Intervista
26 giugno 2012

PRIMARIE? PRIMA IL PROGETTO. UN ASSE FORTE PER IL DOPO MONTI

Intervista di Simone Collini - L'Unità


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«La candidatura del Pd a governare l'Italia è dentro questa visione». Massimo D’Alema sta parlando già da un po’ quando arriva a citare per la prima volta il Pd. Il ragionamento parte dall’Europa, dalla necessità di una ripresa economica ma anche di ridare al vecchio continente un ruolo sulla scena mondiale, in quanto «il mondo ha sofferto il danno della deregulation economica, ma i danni della deregulation politica, di una mancanza di governance possono essere ancora maggiori, possono essere addirittura le guerre, e l’Europa dovrebbe portare il suo patrimonio giuridico, la sua civiltà, il suo soft power, che consiste esattamente nell’essere in grado di risolvere i conflitti attraverso la mediazione pacifica». E qui, prima del Pd, D’Alema cita il centrosinistra, che «deve farsi portatore di un grande progetto per l’Europa, dopo il fallimento della destra, che da una parte ha imprigionato l’Europa in una tecnocrazia monetarista di cui si vedono gli effetti disastrosi e dall’altra ha incoraggiato il nazionalismo populista, di cui l’Italia è stato uno dei laboratori più inquietanti». Dice che è necessario «un salto di qualità nell’integrazione politica dell’Europa» e che questo deve diventare «la bandiera di una nuova stagione progressista». E dentro a questo quadro generale si arriva al Pd: «Siamo parte di un nuovo progetto per l’Europa, e siamo l’unica forza che possa ragionevolmente collegare il centrosinistra italiano a un nuovo centrosinistra europeo».


Lei guarda all’Europa ma non sarebbe più opportuno guardare alla richiesta di cambiamento che oggi investe i partiti?


«Vede, noi siamo uno strano Paese, in cui viene messa ai margini la questione centrale e si dà vita a un dibattito estremamente povero e molto provinciale. In tutta Europa si discute dei temi della crescita, di giustizia sociale, si riapre un confronto tra destra e sinistra su queste questioni. In Italia invece il conflitto appare essere tra la casta e la società civile, due concetti carichi di ambiguità. In tutti i Paesi europei ci sono fenomeni di antipolitica, che hanno ragioni anche profonde, ma da nessuna parte questo assume il carattere lacerante che ha nel nostro Paese, con il rischio di indebolire o rendere impossibile qualsiasi prospettiva di governo. A volte ho la sensazione che c’è chi punta allo sfascio, senza alcun disegno politico. Basta pensare all’attacco immotivato di questi giorni contro la presidenza della Repubblica, che, mai come in questo momento, è apparsa un presidio insostituibile nel rapporto tra istituzioni e cittadini».


Ma lei come si spiega il carattere “lacerante” dell’antipolitica in Italia?


«C’è evidentemente chi non apprezza l’idea che dalla crisi del berlusconismo si esca con uno spostamento a sinistra dell’asse politico. Magari si pensa che colpendo la legittimazione dei partiti, approfittando anche di errori e debolezze, si possa aprire la strada a qualche nuovo movimento o a qualche nuovo leader dotato di virtù taumaturgiche. Come se l’Italia non avesse già pagato un prezzo molto alto ad avventure di questo tipo».


In Italia si guarda con attenzione al Consiglio europeo di giovedì, anche perché c’è il timore, senza risultati, di ripercussioni sul governo: secondo lei su cosa ci si dovrebbe concentrare?


«Su obiettivi concreti. Occorre una nuova visione strutturale ma adesso servono misure immediate, anche perché la grande svolta difficilmente ci sarà fino a che resterà la Merkel al governo. Il primo obiettivo, allora, è delineare una via d’uscita ragionevole dalla crisi greca, perché un’uscita di Atene dall’Euro avrebbe conseguenze disastrose per tutti. E poi bisogna concretizzare alcune delle molte ipotesi di cui si discute e che riguardano gli altri due temi cruciali: un’effettiva solidarietà europea di fronte alla crisi dei debiti sovrani e la realizzazione dei programmi europei d’investimento».


Di che tipo di mandato ha bisogno il governo italiano per arrivare all’appuntamento con un’adeguata autorevolezza?


«Un mandato forte sugli obiettivi ma flessibile, perché non credo che possa essere vincolato a determinate soluzioni tecniche. Queste sono oggetto di negoziato e la fiducia in Monti è piena, ha sicuramente tutte le necessarie qualità e conoscenze della realtà europea».


In Parlamento si voteranno mozioni diverse su questo: dice Enrico Letta che serve un documento unitario Pd-Pdl per mettere al sicuro il governo.


«Sarebbe meglio una mozione comune, certo, purché la si possa scrivere in termini chiari. Il problema, però, è che il Pdl è attraversato da forti tensioni. Il governo è indebolito dai problemi del centrodestra e dal riemergere di una forte tentazione di Berlusconi di rilanciare la sua ispirazione populista originaria in una sorta di competizione-dialogo con Beppe Grillo, che appare sempre di più il suo interlocutore privilegiato. In questo Berlusconi rivela anche fiuto, oltre a una dose di irresponsabilità. Questo destabilizza il Pdl, rivelando tutta la fragilità di Alfano e la confusa coesistenza di due prospettive politiche, perché da una parte c’è l'idea di una svolta moderata, e dall’altra una spinta al populismo, a un diciannovismo berlusconiano. È da questo conflitto irrisolto che derivano le tentazioni di far precipitare la situazione. Per noi le elezioni devono tenersi a scadenza ordinaria, l’idea di anticiparle è irresponsabile».


Può destare sospetti il fatto che il Pd, pur ribadendo pieno sostegno al governo, già guardi al dopo Monti, non crede?


«Al contrario. Oltre l’emergenza, bisogna lavorare per una prospettiva politica che dia speranza al Paese nel medio periodo. L’Italia ha bisogno di riforme che vadano nel senso della giustizia sociale e di una riduzione delle diseguaglianze, ha bisogno di una politica industriale, di una correzione della politica economica e sociale: ha bisogno, cioè, del centrosinistra».


La scelta di indire primarie per scegliere il candidato premier aiuta ad andare in questa direzione, secondo lei?


«Se messe al posto giusto. Bersani alla Direzione ha detto che noi avremmo avviato una fase di confronto programmatico, un progetto per il futuro dell’Italia, utile anche a definire il campo delle forze che lo sostengono. Dopodiché le primarie serviranno per la scelta del candidato. Ma se le primarie vengono prima di un progetto condiviso, a cosa servono? E tra chi sono? Noi abbiamo indicato un percorso ragionevole, e dobbiamo evitare che, di fatto, si parta dalla fine. Il rischio, nel rovesciare i termini della questione, è di indebolire una prospettiva di cambiamento, di farla tutta implodere dentro di noi. Bisognerebbe ripartire dalle conclusioni della Direzione, dal progetto per il Paese, altrimenti avremo una lunga, confusa e logorante campagna elettorale interna».


Casini per la prima volta parla di un asse per governare tra progressisti e moderati: è prevedibile un’alleanza elettorale o un patto di legislatura?


«E’ una dichiarazione importante, ma in ogni caso bisogna partire dal progetto per il Paese e misurare su di esso le convergenze. È chiaro che adesso si delinea la possibilità di costruire una maggioranza intorno al Pd, cioè quell’asse tra progressisti e moderati necessario per dare stabilità all’unica prospettiva realistica per il Paese. Perché, al di là dei meriti di Monti, anche i cosiddetti mercati si interrogano sul futuro dell’Italia e quando vedono nei sondaggi che il secondo partito è Grillo, si chiedono con preoccupazione quali impegni l’Italia è davvero in grado di assumere. Quindi dobbiamo rendere evidente il progetto e al tempo stesso l’asse politico che può sostenerlo. Questa esigenza viene prima delle primarie».


Non per contribuire a “rovesciare i termini della questione”, ma se dice che l’asse tra progressisti e moderati è l’“unica prospettiva” dice anche che non c’è partita alle primarie.


«Guardi, Bersani rappresenta il Pd e rappresenta credibilmente la possibilità di un rapporto tra la sinistra, che non siamo solo noi, e le forze moderate del centro».


Renzi però si è detto convinto di avere “la maggioranza”.


«Io non lo credo. Soprattutto non credo che abbia la maggioranza tra gli iscritti e gli elettori del nostro partito».


Renzi l’ha citata tra quelli che non andrebbero ricandidati in Parlamento alla prossima legislatura perché ha già alle spalle più di tre mandati. Ma lei si candiderà?


«Non è una questione importante, nel senso che si può fare politica e si può servire il Paese in molti modi diversi, anche senza candidarsi al Parlamento. La regola citata stabilisce che c’è un principio generale, rispetto al quale possono esserci delle deroghe motivate. Questa è la regola. Non se ne può leggere soltanto una metà. Detto questo, al momento opportuno il Pd farà le sue valutazioni e io farò le mie. Come sempre, alla fine poi io decido per conto mio quello che mi riguarda. Non sono una persona che ha dimostrato attaccamento alle poltrone, avendo lasciato quella di presidente del Consiglio e avendo messo in gioco quella in Parlamento, come è noto, correndo senza reti in un collegio dove eravamo dati sette punti sotto».

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