Discorso
22 ottobre 2013

Le relazioni tra Unione europea e Israele nel 2020: ostacoli e opportunità - versione italiana

Keynote speech in occasione della conferenza "EU-Israeli Relations Between a Freeze and an Update", Roma, 23-24 ottobre


Cari amici, 

innanzitutto vorrei dare il benvenuto a Roma a quanti di voi sono arrivati qui oggi e augurare a tutti un’interessante discussione domani. 
Sono onorato dell’invito a tenere il keynote speech di questa sera e introdurre così con le mie considerazioni il vostro workshop e il vostro dibattito. Chi mi conosce sa bene che le questioni mediorientali, in particolare il conflitto israelo-palestinese, sono sempre state tra i capitoli di politica estera che considero di cruciale importanza per l’Unione europea e per l’Italia. Sono questioni di cui conosco bene la lunga e frustrante storia, tuttavia spero che gli sforzi del segretario di Stato americano John Kerry di dare un’altra opportunità ai colloqui di pace siano ripagati da alcuni passi in avanti verso un accordo tra le parti. Per questo motivo, mi fa piacere condividere con voi stasera alcune osservazioni sullo stato delle relazioni tra l’Unione europea e Israele.  
Sappiamo tutti che è sostanzialmente impossibile parlarne senza affrontare il tema dell’evoluzione – o meno – del processo di pace.  Quest’ultima, infatti, influisce non soltanto sulle relazioni tra Bruxelles e Tel Aviv, generando un’alternanza tra fasi di cooperazione positiva e fasi di maggiore prudenza, ma anche sull’atteggiamento dell’opinione pubblica europea nei confronti di Israele. 
Non spetta a me illustrare i dettagli tecnici del complesso schema di cooperazione, che peraltro conoscete molto meglio di me. Lasciatemi solo sottolineare che è principalmente sul lato tecnico che si sviluppano attualmente le nostre relazioni, considerato che la decisione sul futuro upgrading del piano d’azione che disciplina il nostro dialogo politico – e altri importanti capitoli della nostra cooperazione – è stata purtroppo sospesa, secondo il principio di condizionalità.  
Un fatto che naturalmente indispone di continuo il governo israeliano, causandone ripetute proteste, ma sul quale esiste, almeno a un livello superficiale, una convergenza tra Stati membri dell’UE.  
Tuttavia, temo che la condivisione generale tra gli ora 28 partner si fermi qui, perché se è vero che la maggioranza degli Stati membri riconosce apertamente l’importanza, sia dal punto di vista strategico che economico, della pace in Medio Oriente, molti di essi tendono ad assumere un atteggiamento di sostegno verso l’una o l’altra parte, e spesso scelgono di continuare a intrattenere relazioni bilaterali per il proprio interesse nazionale. Alcuni addirittura alimentano l’illusione che la ricerca della pace possa essere interamente delegata agli attori coinvolti e non richieda, invece, alcuna responsabilità diretta da parte dell’Europa. Non dobbiamo sottovalutare il fatto che l’UE è vincolata al rispetto dei suoi principi e delle posizioni comuni e che non è interesse di nessuno, neanche di Israele stesso, tentare di dividerla.
Detto questo, è interessante notare che, nonostante la mancanza di un nuovo accordo quadro, i legami con Israele si stanno consolidando. Lasciatemi ricordare, ad esempio, l’accordo del 2009 per la liberalizzazione del commercio di prodotti agricoli e ittici, il protocollo per il reciproco riconoscimento degli standard industriali, quello del 2011 con l’Agenzia spaziale europea, i programmi di scambio scolastici e quelli nel campo della ricerca e dell’innovazione, come Horizon 2020, o l’accordo euromediterraneo sull’aviazione dello scorso giugno che, una volta ratificato da tutti gli Stati membri, sostituirà gli atti bilaterali attualmente in vigore.  
Tra le questioni più controverse – per via delle ripercussioni politiche ed economiche – vi è probabilmente quella dell’etichettamento dei beni prodotti negli insediamenti, come indica anche il titolo del workshop di domani. Il fatto di non essere riusciti a pretendere che Israele distinguesse tra beni prodotti negli insediamenti e beni prodotti in territorio israeliano, infatti, ha consentito a Tel Aviv di entrare nei mercati europei a tariffe preferenziali. 
Gli Stati membri dell’Unione sono stati spesso indulgenti sulla questione e la conseguenza è stata un involontario sostegno europeo all’espansione degli insediamenti. Un sostegno che Bruxelles non può più mantenere. Come affermato dalle conclusioni del Consiglio Affari esteri dell’UE, “ogni accordo tra lo Stato di Israele e l’Unione europea deve indicare esplicitamente e inequivocabilmente l’inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967”. Sarò chiaro: violare questo principio equivarrebbe a violare i principi e i valori fondamentali e non negoziabili dell’Unione. Lasciate che aggiunga che la decisione dell’UE non va intesa contro Israele. Al contrario, essa favorisce quei cittadini israeliani – secondo i sondaggi, la maggioranza del Paese – che credono nella pace e considerano gli insediamenti come un ostacolo al raggiungimento di un accordo.
Seppur tra molte difficoltà, determinate dalla controversa storia di Israele, per gli Stati membri dell’Unione il rapporto con Tel Aviv è estremamente importante e ha un grande potenziale. Nonostante la crisi economica, infatti, Israele è un’economia avanzata e dinamica, seconda solo alla Turchia nell’area mediterranea non europea. Tuttavia, finché lo spettro di un nuovo conflitto con il suo vicino o di una nuova Intifada incomberà sul Paese, l’evolversi delle relazioni con l’UE, come ho detto prima, dipenderà sempre dagli sviluppi politici nella regione. 
Come fu affermato oltre trent’anni fa, durante il noto Consiglio europeo di Venezia del 1980, una giusta soluzione del conflitto, che implichi il diritto all’esistenza e alla sicurezza per tutti gli Stati della regione – incluso Israele – e alla giustizia per tutti i popoli – inclusi i palestinesi – è la priorità assoluta per l’Europa, per quanto riguarda il Medio Oriente. Si tratta di obiettivi che i Paesi dell’Unione hanno perseguito per decenni e ai quali hanno dedicato immense risorse: sia in termini economici, a sostegno del popolo palestinese, sia per il dispiegamento di missioni di peace-making e peace-keeping, come UNIFIL lungo il confine israelo-libanese o la missione ONU di monitoraggio sulle Alture del Golan o, ancora, quella civile di osservazione nella città di Hebron. 
Pertanto, il contributo dell’Europa alla stabilità della regione è enorme e, lasciatemelo dire, estremamente oneroso per i nostri contribuenti. Non dimentichiamo che l’Unione è il maggior donatore in quell’area: le istituzioni comunitarie e gli Stati membri presi insieme hanno versato oltre un miliardo di euro l’anno per sostenere l’Autorità palestinese, il che equivale a più di metà degli aiuti internazionali che riceve annualmente. 
E’ ovvio, quindi, che è interesse dell’Europa che finalmente si instauri un clima disteso e collaborativo, in particolare in un momento di grande preoccupazione per via dei recenti sviluppi nel mondo arabo. In un quadro simile, un passo avanti verso il raggiungimento di un accordo di pace costituirebbe un fattore importante ed estremamente positivo.
Sappiamo che in questo momento si stanno svolgendo dei colloqui e che vi è un impegno serio da parte dell’Amministrazione americana, e in particolare del segretario di Stato, che ha incluso il processo di pace tra le sue priorità. L’attuale negoziato sembra tentare di andare al di là del concetto stesso di “processo di pace”, allo scopo di raggiungere, in un lasso di tempo predeterminato, un vero e proprio accordo. E’ un’opportunità che non bisogna sprecare. Mi rendo conto che in Israele alcuni pensano che le attuali instabilità e conflitti in alcuni Paesi vicini, dovuti alle ripercussioni della Primavera araba, forniscano un’occasione per mettere da parte i negoziati. 
Viceversa, secondo me, se vogliono evitare il “contagio”, che potrebbe avere conseguenze molto serie per la stabilità della regione e per Israele stesso, è esattamente questo il momento di fare uno sforzo maggiore di ricerca della pace. Tornando ai negoziati in corso, considero anche un segnale positivo il fatto che si concentrino sulle questioni cruciali, come quella della sicurezza e quella dei confini dello Stato palestinese, il che ovviamente include il problema degli insediamenti, quello delle risorse idriche e quello del destino di Gerusalemme.  
Sono sicuro che conoscete la posizione dell’Europa su questo argomento: alla base di ogni decisione dovranno esservi le risoluzioni delle Nazioni Unite e i confini antecedenti al 1967, il che, tuttavia, non dovrà precludere uno scambio di territori tra Israele e i palestinesi. 
Crediamo fermamente che alla fine prevarranno le posizioni più sensibili da entrambe le parti, e che gli attori coinvolti comprenderanno che questo conflitto, durato già troppo a lungo, non può trascinarsi per sempre. Altrimenti, i rischi nel lungo termine saranno da un lato di aggravare la generale instabilità nell’area e, dall’altro, di trasformare il conflitto stesso da nazionale – e, pertanto, aperto a una soluzione negoziata – a religioso. 
Se guardo al prossimo futuro, vedo ancora un ruolo importante per l’Unione europea, in particolare per quanto riguarda la sicurezza e lo sviluppo economico. Relativamente alla prima, la NATO rimane la più importante organizzazione di sicurezza al mondo, e in quanto tale potrebbe promuovere la creazione di una partnership per la pace e la sicurezza nella regione, che coinvolga Israele, il futuro Stato palestinese e magari la Giordania, stabilendo un quadro di cooperazione nella prevenzione dei conflitti e, in una certa misura, anche del terrorismo. 
Per quanto attiene allo sviluppo economico, l’Unione europea potrebbe contribuire alla creazione di un’area di cooperazione economica e di libero scambio, che potrebbe comprendere – oltre all’Europa – Israele, il futuro Stato palestinese e la Giordania, offrendo la cooperazione con Bruxelles come una grande opportunità allo scopo di aiutare questi Paesi a sviluppare l’attitudine a integrarsi e collaborare gli uni con gli altri. Sono convinto che l’Unione debba avanzare queste due proposte come incentivi per la pace.  
Inoltre, un simile piano potrebbe condurre alla creazione delle condizioni per la cooperazione e la sicurezza e di interessi economici comuni, che garantirebbero non solo pace e stabilità nella regione, ma anche progresso e crescita economica.
Ho molti amici israeliani e palestinesi e quindi so che quello che ho in mente non è una semplice utopia. Lasciatemi sognare non solo la pace, non solo due Stati che convivono in pace e sicurezza, ma anche una cooperazione e un’amicizia tra Israele e Palestina, che potrebbe fare di quella regione un modello straordinario di prosperità, civiltà, dialogo religioso e culturale e reciproca comprensione. 
Se questi dovrebbero essere, a mio parere, gli obiettivi di lungo termine, nel breve periodo gli europei dovrebbero innanzitutto superare il consueto vizio che ha caratterizzato il loro approccio in politica estera in generale e in particolare per quanto attiene al Medio Oriente e al processo di pace: quello di adottare posizioni comuni di principio, perseguendo però al contempo i propri interessi nazionali. 
Infine, gli Stati membri dell’UE dovrebbero, una volta per tutte, far corrispondere all’usuale retorica delle loro dichiarazioni sul Medio Oriente impegni e azioni reali, al fianco dell’Amministrazione americana, il cui intervento – di concerto con il Quartetto e con la comunità internazionale – rimane allo stato la migliore e forse la sola opportunità di una soluzione pacifica. 
Naturalmente, spetta a entrambi gli attori cogliere questa occasione, per se stessi e per tutti noi. 
Grazie.

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