Discorso
25 maggio 2013

What way forward towards the political and economic integration of the Eurozone?

Bibliothèque Nationale de France François Mitterrand, Parigi - versione italiana


Cari amici,


e’ inutile girarci intorno: la crisi dell’euro è una crisi politica, non una crisi economica. In effetti, se non si considera la debolezza politica della costruzione dell’euro, non si capisce come mai l’Europa sia stata investita così pesantemente dalla crisi finanziaria nata negli Stati Uniti e, alla fine, sia diventata il continente che con maggiori difficoltà ne sta uscendo. 


C’è un vizio di origine, e cioè l’illusione che un mercato e una moneta unica potessero reggere senza una forte autorità politica. Dunque, l’idea che una forte autorità politica potesse essere sostituita da un lato dall’azione della Banca centrale europea, vincolata a garantire fondamentalmente la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione e, dall’altro lato, da quella che è stata chiamata l’”utopia del governo delle regole”, ossia da rigidi vincoli (il 3% del rapporto deficit/PIL, il 60% dello stock del debito etc.).


E sappiamo come, in particolari momenti di crisi, la rigidità di questi vincoli, l’assenza di flessibilità nella possibilità di adottare strategie anticicliche - insomma, la mancanza della politica - si siano rivelate esiziali.
L’Europa ha affrontato la crisi partendo da un’analisi fondamentalmente sbagliata, e cioè che la responsabilità fondamentale della crisi fosse legata al debito pubblico dei singoli Paesi dell’Unione, quindi, in particolare, dei Paesi meno virtuosi dell’Europa meridionale.


Ora, voglio essere chiaro: noi siamo favorevoli alla responsabilità fiscale. In Italia, fin dalla metà degli anni Novanta, il centrosinistra ha attuato, una politica che è arrivata ad abbassare dal 121 al 103% del PIL lo stock del debito accumulato, a ridurre al 46,1% la spesa pubblica globale, portando lo spread tra titoli tedeschi e italiani a 32 punti nel 2007, con Tommaso Padoa-Schioppa ministro dell’Economia. Non siamo stati noi - bensì Berlusconi - il partito della spesa facile.


Detto ciò, concentrare l’analisi sui debiti dei Paesi dell’Europa meridionale è profondamente sbagliato. Il problema, in realtà, è che l’intera area dell’euro è attraversata da squilibri macroeconomici che sono tra di loro complementari.


Mentre in passato la maggiore competitività tedesca era compensata dalla flessibilità del valore delle monete, il regime della moneta unica ha consentito un enorme accumulo di surplus, in particolare in Germania. Questo sia per effetto della crescita delle esportazioni tedesche nell’eurozona, sia per effetto del differenziale dei tassi di interesse che ha consentito alle banche dell’Europa del Nord di raccogliere denaro a tassi molto bassi per prestarlo a tassi molto elevati ai Paesi dell’Europa mediterranea. Salvo poi, quando è esplosa la crisi, utilizzare risorse pubbliche per salvare non tanto la Grecia, quanto le proprie banche.


Il problema non è, dunque, quello di correggere con spirito calvinista gli “spendaccioni” del Sud, ma è quello di affrontare gli squilibri complessivi che rendono fragile e ingovernabile l’area dell’euro. Il che richiede, certamente, anche responsabilità fiscale e riforme che, per quanto riguarda l’Italia, in parte abbiamo fatto e stiamo facendo.


Ma non si tratta solo di questo. Quello che sta accadendo in Europa, infatti, rende evidente che una politica di sola austerità affonda gran parte del continente nella recessione e che la caduta del PIL impedisce anche il risanamento dei conti pubblici. Questa politica, oltre a produrre un’enorme e insostenibile sofferenza sociale, generando disoccupazione e impoverimento di larghi settori della popolazione fino a mettere in forse la tenuta dei sistemi politico-democratici, finisce per essere dannosa anche per la cosiddetta “Europa virtuosa”, perché la caduta della domanda interna alla UE frena anche, ormai, la crescita tedesca. Non è un caso che anche in Germania comincino a porsi seri dubbi sull’efficacia di queste strategie.


Occorre, quindi, una profonda svolta, che agisca su due fronti, quello politico e quello “istituzionale”. Intendo nuovi strumenti di governance che consentano di agire con tempestività e flessibilità, restituendo alla politica la responsabilità di decidere, senza dogmi.


E’ questa l’ambizione dei progressisti, e’ questo il senso dell’azione del governo francese e, benche’ sia attualmente isolata in seno al Consiglio, sono sicuro che verra’ presto riconosciuta e iniziera’ a produrre i suoi effetti sulle popolazioni europee che si trovano in grave difficolta’.


La mia personale opinione è che la risposta più efficace che si è avuta fin qui è venuta più dall’attivismo della Banca centrale europea che non dalla capacità di risposta delle istituzioni politiche dell’Unione. La BCE ha:


1. Iniettato liquidità agevolata nel sistema bancario europeo;
2. Acquistato titoli di Stato sul mercato secondario dei titoli per calmierare i prezzi e ridurre l’incidenza degli spread.
3. Annunciato l’impegno all’acquisto diretto e illimitato (Outright Monetary Transactions) di titoli di Stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà, allo scopo di contenere le pressioni speculative alle quali sono sottoposti. 


E’ abbastanza significativo che la risposta più coraggiosa per salvare l’euro sia venuta dalla BCE. Per il resto, si procede molto faticosamente sulla via indicata dal presidente del Consiglio Herman Van Rompuy.


Io credo che dobbiamo essere favorevoli a un efficace meccanismo di risoluzione, il cosiddetto SRM (Single resolution mechanism). Non mi convince la posizione di Wolfgang Schäuble, che ritiene che per arrivarci occorra una riforma dei trattati. Nel breve periodo, cio’ non e’ realistico. Del resto, non penso che la Germania sia attualmente favorevole a inserire una maggiore solidarieta’ nei trattati stessi.


Devo dire, onestamente, che condivido le perplessità del Parlamento europeo nei confronti dell’idea che i contenuti di politica economica dei singoli Paesi possano essere definiti sulla base di contratti bilaterali tra singoli Stati membri e Commissione. Tutto ciò sta nella logica del “fare i compiti a casa” e di una visione dell’Unione europea come una scolaresca nella quale i primi della classe debbano punire e controllare gli studenti indisciplinati.


In questo modo si alimentano quei risentimenti nazionalistici che stanno lacerando l’Europa e indebolendo profondamente l’ispirazione del progetto comunitario originario.


Il problema è realizzare un complessivo coordinamento delle politiche economiche che vada di pari passo con un efficace meccanismo di solidarietà. Se si fosse introdotto per tempo un meccanismo del tipo di quel debt redemption fund che fu proposto dagli economisti tedeschi,  sarebbe consistentemente diminuito il peso dei tassi di interesse e, quindi, della rendita finanziaria, liberando risorse per la crescita e per il lavoro.


Questo vogliamo, non che qualcuno paghi i nostri debiti. Il problema è avere coscienza del fatto che esiste un’interdipendenza tra le diverse aree dell’Europa e che, per essere competitivi, occorrono non solo riforme nei Paesi in deficit, ma anche politiche macroeconomiche e strutturali che aumentino la domanda. Inoltre, e’ necessario mettere in campo una politica comune del lavoro e abbandonare l’attuale sistema di moderazione salariale. Cio’ avrebbe effetti positivi in tutta l’Europa, a cominciare dalla Germania.


Inoltre, appare del tutto irragionevole pensare che ciascuno si uniformi al modello industriale tedesco, volto alle esportazioni. Se in tutto il mondo, dall’India alla Cina, all’Indonesia, all’Europa, puntiamo su modelli competitivi volti alle esportazioni, ho l’impressione che dovremo andare a esportare sulla Luna per mantenere un ragionevole tasso di crescita e un equilibrio economico sostenibile.


Insomma, il mainstream va messo in discussione su due punti:


1. I vincoli vanno bene, ma solo se affiancati da solidarietà (creazione di lavoro, equita’, inclusione sociale) e investimenti (in innovazione e infrastrutture);
2. Attuazione di una politica macroeconomica comune, che muova dalla consapevolezza dell’interdipendenza reciproca e non agisca solo dal lato dell’offerta. Senza una ripresa della domanda attraverso un patto sociale europeo, attraverso politiche attive per l’occupazione in particolare giovanile e femminile, attraverso la lotta alle diseguaglianze economiche e sociali, non ci sarà ripresa e, in definitiva, neppure risanamento dei conti pubblici.


Non dico che si debba rinunciare alla responsabilità fiscale, in particolare allo sforzo di riduzione della spesa pubblica improduttiva e corrente. Ma l’idea secondo la quale la ripresa verrà dal binomio austerità-contenimento dei salari e dei diritti dei lavoratori (perché questo è il senso vero delle cosiddette riforme strutturali quando ne parlano i neoliberisti), è sbagliata: non ha funzionato e non sta funzionando.


Al livello europeo occorrono investimenti, grazie a una più consistente fiscal capacity dell’Unione, e occorre una maggiore capacità di investire dei singoli Stati membri, grazie a un efficace meccanismo di golden rule.
Su queste diverse questioni bisogna prendere decisioni urgenti, sulle quali davvero auspico che vi sia un impegno comune dei governi europei dei quali facciamo parte e che possono e debbono controbilanciare il peso dei governi conservatori.


Ha ragione François Hollande quando ricorda che l’avversario da battere non la Germania, ma le politiche  neoliberiste e monetariste.


L’impressione e la speranza che nutro è che anche in Germania cominci a farsi strada la consapevolezza che gli eccessi dell’austerità finiranno per ritorcersi contro le sue stesse imprese, i suoi stessi lavoratori. Mi sembra che si stia progressivamente instaurando un clima nuovo, di dialogo, che potrebbe avere una svolta anche radicale, in particolare dopo le elezioni tedesche, per effetto di un voto che spinga per il cambiamento.


Voglio dire, infine, qualcosa su un tema che mi sembra molto importante, che è quello della democrazia del nostro continente. Il rafforzamento della governance economica e degli stessi meccanismi di solidarietà, che devono essere messi in grado di funzionare, non dovrebbero costituirsi a livello intergovernativo. L’eurozona, infatti, non è una realtà separata, una sorta di eccezione, ma è il cuore stesso dell’Unione europea.


In realtà, degli attuali Paesi membri, solo due hanno optato per rimanere fuori dall’euro, Gran Bretagna e Danimarca. Tutti gli altri (o la gran parte di essi) intendono convergere verso l’euro e dunque possono essere interessati sin d’ora a una politica economica coordinata e a sostenere i meccanismi che la sorreggeranno.
Bisogna, dunque, costruire un collegamento molto forte tra la governance dell’area euro e le istituzioni dell’Unione europea, evitando di lavorare esclusivamente sulla dimensione intergovernativa e coinvolgendo in particolare il Parlamento.


Qualche giorno fa, con un intervento assai importante e lungimirante, il presidente Hollande ha collegato strettamente il tema del governo economico dell’eurozona a quello del rafforzamento dell’integrazione politica (e, quindi, dell’unione politica dell’Europa).


E’ un passo avanti molto coraggioso, che può cambiare in modo decisivo lo scenario europeo, consentendo ai progressisti di guidare il processo di rafforzamento dell’integrazione politica, correggendo la sensazione che il tema dell’unità politica dell’Europa sia esclusivamente nelle mani della signora Merkel e delle forze conservatrici.


Badate, una delle ragioni di fondo della crisi europea, del distacco crescente di tanti cittadini dall’ideale europeo e del consenso che raccolgono le forze populiste e antieuropee, sta anche nel fatto che l’Europa è percepita come una tecnocrazia lontana, sottratta a ogni controllo democratico, malgrado l’enorme potere di cui dispone e da cui dipende il destino di tanti Paesi,  la vita di tante persone.


Rafforzare la dimensione democratica dell’Europa significa, innanzitutto, far crescere il peso del Parlamento e riequilibrare il ruolo eccessivo che ha assunto, in questi anni, la dimensione intergovernativa. In questi anni, i cittadini europei hanno accettato l’obbligo, imposto dall’Europa, a compiere sacrifici spesso pesanti. Ma appare sempre più inaccettabile la sensazione che ciò venga imposto da “governi stranieri” anziché da un Parlamento che ciascuno di noi ha democraticamente contribuito a eleggere.


Anche per questo, non potrà esserci un’effettiva svolta nelle policies europee nella direzione della solidarietà e della crescita economica, senza una sostanziale crescita democratica, che non vuol dire un super-Stato europeo ma, piuttosto, una federazione di Stati nazionali dotata di una ragionevole, autonoma fiscal capacity. E in grado di far funzionare una sussidiarietà che valorizzi il ruolo dei singoli Paesi e delle singole istituzioni locali più vicine ai cittadini.


Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che quel dibattito circa il timore di cedere sovranità, che ha caratterizzato a lungo la discussione sull’integrazione europea, riguarda un’epoca passata. Ahimè, gli Stati nazionali hanno perduto gran parte della loro sovranità non a causa dell’integrazione europea, bensì del predominio dei mercati finanziari, delle agenzie di rating, di centri di potere sottratti a ogni controllo democratico, e che condizionano pesantemente la vita delle persone, il destino dei singoli Paesi.


Soltanto unendo le forze possiamo cercare di riguadagnare sovranità.


Questa è la prospettiva vera e realistica con cui dobbiamo guardare al tema dell’unità politica dell’Europa, senza nostalgie nazionalistiche ma con la chiara volontà di rafforzare la democrazia e di imporre, allo stesso tempo, i contenuti politici e sociali del cambiamento.


Grazie.

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