Discorso
27 febbraio 2012

L’EUROPA E L’AREA DEL MEDITERRANEO

CONFERENZA DI MASSIMO D’ALEMA, LICEO ORAZIO – ROMA


La discussione che vorrei affrontare con voi sarà soprattutto incentrata sui temi internazionali di maggiore attualità che riguardano, in particolare, il mondo arabo. Ciò che sta accadendo in quella Regione, infatti, presenta opportunità e problemi, ma anche vere e proprie tragedie, se pensiamo alla Siria. Parlare di questi argomenti può aiutarci a capire quali prospettive ne vengono per l’Europa e per l’Italia. Una riflessione che si avvale di incontri che ho avuto recentemente, sia all’estero, in un recente viaggio in Israele, Palestina e Egitto, sia in Italia, dove ho avuto colloqui con molte personalità, da ultimo il ministro degli Esteri della Tunisia.
In questi mesi, infatti, il rapporto con il nuovo mondo arabo è stato intenso. Questo permette di fare un primo bilancio anche per capire chi sono, come ragionano, chi rappresentano le persone che, al di là del mare, di fronte a noi, vanno ad assumere responsabilità di governo in questi Paesi. E’ un tempo in cui tutto sembra rapidamente cambiare: per molti decenni quei Paesi sono stati dominati da dittature, da regimi che non cambiavano mai e che hanno rappresentato gli interlocutori dell’Occidente.
Tuttavia, prima di venire a questi temi, credo sia opportuno volgere lo sguardo indietro nel tempo. Il Mediterraneo, questo mare interno sulle cui sponde si affacciano tre continenti, l’Europa, l’Africa e l’Asia, è senza dubbio il grembo della nostra storia e della nostra civiltà. E’ nel grande bacino del Mediterraneo che i primi insediamenti umani sono stati creati, in particolare, lungo quella che gli storici, i geografi, hanno definito la Mezzaluna Fertile, cioè quell’area che, attraverso la Mesopotamia, si spinge verso il Golfo Persico. Il Mediterraneo è stato il centro della storia almeno fino alla scoperta dell’America, cioè dai tempi più lontani dell’esistenza delle prime città (quattro, cinquemila anni prima di Cristo), fino al 1500.
Dico questo perché i conflitti di oggi hanno radici molto lontane che, in parte, affondano nei conflitti di natura religiosa che hanno lungamente insanguinato il Mediterraneo, parliamo di un’area in cui nascono le grandi religioni monoteistiche, l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam.
Molti grandi storici e intellettuali si sono occupati di questa regione. Tra questi, senza dubbio, un grande maestro è stato il fondatore de “Les Annales”, Fernand Braudel, che ha descritto la civiltà del Mediterraneo. Più recentemente, un intellettuale bosniaco molto originale, Pradrev Matvejevic, uno studioso di letteratura e di geografia, ha scritto “Breviario Mediterraneo”, un bellissimo libro a cavallo tra un romanzo, un testo di geografia e uno di storia, in cui egli parte da una difficile definizione: dove arriva il Mediterraneo?
Gli antichi insegnavano che il Mediterraneo giunge sin dove cresce l’ulivo: era questo il tratto identitario. Ora, moltissime delle piante con cui conviviamo hanno altre origini. Per esempio, una parte notevole degli alimenti di cui ci cibiamo, come le patate o i pomodori, sono recentemente arrivati dall’America. Viceversa, l’ulivo e la vite costituiscono due tratti assolutamente identitari del bacino Mediterraneo, e l’ulivo, in particolare, ne ha caratterizzato la civiltà per migliaia di anni.
Ebbene, Matvejevic sostiene che i confini non sono definiti nello spazio e nel tempo, non sappiamo come determinarli, sono irriducibili alla sovranità, non sono né statali né nazionali. Somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere riscritto e cancellato, allargato o ristretto dalle onde, dai venti, dalle imprese e dalle aspirazioni umane. In questo libro, egli studia tutti i collegamenti sotterranei: come nella nostra civiltà, nel mondo balcanico, nel mondo arabo, nell’Asia minore si ritrovano gli stessi cibi, le stesse elaborazioni, le stesse radici linguistiche. La parola barca, ad esempio, è declinata praticamente in tutte le lingue con una radice comune. Insomma, è un intellettuale che cerca di ricostruire i tratti collettivi di una civiltà nella quale, tuttavia, si sono anche dispiegati nel corso dei secoli drammatici scontri.
L’Europa, il Maghreb, il Levante, giudaismo, cristianesimo, islam, il Talmud, la Bibbia, il Corano, Atene e Roma… Sono luoghi, culture e religioni che sono stati anche protagonisti di tragici conflitti. In particolare, il centro di tutto questo è il punto insieme più affascinante e più tragico del Mediterraneo: la Terra Santa, dove si incrociano i destini delle grandi religioni monoteistiche.
E’ un luogo di grandi battaglie. Pensiamo ai romani che espugnarono Gerusalemme e, sotto l’imperatore Tito, distrussero il tempio, la cui memoria è tutt’ora il luogo di più intenso culto ebraico. Il Muro del pianto reggeva, infatti, quel grande e antico tempio che, da allora, è stato l’epicentro di tutti i conflitti, dall’islam, alle crociate cristiane, alla riconquista musulmana. Fino ad oggi. Ne è testimonianza ben visibile la città di Hebron. Lì c’è il simbolo di questo incrocio di civiltà che è la tomba di Abramo, perché da lui derivano gli ebrei, i cristiani e i musulmani. E intorno ad essa sono erette la moschea e la sinagoga, e tutti sono armati, perché su questo pezzettino di terra si consuma un tragico conflitto.
A Hebron, che conta 180 mila abitanti, c’è un insediamento ebraico che ne ha espugnato il centro. E’ come se nel centro di una media città italiana ci fosse una colonia straniera circondata con i fili spinati, i cavalli di Frisia, i soldati armati… E loro sono lì per presidiare la memoria di Abramo e per impedire che se ne approprino soltanto i musulmani.
Ecco, questa è l’immagine plastica della vicenda mediterranea. Siamo figli della stessa civiltà, e lo siamo stati fino al VII-VII sec. d.C.
Pensiamo alla civiltà greca, fatta di esploratori, colonizzatori. Non si tratta di una civiltà imperiale. I grandi poemi dell’esplorazione ellenica sono l’Iliade e l’Odissea: l’Iliade è il romanzo dell’esplorazione a Levante, perché i greci vanno verso l’Asia minore per espugnare Troia; l’Odissea narra dell’esplorazione a Ponente, perché Ulisse viaggia verso il Tirreno, verso di noi. I greci sono fondatori di colonie, di porti, di mercati… I romani, viceversa, sono conquistatori. Ma non c’è dubbio che è la civiltà greco-romana a unificare il Mediterraneo.
Attenzione, però, perché i romani sono conquistatori inclusivi. Dove arriva la conquista romana si diventa cittadini dell’Urbe. Così, Settimio Severo era libico, ma diventò imperatore di Roma perché era cittadino di Roma. Ancora, Sant’Agostino, uno dei padri della nostra cultura, era tunisino.
Dunque si è trattato di un’unica civiltà, almeno fino a quando la conquista araba non spezza il Mediterraneo dando vita a quel conflitto scaturito in parte per responsabilità cristiana, visto che i primi ad andare lì furono i crociati, in parte per responsabilità degli arabi.
Nel modo diverso di definire il “mare” risiede l’ambiguità che presenta il Mediterraneo. Mentre noi abbiamo un’unica parola per chiamare il mare, i greci e i romani ne avevano due, distinte: “pelagus” o “pontos”. Due parole, queste, che hanno due significati molto diversi. Il pelago è un concetto ostile, ancora adesso si dice impelagarsi, nel senso di mettersi nei guai, è il mare inteso come una minaccia, come una realtà misteriosa che sta intorno a noi. Pontos, invece, è una parola amica, dalla radice di ponte, è il mare in quanto mezzo attraverso il quale civiltà diverse si mettono in contatto tra di loro.
Insomma, il mare ha questa ambiguità, persino nelle lingue antiche semanticamente portava due modi diversi di definire il mare. E il Mediterraneo è esattamente questo: è ponte tra civiltà diverse ma, in determinate epoche, è stato un pelagus, un mare ostile. Se guardiamo alle nostre isole o lungo le nostre coste, gli insediamenti antichi non li troviamo mai sul mare, sono sempre in cima alle montagne. Questo perché il mare era nemico, da lì arrivavano i pirati, i saccheggiatori, i saraceni e quindi le città si costruivano in paesini fortificati sulle alture.
E’ interessante vedere, ad esempio, come in una grande isola italiana, la Sardegna, la cucina tradizionale sia fatta di pecora, di maiale, ma non contenga pesce, che è un’acquisizione recente, perché quei popoli, pur vivendo in mezzo al mare, ci vedevano un potenziale nemico, una minaccia.
Questo mare, oggi, torna ad essere attuale. Braudel aveva teorizzato che il Mediterraneo, che era stato appunto il centro della civiltà umana fino al ‘500, a partire dalla scoperta dell’America diventa via via marginale e il fulcro delle attività umane si sposta sull’Atlantico, dove avvengono i grandi traffici commerciali. L’Europa si orienta verso l’America e quei Paesi europei maggiormente esposti verso l’Atlantico diventano i più potenti: si apre il conflitto tra la Spagna, che colonizza l’America meridionale, l’Inghilterra, che punta a colonizzare l’America settentrionale, e l’Olanda, potenza commerciale. Insomma, è un quadro in cui il baricentro della civiltà si è sposta verso l’Occidente.
Progressivamente, dopo la Seconda guerra mondiale, è il Pacifico che diventa il centro pulsante dello sviluppo e della crescita: da una parte la costa occidentale degli Stati Uniti, la California, più evoluta, più moderna, dall’altra le grandi potenze asiatiche.
In questo tempo potremmo dire che il mondo globale nel quale viviamo è policentrico. Naturalmente, il Pacifico rimane un polo essenziale nella crescita economica del dinamismo, basta pensare alla potenza cinese e al rapporto tra Cina e Stati Uniti come l’asse di un qualsiasi possibile processo di sviluppo mondiale.
In qualche modo, però, anche il Mediterraneo è venuto, nel bene o nel male, riacquistando una sua centralità, anche perché è teatro di grandi conflitti. Innanzitutto, quello tra mondo occidentale e islam che, a partire dall’attacco terrorista alle Twin Towers, si è riproposto come principale minaccia per la sicurezza internazionale. Uno scontro che si sviluppa lungo tutto l’arco del mondo musulmano, dai grandi Paesi islamici d’Oriente, come il Pakistan e l’Afghanistan, ma che sicuramente ha nel Mediterraneo un suo punto cruciale. Inoltre, è da lì che si intreccia una parte importantissima delle relazioni da cui dipende la sicurezza energetica del mondo. Attraverso il Mediterraneo passano i grandi gasdotti, gli oleodotti, penso all’Algeria, alla Libia, ma il gas ci arriva anche dall’Asia minore, dal Mar Nero.
E il Mediterraneo è anche uno dei grandi centri di un altro grande fenomeno che caratterizza il nostro tempo, cioè le migrazioni umane. Le due maggiori frontiere delle grandi migrazioni, infatti, sono quella tra l’America del Sud e l’America del Nord, tra il Messico e gli Stati Uniti, e quella tra l’Africa e l’Europa, cioè il Mediterraneo.
Vedete, negli ultimi anni è accaduta una tragedia immensa nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica: decine di migliaia di persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Un numero spaventoso di persone che sono scomparse nel disperato sforzo di raggiungere l’Europa, provenendo dall’Africa subsahariana, in parte dal Maghreb, ma in parte notevole dal Corno d’Africa. Dunque, è anche per queste drammatiche ragioni che il Mediterraneo è tornato al centro dell’attenzione internazionale.
Insomma, lungo le sue sponde si definisce la possibilità della sicurezza intesa come lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico, ma in un rapporto non conflittuale con il mondo islamico, sia la sicurezza energetica. E qui si vive una delle grandi sfide del nostro tempo, quella delle migrazioni.

Oltretutto, le migrazioni sono spinte dalla fame, dalla speranza di una vita migliore, ma sempre di più interviene un altro fattore a rendere irrefrenabile questo fenomeno. Mi riferisco al mutamento climatico, che sta desertificando una parte del pianeta, distruggendo le risorse necessarie per vivere e costringendo grandi masse a spostarsi verso la parte meno calda del globo.
Quindi parliamo di un grande processo che per ora è diretto da Sud verso Nord. Nell’emisfero meridionale, invece, c’è un processo del tutto speculare, perché lì il flusso migratorio è diretto verso il Sud. E’ curioso come questo fattore climatico influenzi la civiltà umana: se voi andate in America meridionale, le aree più sviluppate sono al Sud, mentre al Nord ci sono quelle più povere. Si rovescia completamente il paradigma al quale noi siamo abituati. Ad esempio, il Brasile povero è il nord-est, quello ricco è il sud, dove fa più freddo ed è quindi meta delle migrazioni, tendenza legata alla desertificazione.
Vorrei tornare, adesso, a parlare del nostro continente, anche perché non c’è dubbio che l’Unione europea rappresenti la più straordinaria costruzione istituzionale, pur con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà. E può costituire una grande risposta degli europei alle sfide della globalizzazione. Essa, negli ultimi 25 anni, a partire dal 1989, si è concentrata soprattutto verso i paesi dell’Est, dopo la fine del comunismo e della Guerra fredda, la caduta della cortina di ferro che aveva separato in due il continente. Perciò si è dedicata principalmente a riunificare se stessa, ha destinato a questo fine immense risorse, politiche e materiali, per costruire la democrazia e un’economia di mercato nell’Europa centrale e orientale.
Un processo che, naturalmente, è stato guidato dalla Germania. D’altronde, la riunificazione europea è stata innanzitutto la riunificazione di quel Paese e la rinascita della grande potenza tedesca nel cuore dell’Europa. La Germania ne ha tratto anche molti vantaggi: è stato senz’altro il Paese che ha saputo interpretare, dirigere, affermare una propria leadership molto più di quanto non fosse nel passato.
Era inevitabile che quella stagione fosse segnata da quegli avvenimenti e che quei passaggi portassero in quella direzione. Oggi, credo che l’Europa dovrebbe volgere a Sud la sua attenzione. In qualche modo, a mio parere, siamo di fronte a un evento storico che ha la stessa portata di quello che avvenne nell’89, nel senso che il mutamento sconvolgente che avviene nel mondo arabo è anch’esso un grande moto popolare verso la libertà e la democrazia.
Certo, in ogni parte del mondo il cammino verso la democrazia ha forme proprie. Era difficile pensare che nel mondo islamico ciò sarebbe avvenuto sulla base del modello occidentale, soltanto i neoconservatori americani potevano sostenere quest’idea: la guerra in Iraq era ispirata a questo principio, ma si è risolta in un totale fallimento.
L’avvento della democrazia nel mondo islamico costruisce un rapporto tra modernità e tradizione che è proprio dell’islamismo. Non credo che ci si possa stupire che lì siano i partiti di ispirazione islamica tra i protagonisti di questo processo, perché anche in Italia, quando vi fu l’avvento della democrazia dopo il fascismo, la Democrazia cristiana guidò il cammino democratico.
Tuttavia, questo non toglie nulla al valore di uno sconvolgimento che apre enormi potenzialità e che richiede una risposta politica coraggiosa. Si tratta, a mio giudizio, di un mutamento di portata storica, un processo che non è certo compiuto, ma che ha portato sin qui al rovesciamento dei regimi dittatoriali in Tunisia e in Egitto, a una sanguinosa guerra civile che si è conclusa con la caduta del regime di Gheddafi in Libia, e, da ultimo, a uno scontro aspro e sanguinoso in Siria, rispetto al quale è importante che la comunità internazionale agisca.
Per quanto riguarda la realtà siriana, è difficile pensare a un intervento militare, anche perché il conflitto è molto più complesso: non si tratta di un popolo contro un dittatore, ma di una maggioranza contro una minoranza, che, però, conta almeno due milioni di persone. Perciò è un conflitto che richiede un’azione politica e che ha bisogno di essere risolto anche attraverso un negoziato. Ciononostante è ormai improbabile che la dittatura di Assad possa resistere allo sconvolgimento in corso.
Ma questo movimento, secondo me, è destinato a influenzare più largamente il mondo arabo. Penso all’Algeria, un Paese nel quale tornano profonde tensioni, o al Marocco, dove c’è una spinta alla democratizzazione che è più forte rispetto a quella che c’è stata fino a oggi. Persino nei Paesi del Golfo, che sono molto ricchi, l’influenza della primavera araba si fa sentire in termini di rivendicazione di libertà, dei diritti delle donne.
Insomma, ci troviamo di fronte a un cambiamento vero, non congiunturale, che non è necessariamente rivolto contro l’Occidente. Al contrario, direi che i giovani che hanno dato vita al moto del mondo arabo in parte si sono ispirati ai nostri stessi valori. E’ una nuova generazione connotata da un intreccio curioso tra tradizione e modernità.
In proposito, mi viene in mente un reportage sulla primavera araba di un bravo fotografo italiano. Uno dei migliori scatti è quello di un gruppo di donne con il velo durante una preghiera di protesta in piazza Tahrir, e una di loro, in piedi, riprende la scena in diretta con lo smartphone. Ecco, è un’immagine emblematica di quella tradizione religiosa e modernità a cui mi riferivo prima.
Non dimentichiamoci che internet è stato uno degli strumenti principali della rivolta. Così come la televisione al Jazeera, una grande invenzione che ha fatto di un piccolo Paese come il Qatar, grazie all’intelligenza dell’emiro al Thani, un punto di riferimento fondamentale, perché sostiene i movimenti islamici e ha dato voce al mondo arabo. Vedete, al Jazeera è una televisione militante, con un altissimo tasso di professionalità, ma anche di impegno politico. Una volta sono andato a visitare la sua redazione a Doha, ho partecipato a un incontro con il board e sembrava di essere tornati giovani, di essere in un’assemblea studentesca degli anni ’70! Entrando nella sede di al Jazeera International, la prima immagine che si ha, è una sala dove ci sono le fotografie di tutti i cameramen e i giornalisti uccisi in Iraq, con la scritta: “questi sono i nostri collaboratori vittime dell’imperialismo americano”. Dopodiché, la sensazione del visitatore è che si tratta di una televisione militante che ha dato voce al radicalismo islamico in modo intelligente e altamente professionale, ed è stata sicuramente uno degli strumenti che hanno sostenuto la primavera araba.
Bisogna capire bene questo elemento del ritorno religioso e stare attenti a non pensare che l’islamismo sia un residuo della tradizione. Se uno andava a Tripoli o al Cairo vent’anni fa, era difficile trovare una donna giovane con il velo. Oggi, viceversa, è difficile trovarne una senza. Può apparire paradossale il fatto che il ritorno alla religiosità islamica e alle sue forme esteriori sia un fenomeno relativamente moderno, dopo un lungo periodo in cui la secolarizzazione di stampo occidentale l’aveva largamente spiantata.
E perché avviene questo? E’ un tema affrontato da uno studioso algerino che insegna in Italia, a Trieste, Khaled Fouad Allam. Il suo bel libro, intitolato “l’Islam globalizzato”, si apre con il racconto di un dialogo tra una madre e una figlia immigrate maghrebine a Parigi. La madre è una donna di servizio e la figlia è studentessa di filosofia alla Sorbona, la figlia porta il velo e la madre no. La madre dice alla figlia: “Scusami, ma perché porti il velo? Noi, quando c’è stata la rivoluzione algerina, abbiamo imparato che il velo era un segno di sottomissione delle donne, e ce ne siamo liberate”. “Sì, è vero - risponde la figlia - questa è la storia della tua generazione, ma il mio problema adesso è un altro: io studio alla Sorbona e rischio di essere soffocata dalla cultura francese, non dalla nostra, e se voglio difendere la mia identità culturale ho bisogno di esibirla anche attraverso il velo”.
La religiosità, dunque, viene riscoperta nell’epoca della globalizzazione come fattore di affermazione di un’identità minacciata, un mondo che non vuole farsi omologare ai modelli occidentali e trova protezione proprio nell’identità religiosa.
Vedete quanto è stato sbagliato pensare che la globalizzazione avrebbe reso tutti eguali? E’ stata una grande illusione americana. In realtà, una parte del mondo ha reagito, ha percepito questa penetrazione culturale come un tentativo di colonizzazione dell’anima e la riscoperta dei sentimenti religiosi, anche in forme fondamentalistiche, è stato un modo di difendersi dalla minaccia di questo processo di omologazione.
Pertanto la rinascita dell’islamismo, che il mondo arabo sta vivendo, è un fenomeno moderno, non un residuo antico. Anzi, negli anni ’50 - ’60 questi Paesi si erano via via liberati dalle forme di religiosità di massa, e la religione era diventata un fatto di minoranza.
Tuttavia, anche nelle civiltà occidentali assistiamo a questo fenomeno: un ritorno di religiosità nello spazio pubblico, che è un portato della globalizzazione. Anche da noi, essa, anziché farci diventare tutti uguali, ci ha spinto a riscoprire le nostre radici, a riaffermare la nostra diversità, proprio per il timore dell’omologazione culturale.
Questo per dire che l’islamismo assume il forte tratto moderno della riscoperta identitaria, e che ciò naturalmente può porsi in termini conflittuali o meno con l’Occidente. In parte, dipende anche da noi, dalla nostra capacità di misurarci con queste trasformazioni. D’altra parte, il problema della convivenza è estremamente delicato. Basti pensare che all’interno dei confini dell’Unione europea vivono oramai quasi 40 milioni di musulmani e nel nostro Paese sono di gran lunga la seconda comunità religiosa.
Le religioni hanno una forte carica di ambiguità. Voglio ricordare, a questo proposito, un bellissimo dialogo, “Processo a Dio”, tra Tony Blair e Christopher Hitchens, un intellettuale che è stato uno dei grandi teorici dell’ateismo, in cui discutevano se le religioni siano un bene o un male. Le religioni, da una parte, sono la radice dell’amore, perché indubbiamente sono le grandi credenze monoteistiche che hanno affermato il valore universale della persona, l’eguaglianza. E, se siamo tutti figli di Dio, siamo tutti eguali. L’eguaglianza è il fondamento della libertà e della democrazia, quindi non si può concepire la democrazia senza un fondamento storicamente religioso. Dall’altra parte, è anche vero che le religioni portano in sé anche il germe del dogma: “la mia verità è la Verità e non è relativamente compatibile con la tua”. Se quella roccia alla spianata delle moschee a Gerusalemme è la stessa su cui Abramo stava per sacrificare Isacco ed è la stessa da cui Maometto spiccò il volo per raggiungere Allah, siamo davanti a due verità incompatibili tra di loro e per conquistare quella roccia si sono ammazzate nel corso dei secoli migliaia di persone.
Insomma, è questa la straordinaria, affascinante, terribile ambiguità delle religioni a cui mi riferivo: sono la radice dei valori moderni, della libertà, perché c’è l’affermazione del fatto che siamo tutti uguali, ma è anche vero che, quando esplode l’intolleranza dogmatica, esse possono generare il fondamentalismo e l’odio.
Questa è la condizione in cui viviamo oggi: nei Paesi in cui ci si avvia verso la democrazia, in forme tumultuose, difficili, i partiti di ispirazione islamica giocano un ruolo fondamentale, nel senso che vincono le elezioni. Sta accadendo in Tunisia, in Egitto, e in Siria l’opposizione è prevalentemente animata da forze di ispirazione islamica. In Libia, addirittura, il capo delle forze armate ribelli è un signore che ha passato un certo periodo di tempo a Guantanamo, era un allievo di Osama bin Laden. Ora dice di aver cambiato opinione e dobbiamo rispettarlo, ma, insomma, la matrice è quella.
D’altro canto anche l’Occidente qui ha le sue colpe, perché a lungo ha corteggiato il fondamentalismo islamico e lo ha fatto soprattutto quando si volgeva contro la sinistra. Il comunismo e il socialismo arabo, in quanto atei, sono stati a lungo i principali nemici dei gruppi fondamentalisti che hanno trovato sostegno nell’Occidente. Osama bin Laden era legato agli americani e Al Qaida, che vuol dire “la base”, è nata proprio in una base militare americana, dove bin Laden faceva l’addestramento dei volontari islamici che andavano a combattere in Afghanistan contro l’Armata rossa, contro i sovietici.
Paradossalmente, quindi, l’Occidente ha alimentato nel suo seno il fondamentalismo per molti anni. Poi, però, una volta caduto il comunismo, il fondamentalismo islamico ha rivolto le sue armi contro il capitalismo negatore dei valori religiosi.
E’ una storia complicata. La storia è spesso complicata, non è mai bianco o nero.
Tornando alla Primavera araba, dobbiamo chiederci cosa può fare l’Europa di fronte a questo grande cambiamento. In particolare, occorre domandarsi cosa può fare l’Italia, perché il nostro è un grande Paese europeo che ha una vocazione mediterranea e che per molti aspetti vede persino le sue possibilità di sviluppo economico legate a questa prospettiva.
Innanzitutto, credo che abbiamo il dovere di sostenere senza incertezze la democrazia, la libertà, il processo democratico che è in corso. L’Europa non può mostrarsi incerta, non può dare la sensazione di rimpiangere i dittatori che c’erano prima.
Certo, noi abbiamo avuto diverse relazioni con questi dittatori, ma lo abbiamo fatto perché erano in gioco fondamentali interessi nazionali. La politica, d’altronde, ha una inevitabile dose di cinismo. Possiamo rimproverarci di avere avuto rapporti con Gheddafi? Dal punto di vista etico certamente sì, ma senza quei contatti voi non avreste potuto accendere il fuoco la mattina per prendere il caffè. Dal momento che investivano interessi vitali del nostro continente, perché la Libia è uno dei principali fornitori di gas del nostro Paese, l’Europa tutta non ha potuto fare altrimenti.
Ciononostante, di fronte al positivo cambiamento intervenuto in Libia, sarebbe impensabile assumere l’atteggiamento di chi rimpiange le vecchie dittature. Noi dobbiamo sostenere la democrazia, e laddove ancora si combatte per la democrazia dobbiamo sostenere quelli che combattono.
La seconda questione è che democrazia significa anche rispettare le nuove classi dirigenti che vengono scelte, perché, che ci piacciano o meno, è con loro che dobbiamo discutere, in modo aperto. Da questo punto di vista, l’Europa, insieme agli americani, compì un errore di giudizio quando impose ai palestinesi di fare libere elezioni. Loro le fecero, e si trattò del primo esempio nel mondo arabo di elezioni democratiche controllate internazionalmente. Siccome, poi, le vinse Hamas, il giorno dopo l’Europa disse: “però noi non parliamo con quelli che le hanno vinte”.
Ripeto, fu un atteggiamento sbagliato e lo dissi con un avvertimento: “badate, possiamo non essere d’accordo con l’esito elettorale, ma non possiamo chiudere la porta in faccia a una classe dirigente che i palestinesi si sono scelti. Dobbiamo discutere con queste persone, collaborare con loro”. Allora, mi presi una grande quantità di critiche, adesso stanno tutti cambiando idea.
Qualche settimana fa, sono stato in Egitto, dove ho visto non soltanto Mohamed Mursi, il leader politico Libertà e Giustizia, il partito islamico che ha vinto le elezioni, ma anche la Guida suprema della Fratellanza musulmana, Mohamed Badie. L’ho voluto incontrare perché questi partiti islamici hanno un’organizzazione in cui c’è il partito politico, ma prima di esso viene l’associazione culturale e religiosa, che è più importante.
Nel mondo sciita, infatti, esiste un vero e proprio clero, gli ayatollah e i mullah, che sarebbero come i vescovi e i parroci. Nel mondo sunnita, invece, non esiste il clero e l’autorità religiosa è un laico, un saggio, un sapiente a cui si attribuisce questo ruolo. In Egitto, ad esempio, il la Guida suprema del movimento è un professore universitario che faceva il veterinario, era il preside di facoltà, che ha trascorso quindici anni in prigione perché, sotto la dittatura di Mubarak, i Fratelli musulmani erano fuorilegge. E’ una personalità molto interessante che, più in generale, deve essere rispettata come tutte le persone che affrontano la persecuzione e il carcere per le loro convinzioni.
Certo, la democrazia non è soltanto libertà di voto, ma anche rispetto delle minoranze. Un grande Paese come l’Egitto, per esempio, deve rispettare i diritti della minoranza cristiana, che non è un piccolo gruppo, dato che i copti sono 7-8 milioni di persone. In questo Paese di 90 milioni di abitanti, dunque, la convivenza con i cristiani è un test per noi fondamentale.
La democrazia è rispetto dei diritti individuali. Non c’è dubbio che l’Islam politico sia davanti a una prova importante, tra le più impegnative, che investe in primo luogo il tema dei diritti delle donne. Non è pensabile che Paesi democratici neghino le libertà e i diritti fondamentali delle donne. In proposito, in questi giorni alle Nazioni Unite si tiene un’importantissima sessione dell’Assemblea Generale dedicata alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili. Una pratica che appartiene al mondo islamico, a una sfera religiosa più primitiva, in particolare in Africa.
Quindi, a mio parere, dobbiamo istaurare un dialogo, che deve essere, però, senza sconti. Invece che la demonizzazione, è il dialogo a spingere queste classi dirigenti a costruire delle democrazie più accettabili.
Inoltre, credo che noi dobbiamo intervenire su alcune grandi scelte politiche.
La prima è che con questi Paesi dobbiamo abbandonare un rapporto e una politica di tipo neocoloniale. Abbiamo trattato con élite ristrette, secondo meccanismi per i quali loro ci davano il gas o il petrolio e noi le pagavamo. E si trattava di ricchezze che, naturalmente, non sono mai arrivate al popolo. In qualche caso, questo rapporto è stato anche di tipo corruttivo, nel senso che per ottenere le materie prime, magari, si corrompeva questo o quel ministro, questo o quel principe, a seconda del tipo di regime con cui si aveva a che fare. Tutto ciò ora è impensabile.
Come dicevo prima, dunque, bisogna passare da un rapporto di tipo neocoloniale, a un rapporto basato sulla collaborazione e sulla cooperazione, costruendo insieme a loro una politica energetica che riduca la dipendenza dal petrolio e dal gas. Certo, questo passaggio comporterà scelte non semplici, perché tendenzialmente i prezzi delle materie prime aumenteranno e perché bisognerà riorientare le nostre scelte, in particolare in politica energetica. La sponda Sud del Mediterraneo, ad esempio, è uno straordinario partner per promuovere politiche delle energie alternative, nell’ottica di un interesse comune.
Il terzo punto riguarda una questione nodale per il futuro dell’Europa: il governo delle migrazioni. L’Italia è stata recentemente condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per quello che il governo Berlusconi ha fatto insieme al governo libico. Era evidente l’illegittimità di quelle azioni, e noi lo dicemmo, perché il respingimento collettivo in mezzo al mare oltre a essere illegittimo, è una vergogna. Il diritto internazionale prevede che coloro che vengono da Paesi dove c’è la guerra o la dittatura, devono essere accolti come rifugiati. Non si possono respingere le imbarcazioni, perché i respingimenti possono essere solo individuali. L’Italia, in quanto Paese civile, non può violare norme fondamentali di rispetto dei diritti umani. Tanto più che queste persone venivano rimandate in un Paese dove non c’era alcuna garanzia in questo senso, quindi, in qualche modo, ci rendevamo complici anche di quello che accadeva loro in Libia. Ed è qualcosa di indescrivibile.
Politiche di questo tipo non si possono fare. Tra l’altro, questi Paesi ormai sono divenuti anch’essi mete di flussi migratori. Si tratta di immigrazione africana che dal Sud va verso il Maghreb. In parte i migranti si fermano lì, in parte vengono da noi.
Per questo è urgente approntare una politica comune, innanzitutto verso l’Africa. Una politica di collaborazione economica, che crei le condizioni perché non ci sia uno spopolamento di quel continente, e una politica dell’immigrazione in Europa, che sia fatta in modo intelligente, perché noi abbiamo bisogno degli immigrati.
Vedete, ogni volta che facciamo un ragionamento su questo tema prescindiamo da dati fondamentali: se vogliamo mantenere nei prossimi 30 anni un equilibrio tra popolazione attiva e popolazione in quiescenza, fondamentale per tenere in piedi i sistemi previdenziali, l’Europa necessita di 40 milioni di nuovi immigrati. Sono dati europei, non li ho inventati io.
Talvolta, nel nostro Paese, c’è qualcuno che urla: “cacciamoli tutti via”! Ecco, vorrei che fosse chiaro quali sarebbero le conseguenze.
La prima è che non si pagherebbero più le pensioni. Oggi, in Italia, il sistema previdenziale si fonda sul fatto che gli immigrati, che sono giovani, pagano i contributi, e gli italiani, che sono anziani, percepiscono la pensione. Inoltre, gli immigrati producono l’11% della ricchezza nazionale del nostro Paese, se se ne andassero tutti insieme, crollerebbero interi settori dell’economia, quali il calzaturiero, le concerie, la siderurgia… Senza considerare il fatto che, improvvisamente, circa un milione delle famiglie italiane si troverebbero prive di un fondamentale sostegno per l’assistenza agli anziani e ai bambini.
Quella che ho svolto non è soltanto una considerazione umanitaria, ma anche utilitaristica. Partirei dal fatto che abbiamo bisogno di loro, e per questo è opportuno che cerchiamo di organizzarci per convivere. Certo, non si può nascondere che la presenza di persone che hanno un’altra cultura e un altro modo di pensare comporti dei problemi, ma questi vanno risolti. Non bisogna evocare paure, ma affrontarli con intelligenza, con saggezza, riducendo i conflitti, favorendo il dialogo culturale e aiutandoli a diventare al più presto cittadini italiani.
C’è un dato impressionante che è stato rilevato dalle Acli: tra gli immigrati clandestini, il tasso di criminalità è molto più elevato che non tra i cittadini italiani, ma tra gli immigrati regolari, il tasso di criminalità è molto minore rispetto a quello dei cittadini italiani. Cosa vuol dire? Che se una persona è accettata come cittadino tende a comportarsi meglio, chi, invece, è in una condizione di clandestinità, diventa più facilmente manodopera di organizzazioni criminali.
Ripeto, è necessario (e quello che avviene nel mondo arabo è un grande stimolo) reimpiantare le politiche dell’immigrazione, politiche che siano razionali. E’ importante, infatti, che giungano nel nostro Paese il numero di persone di cui abbiamo bisogno in modo legale e di riconoscere loro i diritti, accoglierli e rispettarli.
Dall’altra parte del Mediterraneo non abbiamo più dei dittatori ai quali possiamo rimandare la gente come facevamo prima, che veniva rinchiusa in una sorta di campi di concentramento, ma abbiamo dei Paesi democratici con i quali dobbiamo discutere e costruire insieme politiche ragionevoli.
Questo aspetto rappresenta una condizione importante per una maggiore sicurezza nel Mediterraneo. Collaborazione è fonte di sicurezza ed essa lo è in quanto, innanzitutto, sicurezza umana. Togliamo l’acqua in cui si muove il terrorismo! Non è vero che i dittatori erano una garanzia contro il fondamentalismo islamico, anzi, per molti aspetti lo alimentavano, creando disperazione e odio nei loro Paesi.
Infine, penso che ciò che accade nel mondo arabo è una grande occasione per affrontare, finalmente, quella che a me sembra la madre di tutte le guerre: il conflitto israelo-palestinese. E’ nato come conflitto nazionale, si è via via trasformato in un conflitto di natura religiosa, acquisendo un valore simbolico che oggi ne accresce il significato al di là dei confini territoriali.
E’ il più antico conflitto irrisolto con il quale l’umanità debba confrontarsi, ed è carico di enormi significati per noi, perché è evidente che la questione ebraica affonda le sue radici nella tragedia europea. Spesso gli arabi dicono: “voi europei avete perseguitato gli ebrei e noi paghiamo il prezzo di quella tragedia”. Senza dubbio, il tema del destino e della sicurezza degli ebrei è un grande tema per l’Europa.
Non solo, perché, nello stesso tempo, il problema della convivenza tra arabi, ebrei e cristiani in quel pezzettino di terra, che è la Terra Santa di tre religioni monoteistiche, rappresenta uno dei grandi problemi della pace e della sicurezza del mondo.
In questo quadro, sono convinto che l’Europa debba fare di più per spingere verso una soluzione, che è stata scritta. Ormai non c’è più nulla da inventare. In un periodo lunghissimo di guerre e trattative, sono state ipotizzate tutte le divisioni dei territori possibili e immaginabili per ritagliare uno Stato palestinese sostenibile in un quadro di sicurezza per Israele. Quello che manca, però, è la volontà, la forza politica.
Il rischio è che da una parte e dall’altra prendano piede forze di tipo fondamentalista. E’ vero che Hamas dice che bisogna cancellare Israele, ma è anche vero che il ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman, sostiene che bisogna fare la pulizia etnica degli arabi in tutto il territorio tra il mare e il Giordano, e cacciarli al di là del fiume.
Insomma, dobbiamo fare molto di più. L’Europa, come disse una volta Helmudt Kohl “è un gigante economico e un nano politico”. Forse in nessuna parte del mondo se ne ha un’immagine più chiara. Perché lì noi paghiamo tutto, i palestinesi vivono grazie agli aiuti europei: noi costruiamo una scuola, dopo un po’ gli israeliani la abbattono e noi la ricostruiamo. Spesso paghiamo due o tre volte, è un esercizio di pazienza…
Appunto, recentemente sono andato in Cisgiordania per evitare che fosse abbattuta una scuola costruita da una Ong italiana con i fondi del governo italiano e della Conferenza episcopale. Si tratta di una scuola per i bambini dei beduini, costruita nel deserto del Negef, alle porte di Gerusalemme, e che l’esercito israeliano ha deliberato di abbattere, perché devono allargare un insediamento. Fortunatamente, dopo la nostra visita, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha sospeso la decisione di abbatterla.
Quindi, l’Europa paga per aiutare i palestinesi, ma è anche il principale partner economico di Israele, perché tutta l’economia israeliana si fonda su un accordo di libero scambio, siamo i maggiori importatori di beni di ogni genere.
In definitiva, sia gli uni che gli altri vivono grazie al rapporto con la Ue, ma non abbiamo alcuna voce in capitolo per spingerli a trovare un accordo.
In questo quadro, sono persuaso che sia un enorme ipocrisia affermare che la soluzione la devono trovare israeliani e palestinesi negoziando tra di loro, perché questo non è possibile. Intanto, è troppo profondo il solco della inimicizia che si è creato nel corso di tanti anni, e poi il negoziato sarebbe totalmente asimmetrico: Israele è una delle maggior potenze militari del mondo e i palestinesi sono divisi. Che negoziato possono fare? Infatti, si limitano a incontrarsi, discutono, ma non fanno nessun passo in avanti. Mancano i fondamenti per potere negoziare, così come manca lo spirito del negoziato.
Mi è capitato molte volte di andare in Terra Santa, e forse l’incontro più suggestivo l’ho avuto con il Cardinale Martini che, per un certo periodo, ha vissuto a Gerusalemme. Ebbene, egli faceva una cosa piccola ma straordinaria. Aveva organizzato un “dialogo della riconciliazione”: riuniva i familiari di palestinesi uccisi dagli israeliani e i familiari di israeliani uccisi da palestinesi, affinché dialogassero tra loro e si riconciliassero. Lasciate a se stesse, queste famiglie non si sarebbero mai incontrate. Se volete, in piccolo, l’opera del Cardinale Martini è la dimostrazione del fatto che se vogliamo la pace tra israeliani e palestinesi ci deve essere la comunità internazionale, perché sostenere che si debbano mettere d’accordo tra loro è un’ipocrisia. Equivale a dire che la pace non la faranno mai, non ci sarà mai.
Oggi, questo tema è destinato a diventare enorme. I dittatori arabi non avevano nessun reale interesse a risolvere il problema palestinese, perché, al contrario, l’esistenza di quel conflitto era un fattore su cui potevano fare un po’ di propaganda nazionalista. Viceversa, per i Paesi arabi democratici diventa importante trovare una soluzione, perché è una grande bandiera nel mondo arabo, per evitare che quella bandiera sia presa in mano dalle organizzazioni terroristiche, saranno le leadership democratiche a cercarla.
In proposito, nel corso della visita in Egitto, di cui ho parlato, ho incontrato anche Amr Moussa, uno dei candidati alla presidenza del Paese, già Segretario generale della Lega Araba, impegnato nella campagna elettorale. Si tratta di uno Stato poverissimo, c’è una crisi drammatica e Amr Moussa, che visita i villaggi dell’alto Egitto e parla ai cittadini soprattutto dei problemi economici del suo Paese, mi ha raccontato che una volta, alla fine di un’assemblea, gli hanno chiesto: “Abbiamo capito quello che proponi per noi. Ma per i palestinesi cosa pensi di fare?”.
Mi ha raccontato questo episodio per ribadire il fatto che la questione palestinese è nell’immaginario di tutto il mondo arabo, per cui o si trova una soluzione o rischia di diventare la spinta verso una radicalizzazione di cui certamente non abbiamo bisogno.
Per concludere, questo è il quadro di un mondo che sta cambiando. Si diffondono la democrazia e la libertà. E’ un grande fatto positivo e guai a guardare con paura a questo processo. E’ una grande opportunità per tornare a unificare il Mediterraneo, superando le ragioni di conflitti nazionali, etnici, religiosi, che ogni tanto dividono questo mare in modo sanguinoso.
Però, naturalmente, ci vuole la politica, e ci vuole un’Europa più unità, in grado di fare una politica intelligente e aperta. L’Italia, a mio giudizio, può dare un contributo in questa direzione, perché noi siamo un grande Paese mediterraneo e questa è la nostra vocazione. Non solo, perché, per molti aspetti, si tratta anche del nostro futuro: la ripresa economica non può che passare anche attraverso una cooperazione con l’altra sponda del Mediterraneo di cui siamo figli.
Voglio dire, una delle cose più buffe che si possa fare nel nostro Paese è abbandonarsi a nazionalismi di natura etnica. Essendo l’Italia un grande Paese mediterraneo, noi portiamo inevitabilmente tutte le tracce di quello che è avvenuto in questo mare. Ne sono un esempio quei siciliani biondi con gli occhi azzurri, il marchio incancellabile dei normanni, oppure quelli che possono passeggiare per le vie di Tripoli ed essere confusi con la popolazione locale, perché hanno le stesse radici, o ancora i longobardi… Insomma, siamo una straordinaria mescolanza di civiltà, e questo, badate, non è una debolezza, bensì una forza.
Un grande intellettuale francese, Lucien Febvre, in un suo libro sull’Europa, ha scritto: “solo dal mescolamento dei sangui nasce la civiltà e il progresso”. E’ stata sempre questa la forza del nostro Paese e credo che non ce lo dobbiamo mai dimenticare.
Grazie.

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