Intervista
23 gennaio 2013

Se non c'è sviluppo, assurdo promettere di tagliare le tasse. Creare nuovi posti di lavoro è la priorità, occorre una seria politica industriale

Intervista di Andrea Castanini - Il Secolo XIX


Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio, e presidente del Copasir, deputato uscente del Pd, sta girando l’Italia per presentare il suo libro (“Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica”, editori Laterza) e, al tempo stesso, per partecipare con un ruolo attivo alla campagna elettorale del Partito democratico. Anche se non sarà ricandidato, per la prima volta dopo 26 anni. In nome del rinnovamento, ha deciso di fare un passo indietro. Ma solo dalla Camera. «Perché fare il parlamentare è un lavoro, e da quello ti puoi dimettere. Mentre la politica è una passione, e da una passione non ci si può dimettere».

Onorevole D’Alema, è di oggi l’allarme dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Dice che dall’inizio della crisi si sono persi nel mondo 67 milioni di posti di lavoro, e che in Italia c’è una crescita consistente dei lavori a tempo determinato.

«E’ evidente che questi dati dovrebbero riportare al centro del dibattito pubblico il tema vero, la necessità di creare nuovo lavoro. Di fronte a questa sfida ogni altro tema perde significato, anche l’assurdo ripetersi del dibattito su come ridurre le tasse. Perché è evidente che non può esserci nessuna riduzione della pressione fiscale se non c’è una ripresa economica».

La pensa come Bersani, la creazione di lavoro deve essere il primo obiettivo?

«Sì, e creare nuovi posti di lavoro richiede un’azione pubblica. Servono una politica industriale e un impegno europeo, che finora è stato molto debole per responsabilità della destra in Europa. Questi dati fanno giustizia di un’immagine falsa, per cui sembra che l’ostacolo alla creazione di occupazione sia la rigidità del mercato del lavoro. In realtà la crescita del lavoro a tempo determinato dimostra che nel nostro Paese esiste già un altissimo grado di flessibilità, eppure ciò nonostante la disoccupazione cresce. Lo faccio notare perché è un falso problema, e tuttavia viene messo al centro del dibattito pubblico, generando l’illusione che se si va avanti verso una linea di deregulation e di abbattimento delle protezioni e dei diritti dei lavoratori, tutto ciò genererà chissà quale ondata di nuova occupazione».

A questo proposito lei cosa pensa della proposta che ha fatto il montiano Ichino, di una “riforma della riforma” del lavoro?

«Innanzitutto, trovo curioso che lo stesso presidente del Consiglio che ha firmato la riforma del lavoro avalli, dalle sue liste, la proposta di sbaraccarla dopo poche settimane. Si tratta esattamente di una delle debolezze che vengono rimproverate al nostro Paese: l’incertezza delle norme anche per coloro che voglio investire in Italia e chiedono un quadro di certezza».

E sui contenuti?

«Sono favorevole, e non da ora, a una contrattazione articolata e penso che la dimensione della negoziazione debba essere il più possibile vicina alla realtà produttiva. Ma tutto questo deve avvenire in un quadro che preservi un sistema di diritti che valgono per tutti. Poi, ci può essere un’articolazione, ma essa non può basarsi sulla codificazione di una frammentazione della normativa fondamentale dei diritti. Una cosa è che si possa negoziare anche in deroga ai contratti nazionali, altra cosa è che si stabilisca il principio secondo cui ci sono diverse legislazioni. Questo non va più bene».

Sulla politica industriale deve esserci una svolta rispetto al governo Monti?

«Occorre una politica industriale, che oggi non vedo. Non si tratta di ledere l’autonomia delle imprese. Ma ci vuole un’azione pubblica in grado di sostenere lo sviluppo e di indirizzarlo soprattutto quando si tratta grandi settori, che hanno una valenza strategica per l’Italia. Non c’è alcun grande Paese europeo – per non parlare degli Stati Uniti – in cui le principali scelte industriali non siano condivise e non riguardino la responsabilità pubblica».

In questi giorni sono in corso scelte importanti che riguardano Finmeccanica. È in vendita Ansaldo Energia e il gruppo ha deciso di ridurre la presenza nel civile per concentrarsi su difesa. Tutto questo nel silenzio del governo e senza un dibattito parlamentare. Lei cosa ne pensa?

«Effettivamente il modo in cui si stanno consumando queste decisioni mi pare abbastanza discutibile. Non vorrei apparire statalista, ma lo Stato è il principale azionista e il fatto che i manager possano vendere asset fondamentali per il Paese come se fossero propri, mi sembra piuttosto grave».

Per quale ragione ritiene che il governo Monti abbia trascurato la politica industriale?

«Non trovo ragionevole imputare al governo attuale responsabilità che vengono da lontano. Però a me pare che in Monti prevalga la convinzione – che a mio parere rischia di essere illusoria – secondo cui, in definitiva, le condizioni della ripresa sono esclusivamente legate alle riforme per liberare il mercato».

Non è così?

«Il centrosinistra è stata l’unica vera forza che ha promosso misure di liberalizzazioni in questo Paese. Non parliamo come una sinistra statalista. Detto ciò, tutti noi abbiamo conosciuto i limiti della lunga stagione liberista. In un bel libro, Bill Clinton scrive: “se c’è un errore che abbiamo commesso in questi anni è stato demonizzare il ruolo dello Stato”. Ecco, ormai è evidente che una ripresa economica richiede anche un’azione pubblica più efficace. Senza investimenti pubblici, senza uno sforzo anche europeo per indirizzare la crescita, la ripresa economica pare difficile».

Caso Ilva di Taranto. E’ di ieri la decisione del giudice di ricorrere alla Consulta contro il decreto legge del governo che consente di proseguire la produzione portando avanti nel frattempo il risanamento ambientale. Cosa pensa del ruolo della magistratura in questioni come questa?

«Si tratta di una vicenda molto complessa, che parte da lontano, in cui la magistratura, a un certo punto, è intervenuta, perché vi era una responsabilità antica della politica, che ha sottovalutato il drammatico problema ambientale. Bisogna conciliare le esigenze dell’ambiente con quelle dello sviluppo: spero che si sblocchi la situazione e che ciò serva a finanziare, attraverso la vendita dei prodotti finiti, sia il risanamento ambientale, sia il salario dei lavoratori. Credo che la magistratura abbia agito con delle ragioni, ma oltre un ragionevole limite quelle ragioni rischiano di non essere comprensibili e di urtare con esigenze pubbliche di pari dignità».

Come è questa campagna elettorale vista per una volta da testimone e non da candidato in cerca di voti?

«Sto girando intensamente il Paese e mi fa piacere farlo per sostenere le candidate e i candidati del mio partito. E’ una condizione che mi consente di vivere questa esperienza a tutto campo, senza le limitazioni di un impegno legato a un collegio elettorale. D’altro canto, per chi ha passione politica è difficile sentirsi spettatori, soprattutto in un momento di grandi cambiamenti come questo. Detto ciò, la campagna finora mi lascia abbastanza preoccupato».

Perché?

«Ho l’impressione che i problemi veri del Paese non siano affrontati a sufficienza. La campagna elettorale è iniziata all’insegna di una grottesca ripetizione di quelle berlusconiane sulla riduzione delle tasse. Non vorrei davvero che ci trovassimo davanti al ritorno del sempre uguale, alla farsa. Sono convinto che davanti a tutto questo il Paese reagirà con energia. Il danno fatto da Berlusconi è stato enorme, ma la presa per i fondelli no, quella è oltre il tollerabile».

Non le sembra che la campagna di Bersani abbia toni troppo bassi ? Che sia rimasto troppo fuori dalla scena?

«Bersani ha fatto una scelta di serietà, azzardata, ma coraggiosa, in un Paese in cui viene premiata spesso la demagogia. Ha voluto presentarsi come un uomo politico diverso. A cominciare dal fatto che, essendo lui il leader oggettivamente più legittimato, l’unico che è passato dalla selezione di un voto popolare, è anche l’unico che non ha messo il suo nome sul simbolo elettorale. Ha compiuto una scelta europea che neppure Monti ha seguito. Questo rende la sua campagna diversa da quella chiassosa che si vede in giro. Bersani ha preso una decisione coraggiosa, che credo sarà premiata e ciò rappresenterà un segno di crescita civile del Paese».

Nel suo libro lei ripercorre le tappe degli ultimi vent’anni del centrosinistra. E’ possibile pensare a un’alleanza tra la sinistra di Vendola e il centro di Monti e Casini senza riproporre lo schema dell’Unione?

«L’accostamento tra l’Unione e il centrosinistra di oggi è propaganda, perché nasconde elementi che sono rilevanti».

Quali differenze vede?

«La prima vera novità è l’esistenza del Partito democratico. All’epoca dell’ultimo governo Prodi c’era l’Unione, composta da undici partiti. Adesso c’è una grande forza politica che rappresenta, da sola, larga parte della coalizione candidata a governare. Da molti anni, in questo Paese, non c’era un grande partito». 

E il Pd può vincere da solo?

«Certo, ma, come ha detto più volte Bersani, chi ha il 51% deve ragionare come se avesse il 49%. Il Pd è una forza la cui dimensione sarà condizionante per il futuro del Paese».

L’altra differenza rispetto a Prodi?

«E’ Vendola, perché non possiamo dimenticare che è l’espressione di una lotta politica dentro la sinistra radicale. Il ruolo di Vendola nasce dalla rottura con Rifondazione comunista, dalla riflessione critica dell’esperienza compiuta dal Prc e, quindi, dal ripudio dell’estremismo. Dal tentativo di costruire una sinistra radicale sul piano dei contenuti, ma che si misuri con la sfida del governo. Vendola è uomo di governo, è presidente di una regione tra le meglio governate nel Mezzogiorno. La Puglia, nella crisi, è, assieme alla Lombardia, l’unica regione che ha prodotto nuova occupazione. Si possono avere momenti di confronto, ma da qui a raffigurare Vendola come il capo dei cosacchi che abbeverano i cavalli nelle fontane di San Pietro, beh, è francamente ridicolo».

Però è Casini a dire che i centristi non potranno mai entrare in un governo in cui c’è Vendola.

«Sono convinto che la propaganda sia legittima, fa parte persino dei doveri di chi fa campagna elettorale. Ma Giancarlo Pajetta, che era un maestro nella propaganda, una volta mi disse: “bisogna fare comizi combattivi, ma non convincerti mai del tutto di quello che dici durante il comizio”... Oggi siamo in campagna elettorale, domani vedremo».

Anche il Financial Times ha fatto correzione di marcia. dopo avere detto che Monti non è adatto a governare l’Italia ha precisato che Monti insieme a Bersani può rappresentare un nuovo inizio per il nostro Paese.

«Nessun osservatore ragionevole al mondo può ritenere che l’Italia possa essere governata senza il Partito democratico. Questo è un dato. Non sarà una festa, sarà un compito difficile che comporterà una grandissima responsabilità».

Non è che Monti pensa di poter scegliere, dialogando solo con una parte del Partito democratico, provando a prendere quello che nel Pd si avvicina di più al suo modo di pensare?

«Non lo so (risata, ndr), ma siccome siamo in un Paese democratico e l’incarico di governo sarà dato a chi vincerà le elezioni, è molto importante capire innanzitutto cosa pensa Bersani. Solo in seconda istanza, quello che pensano gli altri».

Continueremo a vederla in un ruolo da protagonista della politica?

«Fino a che un uomo politico ha seguito e raccoglie consenso, continua ad avere un ruolo».

E Renzi?

«Renzi sta giocando un ruolo positivo. E comunque nel Pd, che è un grande partito, vi sono culture e storie in parte diverse, che poi trovano una sintesi. Bersani ha detto una cosa molto importante: non è più il momento di partiti personali, dobbiamo ritrovare il cammino delle grandi democrazie, sistemi che sono imperniati sul confronto tra realtà politiche e non raggruppamenti transitori, precari, intorno a persone».

Qualcuno dice che Monti sia l’interlocutore preferito in Europa.

«In Europa, a dispetto di quello che dice Monti, destra e sinistra esistono, eccome. Chi appoggia Monti è l’Europa di destra, quella della signora Merkel. Voglio essere chiaro: questo non significa che Monti non abbia rappresentato un momento di svolta positiva per l’immagine del nostro Paese. D’altra parte, è una delle ragioni fondamentali per cui il Pd ha sostenuto il governo. L’Europa progressista, però, è con Bersani e sarà evidente nella manifestazione di Torino dell’8 e 9 febbraio al Teatro Regio. Sarà un grande meeting europeo attorno alla candidatura di Bersani e per proseguire una riflessione sul lavoro dei progressisti per rendere più democratiche e forti le istituzioni europee. Non serve meno Europa. Anzi, serve più Europa, ma un’Europa diversa, che punti sulla crescita, che dia lavoro, che investa, che promuova innovazione e ricerca».
 

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