Discorso
6 marzo 2013

Solo il cambiamento è responsabile in una crisi di questo genere

Intervento di Massimo D’Alema alla Direzione nazionale del Pd


copertina 3.jpg
Sono seriamente d’accordo con Bersani. Credo che la riunione della direzione sia importante per fissare un criterio con il quale affrontare una crisi che sarà complicata e persino drammatica, perché sullo sfondo c’è la situazione drammatica del nostro Paese.
Innanzitutto, sono d’accordo con l’osservazione da cui Bersani ha preso le mosse: dobbiamo guardare a questo passaggio con il metro di giudizio della storia, più che della congiuntura politica.
Siamo, in effetti, in una drammatica crisi della democrazia europea, stretta fra tecnocrazia e populismi. E’ un tema che riguarda certamente i Paesi più deboli - se volete - dell’Unione europea, ma, in realtà, se noi guardiamo alla frammentazione dei quadri politici, alle difficili governabilità, alle crisi delle culture politiche tradizionali, va molto al di là dei Paesi più direttamente coinvolti.
Non so se - come dice Magda Negri - la risposta sia in armature costituzionali che consentano comunque di garantire la governabilità, questo può essere un modo di nascondere il problema. Ma la crisi democratica c’è.
Vedere le cose con questo metro non significa, tuttavia, non vedere anche lo spazio dell’azione politica. Considerare che noi siamo ineluttabilmente vittime di una tendenza storica fa parte di teorie autoconsolatorie. C’è uno spazio della politica, c’è a livello europeo, dove si dovrebbe davvero imporre una svolta, nel senso di crescita, federalismo, lavoro, pena una crisi di tutto il processo di costruzione europea. E c’è anche nel nostro Paese, dove dobbiamo effettivamente interrogarci sul perché non abbiamo intercettato un voto di cambiamento che c’era, era a cavallo tra noi e Grillo. E, secondo me, è stato a cavallo tra noi e Grillo nel corso di tutta la campagna elettorale.
Noi non possiamo leggere i voti come se si votasse nell’Italia negli anni ’50, dove si spostava lo 0,1%.
La fragilità del Paese, secondo me, significa anche che l’azione politica ha uno spazio: se avessimo votato il giorno dopo le primarie, due di quei tre milioni e mezzo di elettori avrebbero votato per noi. Una parte di quelli ha votato per noi: a Roma, alle elezioni regionali, Nicola Zingaretti ha avuto 6 punti in più di quelli del centrosinistra alle politiche e Grillo ha preso 6 punti in meno. Persone che lo stesso giorno hanno votato per noi e per Grillo.
Non dico questo per l’analisi, che faremo, ma per la prospettiva, nel senso che c’è un elettorato contendibile. Non è un elettorato che ci ha lasciato storicamente o che ci è pregiudizialmente ostile.
Molto dipende dalla qualità dell’offerta di rinnovamento che noi presentiamo. Questo è un tema sul quale, secondo me, dovremo tornare a ragionare: che cos’è il rinnovamento di un grande partito?
A volte vedo venirne avanti una visione fragile, subalterna. Si è identificato il rinnovamento con la liquidazione di un gruppo dirigente. Benissimo, io mi sono ‘autoliquidato’ felicemente, ho fatto la campagna elettorale con passione, senza essere candidato. Non è che abbia avuto l’impressione che il ceto politico che avanza venga percepito dal Paese come molto nuovo, al di là degli aspetti generazionali. Noi facciamo tante cose nuove, ma un signore di 65 anni che fa le riunioni a porte chiuse e prende a calci i giornalisti - tutte cose molto vecchie- appare più nuovo di noi…
Quindi, dobbiamo tornare a riflettere su cos’è il rinnovamento di un grande partito in termini di rapporto con la società, di modo di essere del partito, senza illudersi che ci siano scorciatoie. Adesso ho sentito dire che l’ulteriore passo è toglierci anche il diritto di parola… Ora, può darsi che sia un’idea brillante, ma non so se sarà percepita come una straordinaria innovazione.
Tornare a ragionare più seriamente su cos’è il rinnovamento di un grande partito, del suo modo di essere, del suo rapporto con la società, forse richiede chiavi di lettura meno semplicistiche.
Un’altra osservazione politica e poi concludo. Certamente, un aspetto che non si può sottacere - ne accennava Dario Franceschini - è che in una situazione come quella italiana, la divisione tra le forze europeiste e democratiche è un lusso che il Paese non può permettersi. Di questo, a mio giudizio, ha avuto una responsabilità particolare il professor Monti, che ci ha condotti in una campagna elettorale distorta, incentrata sulla polemica tra il centro, la sinistra, la sinistra radicale, mentre non si vedeva il tema vero, che era tutto un altro, cioè l’insorgere di una spinta “antieuropea” di natura populista. Per la verità, quello ho appena detto è una citazione di una mia intervista nel corso della campagna elettorale.
Naturalmente, il tema dell’unità delle forze europeiste e democratiche è reale, e lo sarà anche nel futuro: dobbiamo tornare a porcelo. Sono d’accordo con Bersani che questa unità va costruita su una piattaforma radicalmente innovatrice, per quanto riguarda l’Europa, altrimenti l’europeismo sarà sconfitto.  
Condivido la proposta politica di Bersani nell’impostazione politica e nella indicazione programmatica. Rafforzerei anch’io - sono d’accordo con Laura Puppato - il tema della riforma dello Stato. Non è soltanto un problema di costi della politica, c’è un enorme problema di peso della burocrazia, della giustizia civile, percepito, nella campagna elettorale in maniera molto forte, come un grande ostacolo alla crescita ma anche alla libertà dei cittadini.
Vorrei dire con chiarezza che l’iniziativa di Bersani non è una prima mossa da archiviare rapidamente con una unanimità di facciata. Certo, non sarà l’atto conclusivo di una difficile crisi. Io preferisco usare questa espressione: Bersani ha indicato una bussola per affrontare la crisi, i cui passaggi, a mio giudizio, saranno molto complicati. Ma la bussola deve essere questa: non c’è responsabilità se non sulla base di una proposta di radicale cambiamento. Solo il cambiamento è responsabile in una crisi di questo genere. Io lo condivido, per ora e per dopo.
Infine, non credo che noi possiamo rinunciare, perché non sarebbe giusto per un grande partito, a fare un discorso sulla destra e alla destra.
La destra esiste. Userei questa espressione: mi rammarico del fatto che, in un momento così drammatico, non sia possibile in questo Paese una risposta in termini di unità nazionale. Non è una cosa di cui essere lieti. Purtroppo non è possibile e l’impedimento è rappresentato da Silvio Berlusconi.
Attiro la vostra attenzione su un fatto che a me pare enorme, di cui si dà scarso peso. Il fatto che ci sono dei parlamentari che denunciano di essere stati corrotti per fare cadere il governo scelto dai cittadini non è uno dei tanti reati a cui siamo stati abituati. È il sospetto di un attentato alla democrazia di cui è parte lesa il Paese, non solo chi ne ha fatto parte come me. Il fatto che nella destra non ci sia stato nessuno che abbia detto che loro innanzitutto vogliono chiarezza su questo passaggio mi sconvolge.
E lo dico perché penso che non solo tra gli elettori della destra, ma anche tra gli eletti ci siano tante persone per bene.
Ma non siamo noi, non dobbiamo essere noi quelli che alzano uno steccato: lo steccato sta lì, nel tipo di guida che questa destra ha e che è un grande problema per il Paese oltre che per la destra stessa.
Un’ultima cosa: vogliamo liberarci dal complesso ossessivo, dalla malattia psicologica dell’inciucio? Badate, Antonio Gramsci diceva che la paura dei compromessi è una manifestazione di subalternità culturale, che serpeggia anche nelle nostre fila. Se c’è una cosa sicura su questa disgraziata Seconda Repubblica è che non è stato mai fatto nessun accordo, né segreto né pubblico e, infatti, moltissimi problemi non si sono potuti risolvere.
Il fatto che, in un Paese dove da vent’anni le forze politiche non sono d’accordo su nulla, il dibattito pubblico sia dominato dall’ossessione dell’inciucio è segno di fragilità culturale.
Grazie.

stampa