Discorso
8 aprile 2013

Intervento in occasione dell'incontro “Gerardo Chiaromonte. Uomo delle istituzioni, dirigente politico, intellettuale, meridionalista”

Commemorazione di Gerardo Chiaromonte a vent'anni dalla scomparsa - Roma, Palazzo Giustiniani


Credo che questa giornata così opportunamente dedicata al ricordo di Gerardo Chiaromonte abbia preso da subito un carattere non celebrativo, assumendo, invece, il carattere proprio di un confronto sul ruolo di una delle maggiori personalità del comunismo italiano, che ha dato un’impronta profonda alla vita politica, che è stata protagonista di battaglie importanti e che ha lasciato insegnamenti di cui avvertiamo ancora oggi, vivissimo, il significato.
Egli seppe, nello stesso tempo, essere uomo del suo partito, della sinistra, profondamente legato ai nostri valori. Un partito dal quale non si discostò mai, neppure nei momenti, che non mancarono, di grande amarezza. Forse, la lettura del suo ultimo messaggio, di quel suo ultimo discorso in una drammatica giornata napoletana, vale più di ogni altra testimonianza della forza del suo vincolo con quel partito a cui aveva legato la vita: lì parlò di amore verso il suo partito.
Ma fu anche uomo dello Stato e delle istituzioni, profondamente legato alla democrazia italiana. D’altro canto, come egli scrisse, la storia del Pci non può essere interpretata come una ininterrotta serie di errori, proprio perché su di essa era stata impressa la matrice nazionale e democratica. Impressa da Antonio Gramsci a partire dal congresso di Livorno del 1926, e da Palmiro Togliatti, come ricordava Emanuele Macaluso, in modo particolare con la “svolta di Salerno” e con la sua linea di unità nazionale, democratica, antifascista.
 E d’altro canto, il legame di Chiaromonte, come buona parte di quella generazione del Pci, nasce proprio nel segno della battaglia democratica e antifascista. E lo stesso legame con l’Unione Sovietica, pure così controverso, non è comprensibile se non a partire dal riconoscimento di quei giovani (ragazzi di 19, 20 anni), del ruolo che l’Unione Sovietica aveva avuto nel fermare l’avanzata nazista e nell’imprimere una svolta così profonda alla storia.
E’ stato ricordato il meridionalismo di Chiaromonte, che da solo meriterebbe in sé una riflessione. Egli è stato profondamente meridionalista, in modo radicale: ha visto nella questione del Mezzogiorno un tratto fondamentale del tema dell’unità del Paese e, quindi, della forza della democrazia italiana, che così tanto lo appassionò. Si è parlato molto del suo rapporto con Napoli, ma quella sua incancellabile radice lucana ne fece un napoletano molto particolare, con un tratto di sobrietà e con un certo fastidio verso le manifestazioni della napoletanità più esteriore.
Chiaromonte si è interrogato, in pagine molto belle, anche eticamente importanti, sulle responsabilità della sua generazione e sulle sue proprie, in particolare per quanto attiene al rapporto con l’Urss e con l’esperienza del comunismo sovietico. Egli è stato certamente uno dei dirigenti più a-sovietici del Partito comunista italiano, tuttavia non ha mai accettato l’idea che l’intera esperienza del comunismo potesse essere liquidata e ridotta ai crimini e alle violazioni, pure così gravi, della democrazia e dei diritti umani. Cercò sempre di vederne, in una lettura storicistica, il ruolo anche come fattore di liberazione, di mutamento dei rapporti di forza mondiali.
In Italia, in particolare, egli vide nell’esperienza del comunismo un fattore fondamentale della costruzione della nostra democrazia. Chiaromonte è stato uomo dell’unità della sinistra, ma direi di più: dell’unità degli italiani come condizione per rafforzare e far progredire una democrazia fragile, per consolidare la forza di un Paese diviso.
Io ho vissuto al suo fianco uno dei passaggi cruciali della nostra storia, quello tra il 1976 e il 1979, che ha rappresentato, non a caso, il centro della sua riflessione, il tema cui egli ha dedicato tanta parte dei suoi scritti. Si tratta indubbiamente di una fase cruciale della storia italiana, il momento più altro del progetto unitario e democratico del Pci, ma anche, insieme, il momento della sconfitta di quel progetto: la solidarietà nazionale, con i suoi risultati, che egli rivendicò al di là di ogni giudizio liquidatorio, e l’insorgere del terrorismo, il rischio di una frattura drammatica in particolare nel rapporto con le nuove generazioni, e non solo fra i giovani e la sinistra, ma tra i giovani e la democrazia.
Ricordo questo tema, perché a esso è anche legata la mia esperienza personale. Io ero segretario della FGCI, Chiaromonte uomo più vicino a Enrico Berlinguer, coordinatore della segreteria del partito, riferimento quotidiano del nostro lavoro, del nostro dibattito.
Ricordo lo spirito aperto, la modernità di Chiaromonte, la sua disponibilità al confronto anche nel dissenso. Il rifiuto di ogni soluzione burocratica autoritaria delle questioni più controverse. Noi discutemmo in momenti in cui non era facile farlo. Ricordo un drammatico Comitato centrale del Pci, a pochi giorni dall’assalto di Autonomia Operaia al palco dove parlava Luciano Lama. Un dissenso durissimo. La FGCI sosteneva la tesi, ardita in verità, che bisognava continuare a essere parte del movimento dei giovani, pure vedendo che in quel movimento si muovevano anche frange violente e persino vicine al terrorismo. La segreteria del Partito comunista riteneva, invece, che al primo punto ci fosse la difesa della democrazia, il rifiuto della violenza. Erano due modi molto diversi di affrontare una questione del genere.
In quel comitato centrale  fu affidato a me il compito - e fu Chiaromonte a volerlo - di fare la relazione. Subito dopo, Paolo Bufalini prese la parola a nome della segreteria, per sostenere la tesi opposta. Si discusse apertamente. È un passaggio che resta testimonianza del travaglio che vivevamo, ma anche di un modo democratico di affontare fasi pure così rilevanti e difficili. Tornammo su questi temi in quel bellissimo convegno dell’Istituto Gramsci sulla crisi della sociatà italiana e le nuove generazioni, nell’ottobre del 1977.
Chiaromonte visse in modo drammatico questo passaggio, comprese le ragioni per le quali quella politica ad un certo punto non era più sostenibile per il nostro partito. Vide e denunciò anche le responsabilità del gruppo dirigente della Democrazia cristiana. Ricordo, in particolare, la sua amarezza per quella campagna, noi giorni i drammatici del rapimento Moro, in cui una parte del gruppo dirigente Dc teorizzò apertamente che era arrivato il momento di logorare il Partito comunista, il suo rapporto con il Paese.
Egli forse fu uno dei dirigenti comunisti che colse prima degli altri la crisi di quella politica, proprio all’indomani dell’assassinio di Aldo Moro, che ne faceva venire meno un pilastro, una garanzia essenziale. Ma non condivise il modo in cui Berlinguer ne uscì. Non condivise la scelta di Berlinguer di mettersi alla testa di quella che a lui parve la scelta di un riflusso identitario, foriero di guasti di lungo periodo. Vedeva il rischio che in qualche modo, ripiegando su se stessi, la sinistra e il movimento operario finissero per smarrire non le ragioni congiunturali della collaborazione con la Dc, ma quell’ispirazione nazionale e democratica che costituiva un tratto essenziale dell’identità del Pci.
Quello fu un momento di grandissima difficoltà e sofferenza, anche nel rapporto tra le persone. Come ha ricordato Macaluso, il rapporto umano, personale tra Berlinguer e Chiaromonte era fortissimo. I due condividevano anche un certo pessimismo della ragione, nel guardare le cose della società italiana, un comune sentire, che li aveva aiutati nella collaborazione nei momenti più difficili. E naturalmente fu un problema anche per quella generazione, come la mia, che si sentiva profondamente legata a Berlinguer, ma che aveva un debito intellettuale, politico, formativo con un uomo come Chiaromonte.
Tuttora, credo, meriterebbe di essere approfondita la natura di quel contrasto, per cercare di vedere le ragioni e i torti. Certo, il rischio di un ripiegamento, di un isolamento della forza comunista fu fortissimo. E non solo di una rottura a sinistra. Il rischio era che la questione morale, che pure vi era, finisse per essere sollevata non come leva per un rinnovamento dei partiti, ma come qualcosa che si rivolgeva contro il sistema dei partiti nel suo complesso,  dando così l’avvio a una stagione antipolitica di cui abbiamo misurato i danni negli anni più recenti.
Non si può negare che Berlinguer avesse visto, e prima di altri, quanto profondi erano i guasti che si erano creati, anche se, indubbiamente, la risposta politica che egli dette fu difensiva, incapace di delineare una prospettiva nuova per l’insieme della vita democratica del Paese. Ed è anche vero che lì si generarono quegli elementi di confusione tra esigenza di legalità e ragioni della lotta politica, che sono due valori fondamentali, ma che non possono essere tra di loro sovrapposti, pena il rischio di scadere in forme di giustizialismo che avvelenano la vita politica e non fanno progredire la democrazia.
Fu dunque un momento assai difficile. Ci fu un dissenso tra di noi e quel dissenso rimane fondante, a mio giudizio, di molti avvenimenti che sono accaduti successivamente. Non soltanto un dissenso intorno al Partito socialista, e cioè fino a che punto l’impronta culturale e politica che Bettino Craxi aveva dato all’iniziativa socialista avesse compromesso la possibilità di una politica di unità a sinistra. Certo, questo fu elemento di discussione. Ma – ripeto - il tema di fondo riguardò il rapporto tra questione morale e riforma della politica, una ambiguità che ha continuato a pesare negli anni e che, certamente, ha in parte condizionato l’evoluzione successiva del Partito comunista e il modo stesso in cui si compì la “svolta”.
Chiaromonte sostenne la “svolta”, la ritenne il compimento necessario di un processo democratico. Rifiutò l’idea che quella parte del partito di cui egli si sentiva componente così essenziale, potesse non dare un suo contributo alla “svolta” e riconobbe anche il coraggio di Achille Occhetto. Tuttavia non nascose il suo fastidio verso un impianto culturale in cui sicuramente non lo convinceva l’idea della discontinuità, non lo convinceva un’analisi della prima Repubblica sotto il segno del consociativismo e non lo convinceva quell’esaltazione a volte acritica della sociatà civile versus i partiti, che finiva per essere una lettura distorsiva e semplicistica della crisi italiana. E tuttavia, la “svolta” era necessaria. Semmai, in ritardo.
Egli dette il suo contributo, lo fece senza rinunciare alla lotta politica, lo fece anche pagando un prezzo personale, con amarezza, ma non si tirò indietro, anche quando si sentì ingiustamente escluso da determinate posizioni dirigenti.
Anche in questo, penso, ci ha lasciato un insegnamento, uno stile, un modo di vivere la politica.
Infine, desidero ricordare quello che più, forse, mi ha segnato. Chiaromonte è stato uno straordinario educatore. Aveva curiosità verso gli altri. Era curioso delle novità, della cultura moderna, forse anche perché pesava, in lui, la formazione scientifica, l’essere certamente un intellettuale meridionale di impronta storicistica, ma anche un ingegnere che aveva lavorato a Milano, mantenendo nostalgia per quella città. Questo ne faceva e ne ha fatto una figura del tutto particolare, in grado di lasciare un segno molto profondo nella vita degli altri.
Un educatore, appunto, non accondiscendente, sereno. Ricordo quando fui chiamato dal responsabile dell’organizzazione e da Chiaromonte. Mi dissero che era opportuno che prendessi la strada più lunga e più difficile: andare in Puglia. Era la strada che aveva meno certezze di carriera e che, anche umanamente, si presentava come la più dura. Però io sapevo di essere in un partito in cui, quando ti indicavano la strada più difficile, era un segno di rispetto, persino di affetto. Non era una manifestazione di disinteresse. Ecco, questo tipo di politica qui, certamente, è giusto rimpiangerla.
Grazie

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