Discorso
18 marzo 2013

Intervento introduttivo alla riunione del Consiglio scientifico della FEPS

Bruxelles, 18 marzo - versione italiana


Cari amici,

ho ritenuto giusto fare io questa introduzione alla riunione del nostro Consiglio scientifico perché mi sembra necessario fare il punto sul nostro lavoro e sulla prospettiva, in particolare da oggi fino alle prossime elezioni europee, che sono l’appuntamento al quale, insieme al Partito socialista europeo e al gruppo dei Socialisti e Democratici, dobbiamo guardare con particolare impegno. Naturalmente, le mie riflessioni e i miei suggerimenti saranno poi da voi valutati liberamente e in particolare sarà Bruno, del cui contributo siamo davvero lieti, a trarre le conclusioni dalla discussione e a precisare le prospettive di ricerca e di analisi per i prossimi mesi. La nostra Fondazione si è occupata di molti temi. Ha prodotto molte pubblicazioni e ricerche, si è impegnata in molti eventi culturali, anche di carattere intercontinentale. Ma il tema centrale intorno a cui si sviluppa la nostra analisi e la nostra ricerca di idee e proposte nuove è la crisi dell’Europa e l’indicazione di una possibile rinascita (“Rinascimento”) del progetto europeo.

Il primo aspetto della crisi europea è la crisi economica e sociale. L’Unione europea si presenta come l’area del mondo a più bassa crescita, con una tendenza più accentuata all’aumento della disoccupazione; con una tendenza grave all’invecchiamento della popolazione; con una tendenza a un peggioramento delle condizioni di vita e delle diseguaglianze sociali che comincia a minacciare la coesione e persino la stabilità dei sistemi democratici. Credo che, in particolare, ci si debba soffermare sul tema delle diseguaglianze: all’interno delle nostre società e tra diverse aree e paesi europei. Perché le diseguaglianze mettono radicalmente in discussione il modello europeo; all’interno, minando quel principio di inclusione e di sostenibilità che ha caratterizzato le nostre società e che è stato garantito dallo stato sociale e dal cosiddetto “compromesso socialdemocratico”; le diseguaglianze esterne, tra Paesi avvantaggiati dall’euro e Paesi indebitati e in difficoltà, mettono in discussione la coesione dell’Unione, approfondiscono contrasti di interesse, fanno emergere spinte centrifughe che rischiano di portare, se non ancora a una crisi di disgregazione, a una progressiva paralisi delle istituzioni europee. Si tratta di una crisi drammatica di cui sarebbe sbagliato sottovalutare la portata storica. Certamente la destra monetarista e liberista ne ha la principale responsabilità. Ma anche le nostre risposte sono state sin qui deboli. Su questo aspetto tornerò nella seconda parte della mia introduzione.

All’emergere di una così pesante questione sociale si accompagna quella che potremmo definire una vera e propria crisi della democrazia europea. Questo fenomeno si presenta in due modi tra loro complementari. A Bruxelles – fallita la speranza di una nuova costituzione europea – dopo il compromesso del Trattato di Lisbona prevale un metodo intergovernativo fondato innanzitutto sul rapporto tra i governi dei Paesi più forti. Un metodo che appare particolarmente intollerabile per tutti gli altri e comunque non in grado di produrre decisioni adeguate di fronte alla qualità delle sfide e dei problemi. Se pensiamo che la decisione politica forse più importante degli ultimi mesi è stata la scelta della Banca centrale europea di impegnare le proprie risorse contro la speculazione sugli spread, ci rendiamo conto di come appaiano deboli le istituzioni democratiche e come l’Unione europea si presenti ai cittadini come dominata dalla forza della tecnocrazia e della burocrazia. Tutto questo malgrado gli sforzi, certamente apprezzabili, del Parlamento europeo, che ha rappresentato un riferimento importante di iniziativa democratica. Tuttavia, la lentezza delle decisioni e il sostanziale potere di veto dei governi nazionali – in particolare di quelli dei Paesi più forti – rendono il meccanismo delle decisioni europee particolarmente farraginoso e inefficace. Basta pensare alla vicenda della FTT, che dovrebbe rappresentare un nostro successo: votata dal Parlamento, adottata dalla Commissione: dov’è? Quando sarà applicata? In realtà nessuno lo sa. Questa opacità, inefficacia, distorsione tecnocratica del potere europeo favorisce il sorgere, in molti Paesi, di fenomeni populisti e antieuropei. Il populismo rappresenta storicamente la rivolta del demos contro le élite; e – nella sua versione nazionalistica o localistica – la rivolta dell’etnos contro l’ingerenza straniera, del potere sovranazionale, del mondo globale. Ed è esattamente in questa forma che si presentano i populismi europei, che si manifestano prevalentemente a destra ma che tendono a occupare anche a sinistra – come in Grecia – lo spazio delle sinistre europeiste e riformiste. Nel caso italiano, poi, il fenomeno del Movimento 5 Stelle appare ancora più originale, perché di incerta classificazione ideologica e fortemente caratterizzato da un sentimento di ripulsa e di odio verso la politica e i partiti. Si può pensare – e in parte è certamente così – che ciò derivi anche dalla particolare condizione di impotenza della politica italiana e dai fenomeni di corruzione che ne hanno segnato le vicende anche recenti. Tuttavia, non bisogna sottovalutare i rischi che i sistemi politici e i partiti appaiano sempre di più ai cittadini come sovrastrutture costose, tanto più perché impotenti ad assumere decisioni utili per la vita delle persone, e che un sentimento antipolitico possa diffondersi anche in altri Paesi europei.

La crisi europea si manifesta, infine, come appannamento del ruolo dell’Unione sulla scena mondiale. Il tentativo di Obama di correggere in senso multilaterale la politica di potenza dell’amministrazione Bush è stato purtroppo indebolito dalla debolezza della presenza europea. Si torna all’iniziativa di singoli Paesi o di gruppi molto ristretti, così come è avvenuto in Libia o nel Mali, per iniziativa della Francia, o come sta avvenendo per l’azione anglo-francese volta a rilanciare il processo di pace in Medio Oriente. Ma, al di là degli antichi splendori di questi Paesi che furono le potenze dei secoli passati, si tratta di iniziative che non riescono a supplire alla sostanziale assenza dell’azione dell’Unione europea in quanto tale. Basti pensare al profondo cambiamento in atto nel mondo arabo, alle potenzialità democratiche di questa grande rivoluzione, al rischio di un progressivo prevalere delle posizioni islamiste e antioccidentali a fronte del quale non vi è stata quella nuova e coerente strategia europea per il Mediterraneo che sarebbe stata necessaria. Vi è una sostanziale - almeno fino a oggi - passività di fronte alle scelte della destra israeliana che stanno bloccando ogni prospettiva di pace nella regione. Manca slancio e forza in una strategia verso l’Africa, dove, sempre di più, la presenza economica e politica della Cina rischia di essere predominante. Non c’è una strategia comune verso le grandi potenze a Est, la Cina e la Russia. Insomma, tutte le speranze suscitate dalla creazione del Servizio per l’azione esterna e dalla creazione di un Alto rappresentante e vicepresidente della Commissione sembrano per ora avere avuto una risposta abbastanza modesta. Ma non tanto per responsabilità di Lady Ashton, quanto per il fatto che, senza una comune volontà politica almeno dei principali paesi dell’Unione, è veramente difficile, se non impossibile, mettere in campo una vera e propria politica estera comune dell’Europa.
Non credo di avere presentato un quadro pessimistico. Questa è, purtroppo, la realtà, di cui almeno tra di noi possiamo parlare in modo veritiero. Di questa crisi e delle risposte possibili ci siamo occupati in molte iniziative, in molte ricerche, in molti scritti, lavorando attorno a quello che abbiamo definito: “un possibile Rinascimento europeo”. Vorrei ora cercare, sia pure rapidamente, di affrontare i diversi aspetti delle proposte che abbiamo fin qui definito per vedere su quali punti, a mio giudizio, è necessario un lavoro più approfondito e una ricerca più coraggiosa per proporre anche delle idee nuove e non soltanto le ricette tradizionali – certamente anche necessarie – del movimento socialista e progressista.
In questi due anni abbiamo lavorato in modo particolare sui temi economici. Lo abbiamo fatto con iniziative europee, in un dialogo interessante con interlocutori d’oltreoceano, tra i quali innanzitutto il premio Nobel Joseph Stiglitz. Come andare oltre l’austerità? Nel Manifesto di Parigi abbiamo indicato la necessità di una efficace solidarietà europea per fronteggiare i debiti sovrani dei Paesi più esposti per ridurre lo spread e la speculazione finanziaria. Abbiamo parlato di project-bond e di programmi di investimenti nazionali ed europei, consentiti anche da una interpretazione più flessibile dei vincoli previsti dal fiscal compact e dal Trattato di Maastricht. Ci sono, tuttavia, aspetti che meritano di essere approfonditi per vedere come sia effettivamente possibile conciliare una inevitabile esigenza di rigore finanziario con politiche di sviluppo. Come, cioè, sia possibile una politica di investimenti che possa contare su limitate risorse pubbliche, a differenza di quanto accadde nella cosiddetta fase keynesiana della crescita. Insomma, anche per noi il tema da cui non si può prescindere è quello della competitività delle nostre economie e della capacità di attrarre investimenti muovendo dalla consapevolezza che non si uscirà dalla crisi della globalizzazione selvaggia e neoliberista con un ritorno puro e semplice alle strategie del secolo scorso. Occorre una nuova sintesi fra azione pubblica a molti livelli - europea, nazionale e locale - regolazione globale e mercato, iniziativa, cioè, delle imprese e delle persone singole e associate. Si tratta anche di mettere più coraggiosamente in discussione alcuni dei dogmi che hanno improntato le politiche europee di questi anni. Ad esempio, la priorità assoluta della lotta all’inflazione che ispirato le scelte della Banca centrale europea e delle banche centrali nazionali. È davvero questa, oggi, la priorità? I liberali tornati al governo in Giappone sembrerebbero puntare sull’inflazione per incoraggiare la crescita, e anche la politica della Federal Reserve appare orientata sostanzialmente nella stessa direzione. Non è forse venuto il momento di aprire una riflessione anche in Europa? Capisco che una discussione di questo tipo possa suscitare, particolarmente in Germania, una reazione negativa nell’opinione pubblica. Ma fino a quando la locomotiva tedesca continuerà a procedere se diventa ancora più drammatica la crisi europea e la caduta del nostro mercato interno? Mi piacerebbe che nella Feps si avviasse un confronto più ravvicinato su questi interrogativi, cercando di individuare ipotesi e proposte che si muovano coraggiosamente oltre i confini delle esperienze sin qui condotte. È chiaro che a livello politico si dovranno individuare le soluzioni condivise, ma in questa sede la discussione può essere più aperta, più spregiudicata, più innovativa.
Per quanto riguarda il tema della democrazia europea, abbiamo compiuto a Torino e nella preparazione di quella conferenza alcuni importanti passi in avanti. Siamo tutti convinti che bisogna rafforzare le istituzioni comuni e ristabilire l’equilibrio fra “la democrazia dell’Unione” e il ruolo dei governi nazionali. In questo senso, consideriamo molto importante l’indicazione, da parte dei principali partiti europei, di candidature per la presidenza della prossima Commissione, in modo che la scelta del Consiglio sia in qualche modo vincolata al voto popolare, così da consentire la nascita di una sorta di governo parlamentare dell’Europa con una più forte legittimazione diretta, che sia capace di equilibrare le diverse spinte nazionali verso una visione comune. Restano, tuttavia, anche in questo campo diverse questioni da approfondire. Tra queste, segnalo il tema delicato del rapporto tra istituzioni dell’Unione europea e governance dell’eurozona e, più in generale, tra istituzioni e esperienze di cooperazione rafforzata, certamente necessarie, come nel campo della difesa. Penso, poi, che il compito dei socialisti dovrebbe essere quello di aprire un confronto schietto e coraggioso sulle prospettive di una vera e propria Europa federale. Capisco che si tratta, qui, di superare convinzioni diverse radicate nelle diverse politiche nazionali. Ma non si esce da una grande crisi senza il coraggio di un’innovazione radicale, di una visione coraggiosa del futuro. Oramai è chiaro che le stesse conquiste fin qui realizzate, come il mercato unico e la moneta unica, rischiano di essere messe in discussione se non c’è un salto di qualità nell’unità politica del continente. La stessa nuova realtà mondiale, con il sorgere di protagonisti sempre più rilevanti sulla scena internazionale, spinge l’Europa verso la creazione di una grande potenza europea, se non vogliamo correre il rischio di una progressiva emarginazione. Sono i progressisti che dovrebbero prendere in mano questa bandiera. C’è molto da approfondire sul significato di un’Europa federale: sulla distribuzione dei poteri, sull’architettura istituzionale, sui principi costituzionali. Anche qui, in una sede più propriamente politica, questa discussione sarebbe considerata oggi non realistica; ma in una fondazione culturale credo che si potrebbero chiamare giuristi di diverse tendenze e di diversi Paesi a ragionare insieme su questa ipotesi senza troppe preoccupazioni diplomatiche e con l’obiettivo di offrire idee per un futuro da costruire insieme a una nuova generazione di europei.
Vorrei, infine, suggerire un’agenda di lavoro sui temi della politica estera europea. Su questo tema abbiamo avuto un’edizione molto interessante di “Call to Europe”. Credo che, anche sulla base di quella discussione e, poi, della bella esperienza del dialogo con i progressisti arabi organizzata al Cairo, si potrebbe cercare di approfondire alcune delle principali issues dell’azione esterna dell’Unione, forse anche in collaborazione con alcune delle fondazioni che fanno parte della Feps. In particolare, questo approccio ci potrebbe consentire di affrontare alcuni temi prioritari. Il rapporto con la Turchia e i confini dell’allargamento dell’Unione; il rapporto con la Russia e con la Cina e, più in generale, la relazione fra diritti umani, valori europei e politica estera; la difesa europea come banco di prova di una effettiva integrazione e in particolare di una cooperazione rafforzata tra le maggiori potenze europee, in primo luogo Francia e Regno Unito. Naturalmente, sul Mediterraneo e sul rapporto con il mondo arabo penso che si debba continuare a lavorare approfondendo le idee che sono emerse nei diversi momenti di discussione e portando avanti i rapporti di dialogo che abbiamo avviato con diversi interlocutori dell’altra sponda del Mediterraneo.
Come vedete si tratta di un programma molto vasto di ricerca e di iniziativa. Spetterà al Consiglio scientifico e al suo presidente individuare meglio le priorità, arricchire con nuove idee i nuovi campi di ricerca. Noi vogliamo che il Consiglio scientifico rivesta un ruolo maggiore rispetto al passato e più importante nella vita della nostra Fondazione. Vorrei che il Consiglio scientifico si occupasse di più delle nostre pubblicazioni. Vorrei che si riunisse più spesso, anche in modo aperto ad altri interlocutori e intellettuali che di volta in volta potranno arricchire il nostro confronto con le loro idee. Spetterà a voi decidere e in particolare al presidente che abbiamo voluto con noi e sul cui impegno contiamo molto.

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