Cari compagni, cari amici, cari giovani democratici,
entrando in questa sala, sono rimasto colpito nel vedere lungo le pareti le immagini e le parole d’ordine che indicano il senso del vostro congresso. Esse sono, nel loro insieme, un elogio della politica e cioè di quella possibilità che esiste per le persone di intervenire nel corso della storia, di non accettare semplicemente di lasciarsi trascinare dagli eventi. Al contrario, si tratta di prendere il destino nelle proprie mani, assumendo l’iniziativa, gettando nella vicenda concreta collettiva, sulla bilancia, il peso del coraggio individuale, della propria visione del futuro e la possibilità con un’azione collettiva di cambiare il percorso delle cose.
E’ questo il fascino della politica, la ragione per cui abbiamo bisogno di recuperarne il senso rispetto ad anni nei quali è stata confinata a un ruolo subalterno, ancillare. In questo senso, è stato scritto: “la funzione della politica è realizzare i compiti che l’economia le assegna”. Che poi, in realtà, per economia si intende quella parola magica che vuol dire “i mercati”.
Vedete, i mercati sono la nuova divinità che ispira l’azione pubblica e da questo olimpo le agenzie di rating, che sono i messaggeri, portano il verbo dei mercati agli umani. Ora, noi abbiamo grande rispetto per i mercati e Siena è l’ultima città al mondo dove si possa parlare male della finanza!
Tuttavia, vogliamo disvelare il significato arcano di questa parola: i mercati sono delle persone in carne ed ossa, sono dei gruppi finanziari i quali, legittimamente, puntano ad ottenere la massima remunerazione possibile del capitale. E, naturalmente, chi governa un Paese indebitato come l’Italia ne deve rendere conto, perché avendo bisogno di denaro, bisogna rispettare questa esigenza. Ma tale esigenza non può essere l’unica regola che determina le scelte pubbliche, deve essere contemperata con altre necessità. Bisogna sapere cioè che nella società c’è chi opera affinché il capitale abbia la massima redditività, ma c’è anche chi, responsabilmente, sostiene che si debba remunerare più dignitosamente il lavoro.
Ecco, il compito della politica è costruire una sintesi, un equilibrio tra gli interessi diversi. Se non c’è la politica, se l’azione pubblica riflette semplicemente gli interessi più forti in campo, allora la società diventa più ingiusta e diseguale. Ed è esattamente quello che è accaduto nel corso di questi anni, quando gli interessi più forti hanno preso il sopravvento, fino a portarci, soprattutto in questa parte del mondo, non soltanto in una condizione di profonda ingiustizia sociale, di drammatica diseguaglianza, di riduzione delle opportunità, principalmente per la nuova generazione, ma ad una profondissima e drammatica crisi, perché questo sistema non funziona. Alla lunga, infatti, le diseguaglianze sociali spezzano il corso dell’economia, perché si riducono i consumi delle famiglie e dei lavoratori, e si restringono le possibilità. Infine, si rivela fallace quello che è uno dei massimi dogmi dell’ideologia neoliberista, ossia che la diseguaglianza è motore della crescita. Viceversa, essa diventa la ragione della crisi, di una crisi che si è presentata innanzitutto come caduta della domanda, che nasce, a sua volta, dalla perdita di peso sociale del lavoro.
Perciò credo che in questo momento se i progressisti, se un nuovo centrosinistra europeo, non prendessero l’iniziativa, il nostro continente sarà destinato a un declino, impaurito, incattivito, chiuso in se stesso, diseguale, incapace di offrire una prospettiva alle nuove generazioni, incapace di suscitare sentimenti forti e di speranza.
In proposito, vorrei citare “Geopolitica delle emozioni”, un bellissimo libro di Dominique Moïsi sulle passioni tristi, che indaga sul perché nel mondo occidentale siano venuti meno quegli elementi di speranza verso il futuro che animano altre parti del mondo. L’autore, a un certo punto, racconta che nei Paesi emergenti i genitori dicono ai figli: “Studia, perché così avrai delle opportunità in più!”. Da noi, invece, la stessa esortazione viene pronunciata così: “studia, altrimenti sarai tagliato fuori”. Il che, evidentemente, denota un diverso modo di guardare al futuro, con speranza o con paura.
Credo che il nostro dovere sia innanzitutto quello di restituire all’Europa una prospettiva. In questo momento la destra ha fallito, c’è un’opportunità nuova. Naturalmente, ciò comporta un centrosinistra che rifletta anche sugli errori e sui limiti del passato. Si tratta di un tema vero di discussione.
In primo luogo, a mio avviso, dobbiamo interrogarci sul valore dello sforzo che stiamo facendo e che ha visto nell’incontro di Parigi un momento molto importante. Dov’è la novità? Vedete, non è soltanto sul terreno del programma: solidarietà, crescita, innovazione... Tutto questo è certamente molto importante. Ma è fondamentale, a mio giudizio, il nuovo approccio della sinistra nei confronti del grande tema dell’unità politica dell’Europa.
La sinistra, a lungo, ha sottovalutato questa esigenza. Nel momento in cui il centrosinistra e i socialisti hanno governato gran parte dei Paesi europei, essi hanno perduto una straordinaria occasione per fare un salto di qualità nel processo di integrazione. Erano gli anni dell’euro, sul finire del millennio scorso, eravamo al governo in molti Paesi, ma pesava sull’orientamento delle forze progressiste una riserva sull’Europa che aveva due diverse origini. In parte, derivava dal fatto che per i partiti di matrice socialdemocratica, socialista, la loro esperienza nel corso del Novecento era stata strettamente legata alla forza degli Stati nazionali, al welfare State, e la costruzione europea era stata vista sin dall’inizio con diffidenza. Non a caso, ne furono protagonisti personalità di cultura liberale. In questo senso, l’Europa appariva come una costruzione liberale: integrazione del mercato, libera circolazione della moneta… Lo Stato nazionale, invece, era vissuto come presidio e garanzia della difesa delle conquiste sociali. Sull’altro versante, la Terza via di Blair, che ha avuto una grande influenza su tutta la sinistra europea, anch’essa sottovalutava il valore dell’Europa politica: muovendo da una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, dall’idea che avrebbe di per sé rappresentato un enorme fattore di progresso, di riallocazione delle risorse, essa sottovalutava il valore di una guida politica. Insomma, per ragioni diverse, i riformisti europei hanno sottostimato l’importanza della costruzione politica dell’Europa.
La novità è che nel mondo della globalizzazione si capisce che la politica può riprendere forza soltanto se rompe le frontiere nazionali. Gramsci lo scrisse, in carcere, dopo la crisi del ‘29: il grande problema di fronte al quale l’umanità si troverà, è il fatto che l’economia diventa mondiale mentre la politica resta chiusa entro i confini degli Stati nazionali. Pensate come a volte il genio riesca ad anticipare i tempi!
Oggi, rispetto agli Novanta, i progressisti europei hanno la consapevolezza che occorre un progetto comune per affrontare questa crisi e che bisogna rovesciare la logica dei conservatori, quella di un’Europa chiusa, egoista, nazionalista, incapace di solidarietà. Consideriamo quanto triste, vergognosa, sia la pagina della Grecia, e il modo in cui l’Europa ha umiliato quel Paese, finendo oltretutto per pagare un prezzo ancora più alto di quanto avremmo pagato se fossimo intervenuti per tempo con un meccanismo di solidarietà. L’economia greca, viceversa, è crollata, e quando crolla l’economia, diventa molto difficile pagare i debiti.
Capovolgendo la prospettiva, noi abbiamo messo al centro del nostro progetto europeo l’idea di una solidarietà effettiva per affrontare il problema del debito. Ma, soprattutto, un completo rovesciamento dell’ottica: il cuore del problema non è il debito degli Stati. E’ un’analisi del tutto sbagliata quella che vede la causa della crisi europea nel fatto che siamo indebitati perché gli Stati spendono troppo per i diritti sociali dei cittadini. Vedete, il debito cumulato dell’Europa è l’85% del Pil europeo, quello americano è pari al 120%, dove la spesa sociale è molto più bassa -magari spendono di più per fare le guerre-; il debito giapponese è addirittura il 200% del Pil… Il nostro problema è la mancanza di crescita, non il peso del debito. Ecco perchè tutte le politiche europee devono essere riorientate verso l’innovazione e lo sviluppo.
Naturalmente, non sottovaluto il valore che hanno, da questo punto di vista, l’apertura dei mercati, la competitività e alcune riforme di stampo liberale, misure che noi abbiamo sostenuto nel nostro Paese, che sono importanti anche a livello europeo, e che sono una cosa diversa dal liberismo selvaggio e senza regole. Ma è pur vero che senza un progetto, una strategia di grandi investimenti pubblici e privati, una radicale opera di innovazione e riconversione verde della nostra economia verso un sistema energetico compatibile e sostenibile, è molto difficile che l’Europa torni a crescere e a creare lavoro.
Occorre una guida politica in grado di liberare l’immenso potenziale culturale, civile, umano, di cui l’Europa dispone, di sprigionare una società chiusa come una fortezza. Occorre un’Europa più unita, coerente con i suoi valori, capace di giocare pienamente il suo ruolo nella scena internazionale, di contribuire a creare gli strumenti di una governance economica mondiale e di riequilibrare le ingiustizie attraverso, ad esempio, una tassa sulle transazioni finanziarie e nuove regole per i mercati finanziari. Per tutto questo c’è bisogno di una grande forza progressista europea.
Il Partito democratico si candida ad essere uno dei cardini di questa forza. Una grande forza progressista europea che –lasciatemi dire, per uscire dalle polemiche nostrane che spesso nascono da un certo provincialismo- non può prescindere dal nucleo fondamentale del progressismo europeo rappresentato dalla tradizione e dalla forza socialista, socialdemocratica, laburista. Una forza che, tuttavia, non può fermarsi qui. E non solo per evidenti ragioni numeriche. François Hollande non vincerà in Francia se al secondo turno non sarà in grado di raccogliere parte del consenso di una sinistra plurale e di un centro democratico ed europeista che non vuole mescolarsi all’estrema destra. La forza dei socialisti potrà arrivare al 27-28%, ma ciò non basterà per governare un grande Paese come la Francia. Ancora, i socialdemocratici tedeschi non vinceranno se non faranno una coalizione con i Verdi, che lì sono una grande forza innovativa anche del pensiero progressista. Quindi, i socialisti non bastano. Sarebbe sciocco pensare all’autosufficienza della tradizione socialdemocratica, anche se da essa non si può prescindere. Oltre alle ragioni numeriche, ripeto, vi sono ragioni culturali.
Quel modello ideologico, infatti, appare superato: la nuova cultura progressista nasce dall’incontro tra diverse anime, nella quale sicuramente il peso di una tradizione personalistica, cristiana, è rilevantissimo. In questo, il Partito democratico può dare un suo fondamentale contributo. Certo, con realismo, senza complessi, sapendo guardare la realtà. Voglio dire, nessuno si può stupire se noi andiamo in Francia a sostenere Hollande, perché è lui l’alternativa a Sarkozy. Oltretutto, Hollande si presenta con un tasso di europeismo nella battaglia politica francese che mai un candidato socialista ha avuto sino ad oggi. Quindi, al di là del fatto che stiamo dalla parte dei progressisti, in questo caso, in più, c’è una ragione di merito. E, badate, è solo collocando in questa prospettiva il futuro dell’Italia che si capisce il perché del nostro candidarci a rappresentare la guida dell’Italia dopo questo governo di responsabilità nazionale. E non vorrei che questo fosse uno scandalo, visto che siamo in un periodo in cui la democrazia non va molto di moda.
In proposito, spesso mi domandano: “Dopo il 2013 chi deve governare?”, e io rispondo: “Chi vincerà le elezioni!”. A questo punto mi sento dire: “allora sei partitocratico!”. Insomma, persino ribadire elementari principi costituzionali e democratici è guardato con sospetto da una certa cultura elitaria, antidemocratica, che vuole mettere al bando non i partiti, ma la democrazia, che è cosa ben più importante.
Banalmente, noi sosteniamo che dopo il 2013 il Paese sarà governato da chi vincerà le elezioni e spero che non rappresenti uno scandalo per nessuno se speriamo di vincerle noi, sulla base delle nostre idee e dei nostri valori. Ma non perché dopo i tecnici debbano tornare i “politici”, come se si trattasse di uno scontro tra ceti sociali, perché si tratta con ogni evidenza di distinzioni inappropriate. Personalmente, ho partecipato al governo del Paese in due diverse circostanze: nel primo caso, il ministro delle Finanze si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, nel secondo, Tommaso Padoa Schioppa. Ecco, ho qualche difficoltà a considerare personalità di questo tipo come rappresentativi di quella categoria di politici ignoranti, arruffoni, che finalmente sono stati sostituiti dai tecnici. Tanto è vero che noi lasciammo il Paese con il 103% di debito pubblico rispetto al Pil e con 34 punti base di spread. Poi Berlusconi lo ha portato alla rovina e, quindi, giustamente, è venuto il governo Monti. Ma non per le responsabilità della politica, per le responsabilità di Berlusconi.
E, voglio ribadirlo, noi consideriamo questo governo uno straordinario passo in avanti per il Paese, perché ha dato frutti importanti, ha arginato il rischio di una crisi finanziaria drammatica, ha restituito al nostro Paese credibilità e rispetto sulla scena internazionale. Davvero non c’è nessuno tra noi che sia pentito di aver voluto questo governo. Anche perché a chiunque si dovesse ricredere, direi: “chiudi gli occhi e ripensa a quelli che c’erano prima!” Dunque, proviamo rispetto per questo esecutivo, lo ripeto per chi, in queste ore, sta cercando di alimentare una contrapposizione, anche lavorando per falsificare le frasi che vengono dette.
Per esempio, prendiamo l’affermazione di Monti secondo la quale egli vigilerà affinché non si verifichino abusi sull’art. 18. Io ho osservato: “Certo, mi fido di Monti, ma lui sarà capo del governo per un po’, poi verrà qualcun altro. Per questo, è meglio fare le leggi in modo tale che nessuno ne possa abusare”. Ora, tutto questo è stato immediatamente presentato come l’affermazione minacciosa di D’Alema contro Monti. Questi atteggiamenti degli organi di informazione nascono dal problema a cui facevo riferimento prima: i mercati in realtà sono delle persone che, come abbiamo appurato, hanno interesse alla massima valorizzazione del capitale, posseggono i giornali, e i giornali scrivono quello che vogliono i mercati, non quello che accade.
In ogni caso, noi non vogliamo né fare la guerra contro il governo Monti né rovesciarlo. Il governo si è creato un problema, commettendo un errore, perché era possibile, a mio giudizio, trovare una soluzione innovativa senza quel clima di rottura che si è istaurato. E non certo con il Partito democratico, perché faccio notare che le manifestazioni di lavoratori in tutta Italia sono promosse da Cgil, Cisl, Uil e anche Ugl.
Comunque, il governo ha fatto un errore e noi intendiamo correggerlo. Perché auspichiamo che il governo Monti lavori fino al 2013, vogliamo fare la riforma elettorale, la riforma costituzionale, ridurre il numero dei parlamentari e prepararci ad assumere la guida del Paese alla sua scadenza naturale. E vogliamo correggere questo errore, in una riforma del lavoro che contiene pure aspetti positivi nel senso che voi giovani auspicate, perché mette qualche argine alla precarietà, rende un po’ meno vantaggiosi per le imprese i contratti a progetto, indirizza il Paese verso un sistema più universale di ammortizzatori sociali. Certo, una misura, quest’ultima, applicata con gradualità, per il 2017, perché ora non ci sono i soldi… Nessuno pretende la luna nel pozzo.
Insomma, è una riforma che va nella direzione positiva, anche se si può fare qualche passo in più. Ma su l’art. 18 è sbagliata e confusa per ragioni di merito. Il punto è che si distingue tra licenziamento discriminatorio, disciplinare e economico, che non prevede la possibilità del reintegro. Ora, naturalmente, nessun imprenditore al mondo dichiarerà di licenziare un lavoratore per motivi discriminatori. In questo modo si apre un’autostrada che farà sì che tutti i licenziamenti individuali siano economici. Già è discutibile che per imprese al di sopra dei 15 dipendenti un problema economico si risolva con un licenziamento individuale, perché quando c’è una difficoltà economica i licenziamenti purtroppo sono collettivi e questi, nel nostro ordinamento, non sono proibiti. Ma se si accetta tout court la proposta del governo, accade che un licenziamento individuale per presunti motivi economici non prevede un eventuale reintegro, a meno che il lavoratore stesso non dimostri che quel provvedimento ha carattere discriminatorio. In questo modo si rovescia l’onere della prova: oggi, giustamente, è l’impresa a dover dimostrare di avere una giusta ragione per licenziare. Tuttavia è chiaro che, in un confronto di questo tipo, il lavoratore è più debole, e il rischio è quello di un enorme contenzioso che intasi una giustizia già malata e affaticata.
Allora, possiamo sostenere che questa norma è confusa senza sentirci dire che la nostra è una posizione ideologica? Oltre a noi, lo affermano moltissimi studiosi, che chiedono di cambiarla.
Vedete, qui non è scattata la trappola alla quale si pensava. In realtà, infatti, si sperava in questo modo di spaccare il nostro partito e isolare la Cgil. Ebbene, non ha funzionato, perché anche Cisl, Uil e persino l’Ugl chiedono di modificare questa norma. I sindacati, d’altra parte, sono stati immediatamente investiti dalla preoccupazione di migliaia di lavoratori. Così anche tra i parlamentari molti hanno espresso la loro contrarietà, compresi esponenti che non possono certo essere etichettati con il marchio dell’ideologia cattiva. Da questo punto di vista, ho letto una bella intervista di Savino Pezzotta. Quindi c’è un vasto schieramento che chiede di rivedere questa disposizione e noi ci faremo portatori di questa esigenza in Parlamento, come è giusto e legittimo che sia. Lo faremo unitariamente, perché un grande partito, in momenti come questi, deve discutere, può avere diversi accenti, ma poi non può permettersi il lusso della divisione.
Un partito, almeno nei momenti fondamentali, dà un indirizzo coerente, ha una condotta parlamentare unitaria, altrimenti vengono meno le sue stesse ragioni sociali.
Non è un caso che i Paesi nei quali sono più forti i partiti democratici sono quelli che affrontano meglio la crisi economica e sociale. Basta guardare alla Germania. I partiti, infatti, sono necessari per garantire quell’elemento di coesione, di mediazione tra gli interessi, senza i quali anche un grande Paese rischia di disgregarsi. Quando i partiti vengono meno e gli interessi si autorappresentano nelle istituzioni, come in parte è avvenuto in questi anni in Italia, tutto diventa più difficile. E, soprattutto, diventa più difficile difendere gli interessi delle categorie più deboli, in particolare delle nuove generazioni.
Si era pensato, e fu l’ideologia che trionfò nell’epoca di Tangentopoli, che la corruzione dipendesse dal fatto che c’erano i partiti e non c’era l’alternanza di governo. Ora, i partiti non ci sono più, o di loro resta ben poco, abbiamo avuto l’alternanza di governo, tuttavia abbiamo sempre la corruzione. Evidentemente il problema era ed è un altro. Perché, è chiaro, per certi aspetti, l’estrema personalizzazione della politica accentua i rischi di questo fenomeno: quando ciascun leader è portato a ritagliarsi un partito personale, magari sotto forma di corrente all’interno di un partito, ha bisogno di cercare le fonti personali di autofinanziamento, di sostegno, di potere, di legami con il sistema dei media e delle imprese. E in questo modo si moltiplicano in maniera confusa i rapporti tra la politica e gli interessi, i conflitti potenziali e reali.
In definitiva, i partiti sono un elemento essenziale di organizzazione della democrazia, di creazione di un’area di mediazione tra la società e le istituzioni, ma sono anche un modo di promuovere e formare classe dirigente. In questo senso, le primarie sono uno straordinario strumento innovativo, personalmente le difendo, ma solo se inserite dentro le regole di un’organizzazione collettiva, in cui ci sono i diritti degli elettori insieme a quelli degli iscritti. Perché se il partito si riduce semplicemente a una struttura organizzativa delle primarie, se il destino di chi fa politica è legato esclusivamente alla capacità di avere il suo consenso organizzato al di fuori del partito, alla fine questo diventa una sommatoria di comitati elettorali, una confusa coalizione di oligarchie. E’ un rischio concreto, dobbiamo dire la verità.
Da questo punto di vista, secondo me, l’organizzazione giovanile è una forza vitale essenziale: voi dovete battervi contro il rischio che il Partito democratico si riduca in quel modo, come già avviene in certe aree del Paese. Perché se accade questo, davvero non c’è nessuna possibilità che il partito selezioni qualità, intelligenze, meriti, talenti e formi una nuova classe dirigente, e il vostro destino sarà quello di essere i galoppini di questo o quel gruppo, di questo o quel capo. Invece, un partito è una comunità di persone legate da una carica etica, non una sommatoria di carriere individuali. Credo che ciò sia molto importante per il nostro Paese, per la democrazia e, soprattutto, per una nuova generazione che vuole appropriarsi della politica. E sono convinto che se voi portate avanti un po’ di battaglie per chiedere a questo partito di essere più partito, cioè comunità unita da valori condivisi e più consapevole del ruolo fondamentale che il Pd deve svolgere nella storia italiana, le cose andranno meglio.
Grazie.