica, il monopolio della forza, la possibilità di decidere, il fatto che di fronte a una questione – ripeto - ci sono più decisioni possibili.
Ed è chiaro che per noi l'Europa è la dimensione necessaria della statualità, della politica-forza, perché nella battaglia di egemonia con la finanza globalizzata lo Stato-nazione è troppo debole, non ha le risorse. All’opposto, quello americano è uno Stato nazionale che le risorse le ha. Dunque, dobbiamo riproporre la dimensione europea, ma non come fu negli anni ’90, quando indicammo l'Europa come un modello a cui l'Italia doveva guardare per modernizzare se stessa. Oggi l'Europa è terreno di una aspra lotta politica, di opzioni diverse.
In questo senso, vorrei dire: viva la faccia Hollande! Al di là della retorica delle campagne elettorali, può piacere o non piacere che un politico affermi che la finanza è il suo nemico, ma ben venga un uomo che si candida a governare la Francia dicendo che si può avere una politica della crescita e una politica di regolazione più severa della finanza.
Voglio dire, l’ispirazione mi pare giusta. E vedo questo come un elemento che può aprire una prospettiva nuova a cui potranno poi fare seguito naturalmente le possibili svolte politiche in Italia e in Germania.
Credo che noi dobbiamo agganciare a queste prospettive anche il nostro progetto del dopo Monti, dopo l'emergenza e la serietà di questo governo. Bersani all’inizio ha detto una cosa molto giusta: noi non chiediamo a questo governo di fare la svolta, di essere il centrosinistra, gli chiediamo di affrontare con equità l'emergenza e di non agire in una prospettiva contraria. Ecco, a mio parere, questo il governo lo sta facendo.
A noi spetta ragionare sul futuro, nella consapevolezza che solo sostenendo Monti si prepara il dopo. Contro di esso, viceversa, non si costruisce nulla. Non abbiamo nessun interesse a ché la destra si appropri di questo governo, anche perché non ne ha titolo. Anzi, per certi aspetti segna antropologicamente una cesura nettissima con il recente passato. Insomma, non è in discussione il governo Monti, ma quale prospettiva, che io vedo necessariamente connessa ad una svolta politica che deve riguardare l'Europa.
Inoltre, sento la necessità di spingere oltre la nostra riflessione.
Sempre in quel libro, Clinton parla di azione pubblica nel senso di grandi investimenti per riorientare l'economia come condizione della ripresa. Certo, bisogna sostenere anche l'economia privata, ma se vogliamo correggere lo sviluppo e renderlo, ad esempio, ambientalmente sostenibile, è indubbio che al centro siano necessari ingenti investimenti pubblici.
Occorre, quindi, regolare le forme in cui l'azione pubblica si determina, perché è chiaro che se ha come fine la ripresa di una crescita equilibrata, non della decrescita, deve essere attenta alla qualità dei consumi, ai beni comuni, e deve essere in grado di misurare non soltanto la misura del Pil, ma anche la misura dell'anima- come dice uno dei libri che Cuperlo ci ha suggerito “The spirit Level”, di Richard Wilkinson and Kate Pickett.
Nello stesso tempo, l'altro grande obiettivo dell'intervento pubblica deve essere la riduzione delle diseguaglianze, nell’epoca in cui il welfare è in grado di svolgere meno questa funzione. Bisogna pensare a politiche molto aggressive di riduzione della diseguaglianze - anche dal punto di vista delle politiche fiscali -, di redistribuzione della ricchezza e delle opportunità. Anche perché l'accentuarsi delle diseguaglianze, non solo produce una società insostenibile, ma è un freno alla ripresa economica.
Insomma, azione pubblica: è questo il compito della politica. Ripensarne i mezzi, gli strumenti, ma rimetterla al centro della nostra elaborazione e proposta. Abbiamo chiare finalità: sostenere una crescita equilibrata e ridurre le diseguaglianze. E’ questo il contenuto del programma italiano ed europeo, non contro Monti, ma che guardi oltre l'esperienza di questo governo.
Grazie.

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