Discorso
13 giugno 2011

Segreto di Stato e accesso agli archivi: a quattro anni dalla riforma dei servizi di informazione

Intervento in occasione del convegno Archivi negati, archivi “supplenti”: le fonti per la storia delle stragi e del terrorismo - Bologna, Palazzo d'Accursio


È tempo di una ripresa di spirito civico e di impegno civile, che speriamo ci aiuti a fare dei passi in avanti anche sulle delicate questioni che sono state all’esame di questo convegno. 
Personalmente non ho la competenza per riprendere l’insieme dei problemi che sono stati sollevati e che riguardano, più in generale, la disponibilità delle fonti per la ricerca storica, oltre che per la ricerca della verità in sede giudiziaria. 
In questa sede si sono accavallati temi abbastanza diversi tra di loro: il legittimo e insaziabile desiderio di verità su vicende che hanno insanguinato e fortemente condizionato la storia del Paese, alcune delle quali sono ancora oggetto di indagini di carattere giudiziario, e la necessità e la possibilità di indagare in sede storiografica su pagine cruciali della vicenda italiana e della storia contemporanea del nostro Paese.
Naturalmente non ruota tutto attorno ai Servizi segreti, che godono di una denominazione che attira molte curiosità e aspettative in quanto, essendo segreti, si suppone che vi si concentri una quantità enorme di informazioni nascoste e di verità da scoprire. In realtà, come poi cercherò di dire, queste verità da scoprire riguardano diverse amministrazioni e corpi dello Stato, non soltanto l’intelligence.
In ogni caso, vorrei concentrarmi maggiormente su ciò che mi compete dal punto di vista istituzionale, cioè il ruolo dei Servizi, lo stato di attuazione della legge 124, la riforma in materia di segreto di Stato, classificazione e declassificazione dei documenti, accessibilità degli archivi. Questioni sulle quali cercherò di fornire risposte puntuali sullo stato dell’arte. 
Vorrei anche dire che ho molto apprezzato le iniziative presentate nel corso di questo convegno e che sono il frutto di una collaborazione tra istituzioni pubbliche, associazioni e organismi come le fondazioni, che svolgono, soprattutto in questa parte del Paese che dispone di queste strutture, un ruolo di carattere sociale e culturale insostituibile.
Si tratta di un lavoro importante, perché difficilmente tutto può essere lasciato sulle spalle di un’amministrazione pubblica. Tuttavia, non c’è dubbio che l’amministrazione archivistica svolge, in condizioni difficili, un ruolo fondamentale e insostituibile. Si deve dare atto della passione, dell’impegno civile, non solo professionale, con cui lavorano tantissimi operatori in questo campo. 
Mi sento chiamato in causa dalla discussione di oggi non solo come presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) o come parlamentare, ma anche come cittadino, come militante democratico, come persona curiosa della storia del Paese. 
Partirò dai problemi che ho affrontato nel mio ruolo istituzionale: gli interrogativi che investono la riforma, lo stato di attuazione della legge 124 e l’azione parlamentare che si è svolta in tal senso. 
La riforma, come ricordava il presidente Paolo Bolognesi, recepisce in toto il principio a cui si è fatto riferimento fin dal 1984, cioè che il segreto di Stato non possa essere opposto in procedimenti che riguardano stragi. È, questa, una delle novità di una riforma molto complessa, che mi ha riguardato sotto diversi profili: sono stato tra i proponenti, in qualità di vicepresidente del Consiglio e di ministro degli Esteri nel periodo non lungo del governo Prodi e, successivamente, mi sono trovato a essere partecipe della fase di attuazione nella sede del controllo parlamentare. 
Dovrò necessariamente affrontare un discorso di carattere generale: poiché l’attività del COPASIR è coperta per legge da segreto, cercherò di violare la legge il meno possibile, limitando il mio intervento a ciò che oramai è materia pubblica. Inoltre, bisogna chiarire un punto: l’attuazione della riforma procede attraverso l’emanazione di regolamenti, sui quali è pur vero che il COPASIR ha il potere di esprimere dei pareri, ma l’autorità che è delegata a emanarli è l’Autorità di governo. 
In particolare, la grande novità della riforma è di aver accentrato la responsabilità politica in capo al presidente del Consiglio, superando una frammentazione di poteri e di responsabilità, cioè il rapporto tra il servizio segreto cosiddetto interno o civile, che faceva capo al Ministero dell’Interno, e il servizio segreto militare, che faceva capo al Ministero della Difesa e, solo come collaborazione, al Ministero degli Esteri. Ora tutto è stato ricondotto al Dipartimento per la Sicurezza e, quindi, alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Rispetto a questa responsabilità altissima noi abbiamo un compito di interlocuzione e di controllo.
Purtroppo tale compito non sempre è stato agevole, poiché il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non ha mai accettato di venire al COPASIR, il che ha costituito certamente una singolarità rispetto al controllo parlamentare. Ancorché la legge non dica se, come e quando, ma dica testualmente “il presidente del Consiglio risponde al COPASIR per le materie di sua esclusiva competenza” e preveda questo come un rapporto ordinario, tale rapporto ordinario non si è mai realizzato nel corso dell’attuale Legislatura.
La riforma del 2007 ha introdotto altre novità: in materia di archivi è stato avviato un percorso di riorganizzazione e accentramento degli archivi presso il DIS. È una questione complicata, non ho nessuna difficoltà ad ammettere che lo stato di attuazione della riforma è faticosamente indietro perché, prima ancora di discutere delle limitazioni derivanti dal segreto di Stato o dalla classificazione dei documenti, bisogna dire che c’è un delicatissimo problema che riguarda l’accessibilità fisica a questi archivi, dei quali non è stato facile neppure sapere quanti siano e dove siano. 
La legge prevede che ci sia un accentramento presso il DIS, dove si deve formare un archivio che la legge definisce impropriamente “storico”, ma che gli archivisti definirebbero un archivio di deposito, ossia dove far convergere i materiali che provengono dai diversi settori dei Servizi e che da lì, trascorsi quarant’anni, dovrebbero essere spostati verso l’Archivio centrale dello Stato. 
Noi stiamo premendo perché questo complesso sistema sia messo a regime. Sono stati fatti alcuni passi in avanti, superando enormi difficoltà di carattere corporativo e burocratico. A partire dal dovere di informare il Comitato della istituzione di nuovi archivi, un aspetto che può sembrare una banalità, ma che è essenziale allo scopo di esercitare un controllo circa la possibilità di attività improprie di archiviazione e di dossieraggio. Negli ultimi anni abbiamo assistito a episodi di questo genere: mi riferisco, da ultimo, alla formazione di un archivio presso gli uffici del SISMI di via Nazionale, che non sembrava propriamente volto a tutelare la sicurezza del Paese. E qui non parlo di stragi lontane, parlo di eventi molto vicini. 
Queste attività sono state messe sotto controllo, raccogliendo tutte le informazioni circa gli archivi esistenti e stabilendo la progressiva concentrazione dei materiali presso l’archivio centrale del DIS. L’attività di trasmissione dei materiali si è avviata concretamente. 
In questa circostanza, il COPASIR ha richiesto formalmente all’Autorità delegata che il passaggio di documenti attualmente custoditi presso le Agenzie, AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) e AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), consenta contestualmente l’accesso, ai sensi della legge 241, anche a storici e studiosi, e non soltanto la formazione di un archivio riservato interno. 
Naturalmente, ripeto, la legge prevede il successivo versamento dei documenti presso l’Archivio centrale dello Stato. 
La messa a regime di questo sistema è un processo molto complesso che non risolve il problema degli archivi perché, come giustamente è stato detto, gli studiosi si scontrano con la complessità di un’organizzazione archivistica che ha portato a una situazione di frammentazione che è del tutto sbagliata, oltre che costosa per una pubblica amministrazione ridotta al lumicino per quanto riguarda settori cruciali. Ciò è avvenuto anche grazie decisioni abbastanza recenti, penso a quella, sciagurata, di istituire un archivio storico della Presidenza del Consiglio. 
Non torno su temi che sono stati già affrontati, come la situazione dell’Archivio centrale dello Stato e, in generale, dell’amministrazione archivistica, delineata da Giulia Barrera, la mancanza di ricambio del personale, il rischio che un’intera generazione di archivisti, che è un patrimonio della cultura italiana, piano piano se ne vada in pensione senza che nessuno sia in grado di sostituirla degnamente, con un colpo drammatico alla ricerca storica del Paese. 
Siamo davanti a una vera emergenza nazionale che fa parte della più ampia emergenza che riguarda la cultura e i beni culturali del Paese. È piuttosto assurdo, in tale contesto, che ciascuno degli organi costituzionali disponga del proprio archivio: la Presidenza del Consiglio, i Carabinieri, lo Stato Maggiore della Difesa, la Guardia di Finanza, per non parlare dello stato assai problematico in cui versa l’archivio del Ministero degli Esteri. 
Qui davvero occorrerebbe qualcosa che va molto al di là della portata della legge 124. La comunità scientifica, in primo luogo, e la politica dovrebbero studiare un’organica riforma in grado di mettere ordine in questo comparto. 
In particolare, per quanto riguarda la conservazione dei documenti relativi alla storia unitaria italiana, essi dovrebbero essere conservati fondamentalmente presso l’Archivio centrale dello Stato, che dovrebbe essere adeguatamente potenziato attraverso il superamento di un’articolazione delle strutture archivistiche che non ha molto senso. 
Oltretutto, molti di questi archivi hanno discipline diverse e norme di solito più restrittive per quanto riguarda l’accesso. Tutto ciò costituisce un vero labirinto per la ricerca storica, la cui complessità va molto al di là del problema, che pure è piuttosto complicato, che riguarda gli archivi dei Servizi segreti. 
Cosa si troverà negli archivi dell’intelligence non lo sappiamo. In ogni caso, spesso si alimentano delle aspettative, ma ho qualche ragionevole dubbio che vi siano documentate tutte le deviazioni dei Servizi e temo che una parte di queste deviazioni appartenga a una tradizione orale che difficilmente troverà riscontro negli scritti. Al di là degli archivi, il vero problema è in che misura questi organismi dello Stato abbiano contribuito attivamente alla ricerca di una verità che, in molti casi, non è una verità archivisticamente documentabile, ma che appartiene a una tradizione, a una memoria.
Questo è ciò che riguarda la complessa vicenda degli archivi.
La materia del segreto di Stato, invece, è un tema assai delicato e complesso, che riguarda tutte le amministrazioni dello Stato, così come anche la materia relativa alle classifiche di segretezza.
Qui dobbiamo intenderci con chiarezza, perché spesso si fa confusione. Il segreto di Stato riguarda specificamente il segreto che viene opposto alla magistratura, perché la consultabilità dei documenti da parte dei cittadini, degli studiosi, è disciplinata da altre normative. 
Si tratta di un potere eccezionale di sbarramento che impedisce ai magistrati di esaminare un documento o di ottenere determinate informazioni che possono mettere a rischio, se divulgate, la sicurezza del Paese. Ed è un potere che comporta un’altissima responsabilità politica: solo il presidente del Consiglio può decidere di apporre il segreto di Stato o di confermarne l’opposizione, sollevata nel corso di un procedimento giudiziario, su un documento o su una deposizione. 
Ad esempio, se un magistrato richiede delle informazioni a un funzionario chiamato a testimoniare in un processo, quest’ultimo può dire: “non posso rispondere, oppongo il segreto di Stato”. A quel punto è il capo del governo che può confermare o meno l’opposizione, impedendo alla magistratura di conoscere l’oggetto del segreto di Stato. 
La Corte costituzionale è intervenuta su questa delicatissima materia sottolineando con forza la responsabilità politica del presidente del Consiglio e la insindacabilità, in sede giurisdizionale, di questo potere. Mi riferisco a una recente sentenza che è stata pronunciata sul caso del rapimento di Abu Omar, in occasione del conflitto di attribuzione sollevato dai giudici di Milano che si sono visti confermare il segreto di Stato dai governi Berlusconi e Prodi. Ebbene, la Corte Costituzionale ha riconosciuto il potere esclusivo del capo del governo in materia. 
Un potere esclusivo, delicato e insindacabile, ma non privo di limiti. La legge, e in qualche modo la Consulta, ne hanno delineato i confini: il segreto di Stato non può riguardare reati eversivi dell’ordine costituzionale, fatti di terrorismo, stragi e mafia; può, invece, riguardare operazioni condotte in collaborazione con altri Paesi, la cui divulgazione possa minacciare le relazioni internazionali del Paese, o notizie relative al funzionamento, agli interna corporis dei Servizi. Insomma, si tratta di uno strumento eccezionale posto a tutela della sicurezza dello Stato. 
Da parte nostra, comunque, premeremo affinché almeno le norme relative all’accesso all’archivio dei Servizi segreti siano rese pubbliche. Qui il problema è che l’amministrazione che ha classificato il regolamento lo ha fatto proprio perché in esso vi sono norme attraverso le quali si evince la struttura e il funzionamento interno delle Agenzie, e, per tutto ciò che concerne gli interna corporis dei Servizi, c’è un’estrema ritrosia a rivelare. 
Per quanto riguarda le classifiche di segretezza (“riservato”, “riservatissimo”, “segreto” e “segretissimo”), a mio parere se ne fa un uso eccessivo, persino ridicolo, in qualche caso. Oltretutto, la vicenda Wikileaks dimostra che l’enorme estensione dei segreti finisce col renderli indifendibili. Sarebbe piuttosto saggio che le amministrazioni limitassero queste forme di protezione a ciò che veramente deve essere tenuto riservato e non farne un uso discrezionale, enormemente esteso, ultroneo. Tornando al segreto di Stato, la Commissione Granata ha proposto una protezione di secondo livello, cioè il fatto che, scaduto il termine di 15 anni stabilito dalla legge, l’ulteriore quindicennio di proroga potesse essere stabilito con decisione politica e non burocratica. 
Il COPASIR, in sede di parere, si è opposto. 
Per inciso, il Comitato è un organismo dal funzionamento complesso non solo perché le sue attività sono segrete, ma perché è un organismo perfettamente paritario: è presieduto per legge da un esponente dell’opposizione ed è composto da 5 esponenti della maggioranza e da 5 dell’opposizione. Ne consegue che, per poter deliberare a maggioranza, ogni decisione non può che essere bipartisan. 
Dico questo perché voi potete immaginare la fatica che ciò comporta, in un contesto culturale nel quale la dialettica governo-Parlamento sembra essere stata totalmente sostituita dalla dialettica maggioranza-opposizione. In passato il Parlamento, indipendentemente da maggioranze e minoranze, aveva la cultura di controllare il governo. Oggi, invece, viviamo in un’epoca in cui c’è una maggioranza parlamentare che si ritiene un puro prolungamento dell’esecutivo e prendere delle decisioni che in qualche modo pretendano di sindacare le attività del governo, in un organismo perfettamente paritario, è un’attività estremamente impegnativa. 
Sulla durata del segreto di Stato abbiamo chiesto al governo di rispettare alla lettera la legge 124/2007 e abbiamo ricevuto assicurazioni in tal senso: la raccomandazione di istituire una protezione di secondo livello, contenuta nelle conclusioni della Commissione Granata, non sarà tenuta in considerazione. 
Invece, sul problema relativo al concetto di segreto di Stato “internazionale”, cioè la possibilità che ci sia un regime speciale per documenti relativi a vicende che coinvolgono la responsabilità di Servizi segreti stranieri, il COPASIR non ha raggiunto un parere condiviso, è un tema che è ancora oggetto di confronto con l’esecutivo. 
La mia personale opinione è che questo principio sia molto discutibile, al di fuori dei casi in cui vi sia piena reciprocità, ossia quando un principio di questo genere sia dall’altra parte accettato come valevole nei nostri confronti. Altrimenti non si capisce perché noi dovremmo farci carico di una protezione speciale per operazioni o vicende che coinvolgono Stati che non ricambierebbero il favore. 
Il segreto di Stato è uno strumento certamente molto delicato e ancora in tempi recenti ne è stato fatto un uso arbitrario. 
Mi riferisco a un complesso di vicende controverse; per esempio, nel caso del processo Abu Omar, ho condiviso la decisione del presidente del Consiglio Romano Prodi di confermare l’opposizione del segreto di Stato. In quel caso, il segreto proteggeva una delicatissima vicenda che coinvolgeva le responsabilità di un Paese amico e alleato e pertanto rientravamo, come la Corte costituzionale ha riconosciuto, nei casi di specie in cui il segreto di Stato è legittimo. 
Di converso - lo dico perché tutto ciò è avvenuto con scarsa eco di opinione pubblica - in vicende recenti, come la vicenda del processo Telecom a Milano, dove con il segreto di Stato si è protetto un funzionario del Servizio segreto militare coinvolto in attività di dossieraggio promosse da un’agenzia privata di investigazioni assieme all’ufficio di sicurezza di Telecom, devo dire sinceramente che non si capisce quale valore si intendesse tutelare. In quel caso, il segreto di Stato è intervenuto a rendere difficile l’accertamento della verità in una vicenda che ha tutti gli aspetti di una deviazione dell’attività dei Servizi. 
Ciò è ancor più vero nel processo presso il Tribunale di Perugia relativo alla vicenda di via Nazionale, dove, senza alcun dubbio, si svolgeva un’attività del tutto estranea alle attività istituzionali dei Servizi segreti, come è emerso chiaramente dalle indagini di polizia giudiziaria che hanno portato alla luce dossier relativi a magistrati, giornalisti ecc. Attività che gli stessi Servizi hanno dichiarato essere estranea ai loro compiti e alle loro finalità. In questo caso, il ricorso al segreto di Stato, a mio giudizio, è stata una decisione chiaramente forzata.
Il segreto di Stato è uno strumento molto particolare, che deve essere usato con estrema cautela. Secondo me, al di là del controllo parlamentare, che nelle condizioni date si può esercitare limitatamente, è anche bene che vi sia una forma di controllo da parte dell’opinione pubblica, nel senso che, di fronte a vicende come quelle che ho appena ricordato, forse l’opinione pubblica dovrebbe un po’ di più fare sentire la sua presenza per segnalare che, ad esempio, il segreto di Stato per proteggere le attività di Pio Pompa sembrerebbe non precisamente volto a garantire la sicurezza del Paese. 
In ogni caso, non credo che il segreto di Stato costituisca davvero il principale ostacolo o un ostacolo rilevante rispetto all’accertamento della verità nelle vicende relative alle stragi, non solo perché in nessuna di queste vicende risulta esplicitamente opposto. 
Anche se ci siamo posti un interrogativo: in che misura l’opposizione del segreto di Stato, pur non potendo riguardare le vicende di stragi ma opposto in altre vicende e poi estensivamente utilizzato, possa aver ostacolato la ricerca della verità anche in questo campo. Qui si possono fare degli esempi: la vicenda Eni Petromin, il caso Toni-De Palo e il presunto traffico di armi tra OLP e Brigate Rosse sono vicende sulle quali si è esercitato il segreto di Stato e ciò ha portato a secretare un’enorme mole di documenti la cui desecretazione potrebbe, forse anche indirettamente, aiutare ad accertare la verità in altre vicende. 
Da questo punto di vista, penso sia giusto esercitare una certa vigilanza sugli effetti indiretti che l’uso del segreto può aver avuto. In gran parte si tratta di segreti che sono in scadenza e non dovrebbero esserci difficoltà a trasmettere all’autorità giudiziaria documenti che possano essere utili in quanto collegati a vicende oggetto di indagini per i gravi reati di cui abbiamo parlato qui. Nella vicenda Toni-De Palo il COPASIR è intervenuto al fine di consentire ai familiari dei due giornalisti scomparsi di prendere visione di gran parte dei documenti depositati presso gli archivi e questo è stato un primo caso in cui la collaborazione tra Parlamento e cittadini ha consentito un accesso importante a una documentazione che, fino ad oggi, era stata di fatto non disponibile.
Infine, vorrei dire qualcosa sulle classifiche di segretezza. 
Innanzitutto ritengo che bisognerebbe vivamente consigliare a tutte le amministrazioni un uso meno estensivo, meno arbitrario, più limitato di questo strumento di riservatezza. Ma credo che si debba respingere ogni interpretazione che voglia limitare la portata dell’innovazione prevista dalla legge 124, che prevede un meccanismo di declassifica automatica e la durata massima di 15 anni per le diverse denominazioni, a meno che ciò non venga superato da una decisione politicamente motivata del presidente del Consiglio, e non da sbarramenti di natura burocratica che possono essere opposti dalle amministrazioni: questo sarebbe francamente inaccettabile.
Riassumendo i temi relativi all’attuazione della legge 124, accolgo la critica che il processo di attuazione della riforma sia un processo lento e potrebbe riguardare anche altri aspetti di natura ordinamentale. 
Penso a temi che non riguardano questa sede come, per esempio, la difficile applicazione del principio, pure così importante, che la selezione del personale avvenga attraverso concorsi e non attraverso i meccanismi che sono stati adottati fino ad oggi, o la decisione, che pure è stata presa e poi contestata in sede giurisdizionale con un appello al TAR del Lazio, che costituisce per molti aspetti, secondo me, il cuore della riforma vera, quella di un ampio turnover che porti fuori dai Servizi circa 590 funzionari, che stanno lì da più di vent’anni. Questo vale più di tutte le leggi che si possono scrivere sulla materia. 
Si sta lavorando per favorire quel ringiovanimento, quel ricambio, quella acquisizione di nuove professionalità che sono necessarie, proprio in relazione ai compiti che i Servizi segreti hanno. La riforma ne individua i nuovi compiti, che riguardano l’economia nazionale e l’idea di proiettarli oltre la logica della guerra fredda, che ne ha fortemente segnato tutta la storia nel corso del dopoguerra.
Non si può parlare dei Servizi segreti al di fuori di una considerazione storica, che riguarda la storia del nostro Paese. C’è una profonda differenza tra la trattazione dei segreti in un Paese come gli Stati Uniti d’America e l’Italia. La differenza è che i segreti italiani riguardano la storia interna dell’Italia, i segreti della CIA riguardano le operazioni che la CIA ha fatto in giro per il mondo. I segreti italiani riguardano il fatto che il nostro è stato un Paese attraversato dalla guerra fredda, nel quale apparati dello Stato hanno, non per deviazione ma perché era il loro compito, esercitato un ruolo fondamentale nel controllare la vita politica interna. Una peculiarità che rende molto difficile affrontare la questione come se fosse soltanto un esame di diritto comparato. La CIA ci ha raccontato quello che ha fatto, ad esempio, in Guatemala, ma noi chiediamo ai nostri Servizi di sapere cosa hanno fatto qui, il che è molto più impegnativo, da ogni punto di vista. 
Basta leggere la monumentale storia dei Servizi segreti italiani di Giuseppe De Lutiis per rendersi conto che i nostri Servizi furono ricostituiti nel dopoguerra dagli inglesi e, in parte, dagli americani, recuperando tutto il vecchio personale fascista perché era quello più adatto a organizzare una struttura la cui mission fondamentale non era quella di vigilare sulla sicurezza del Paese, ma di combattere il Partito comunista e la sinistra. Andarono persino a recuperare il generale Roatta, accusato dell’omicidio dei fratelli Rosselli: ecco di cosa parliamo.
Naturalmente è passato molto tempo, sono cambiate molte cose, oggi sarebbe sbagliato considerare soltanto in questi termini la realtà dei Servizi, parliamo di un cambiamento culturale molto profondo che va al di là delle belle parole che si possono scrivere in un testo di riforma.
Ho cercato più volte di convincere i Servizi che una maggiore trasparenza dei documenti relativi alla loro storia consentirebbe agli storici di scriverne una storia che non sia soltanto una storia delle loro deviazioni. Gran parte della storiografia sui Servizi segreti, infatti, si basa attualmente su fonti giudiziarie. La magistratura ha acquisito gli atti, laddove non c’era il segreto di Stato, ma una storia dei Servizi segreti fondata quasi esclusivamente su fonti giudiziarie è inevitabilmente una storia delle deviazioni dei Servizi segreti. Al contrario, ciò che i Servizi hanno fatto nel corso degli anni per proteggere la sicurezza del Paese viene custodita in archivi inaccessibili. Il che non è neppure nel loro interesse, ma è un ragionamento che fatica ad aprirsi una breccia.
Credo che questa considerazione non ci possa sfuggire: si tratta di riformare uno dei gangli più delicati di un apparato pubblico che è stato per lungo tempo segnato da un conflitto drammatico che ha attraversato l’Italia, il che rende indiscutibilmente questo problema molto più delicato di quanto possa essere in altri Paesi.
Penso che per molti aspetti la verità storica, nelle sue grandi linee, sia una verità di cui siamo abbastanza consapevoli, anche grazie alla ricerca storica. 
Parlavo prima di un saggio sul Piano Solo, che mi sono trovato a presentare assieme a Miguel Gotor, che è interessante anche perché lo studioso che lo ha scritto ha potuto utilizzare fonti archivistiche di natura privata che gli hanno consentito di aprire uno squarcio sul Piano. La cosa interessante di questa voluminosa opera è che rende in gran parte giustizia ai Servizi segreti: si capisce che il Piano Solo non fu una deviazione del generale De Lorenzo, ma fu un programma di azione contro la sinistra che fu commissionato al generale De Lorenzo da un’altissima autorità politico-istituzionale del tempo, e naturalmente chi serve lo Stato non può che eseguire le indicazioni che vengono dalle autorità politiche e istituzionali. 
Lo dico perché spesso si è parlato di deviazioni a proposito di episodi che forse deviazioni non sono state, nel senso che era l’indirizzo che concretamente certi apparati avevano e svolgevano. Anche se è stato, per lo meno a partire da una certa fase storica, un indirizzo inaccettabile e contrario alla legge. 
Si è parlato, per il nostro Paese, della complessa realtà di un doppio Stato, di una doppia lealtà, del convivere insieme di una democrazia costituzionale e di una costituzione materiale in cui, invece, il peso della guerra fredda ha fortemente condizionato l’opera di delicatissimi apparati dello Stato. 
Una certa mentalità, anche per responsabilità politiche, ha continuato a operare, cercando di far sopravvivere il fantasma della guerra fredda anche quando storicamente ciò non aveva più alcun senso, ossia durante la seconda Repubblica. 
Con molto ritardo, perché il 2007 è tardi rispetto al 1989, una riforma coraggiosa ha aperto una stagione nuova. Bisogna attuarla pienamente, superando resistenze corporative, timidezze politiche e questo è esattamente l’impegno nel quale ci cimentiamo, con la consapevolezza dei limiti del nostro agire. Ci sono domande a cui il COPASIR non può dare risposte, il massimo che possiamo fare è esprimere delle raccomandazioni al governo e affinché le raccomandazioni al governo siano condivise dalla maggioranza dei membri del Comitato, devo convincere i parlamentari che rappresentano la maggioranza. 
I nostri poteri sono piuttosto limitati ma, entro questi limiti, credo che noi abbiamo detto con chiarezza alcuni no, alcuni sì e stiamo cercando di spingere la riforma nel senso di un effettivo cambiamento. 
Detto questo penso che, e la discussione di oggi lo conferma, noi abbiamo bisogno, più in generale, di qualcosa che vada molto oltre la questione dei Servizi segreti, abbiamo bisogno, in Italia, di qualcosa che assomigli al Freedom of Information Act. Ne abbiamo bisogno per quanto riguarda l’insieme della pubblica amministrazione e abbiamo bisogno di mettere mano all’insieme dell’organizzazione e dell’ordinamento archivistico del Paese. Il quale, ripeto, così com’è è povero di mezzi, frantumato, soggetto a norme diversamente restrittive e tutto questo crea un labirinto che rende molto difficile un lavoro prezioso: quello dei ricercatori e degli storici che vogliono ricostruire la vicenda del Paese e portarne alla luce le verità storiche e politiche, il che è il fondamento essenziale per potere andare avanti meglio e insieme.

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