Discorso
18 dicembre 2013

L’impegno dell’Europa per la sicurezza e la convivenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente

IPIS (Institute for Political and International Studies of the Ministry of Foreign Affairs), Teheran - Versione italiana


Cari amici, 

Innanzitutto vorrei esprimervi profonda gratitudine per l’invito da parte dell’Institute of Political and International Studies a essere qui oggi. Sono davvero onorato per questa opportunità di visitare la Repubblica islamica dell’Iran e di rivolgermi a un pubblico così autorevole.
Il tema del mio intervento, un argomento che mi ha sempre appassionato, non solo quando ero ministro degli Esteri italiano, ma anche oggi che presiedo due fondazioni politiche, riguarda l’approccio dell’Unione europea al Grande Medio Oriente, un’area vasta, con immense risorse umane, finanziarie ed energetiche, con migliaia di anni di storia e di tradizioni culturali alle spalle, con uno straordinario patrimonio di cultura e civiltà. E, soprattutto, una regione che gioca un ruolo fondamentale nel campo dell’economia e della sicurezza globale. Non dobbiamo dimenticare che qui è concentrato circa il 55% delle riserve mondiali di petrolio.
Ma si tratta anche di un’area che è stata dilaniata da secoli di tragiche guerre nazionali, religiose ed etniche, ed è preda di una instabilità cronica: dal conflitto israelo-palestinese, che dura ormai da oltre sessant’anni, alla guerra civile in Siria, ai ripetuti tentativi, in Iraq e in Afghanistan, di tornare alla normalità dopo la guerra, anche se, come sappiamo, entrambi questi Paesi sono ancora segnati da frequenti attacchi terroristici e da una forma di scontro civile di bassa intensità. Così come penso alla perdurante mancanza di sicurezza in Libano. 
Temo che sarebbe possibile aggiungere molte altre voci a questa tragica lista. Ricordo la questione curda, le difficoltà nelle relazioni tra musulmani ed ebrei, la grande sofferenza da parte delle minoranze cristiane, frequentemente oggetto di persecuzioni, l’annosa ostilità tra sciiti e sunniti e, persino, la rottura interna all’Islam sunnita, causata dal peso delle diverse scuole di pensiero religioso e, in una certa misura, dalle politiche di potere da parte di alcuni Paesi della regione. 
Non c’è dubbio che nel mondo non vi sia un’altra area tanto esposta a una concentrazione così drammatica di tensioni e conflitti. 
Non posso negare che l’Europa abbia una grossa responsabilità per questa situazione, considerando che la maggior parte dei conflitti affonda le radici anche nella storia ed è stata determinata dall’arbitrarietà con la quale furono definiti i vari confini da parte delle ex potenze coloniali. Ma vi è anche una responsabilità più recente: mi riferisco al sostegno offerto per decenni a dittature intollerabili, allo scopo di difendere interessi particolari, come la necessità di garantire l’approvvigionamento energetico ai Paesi europei. 
La Primavera araba ha colto l’Europa di sorpresa, privandola di una strategia. Oggi, sconfitta la vecchia “Realpolitik”, l’Europa deve guardare al Medio Oriente in modo nuovo, concentrando la propria azione sulla necessità di assicurare la pace e la stabilità attraverso il dialogo, rimuovendo le cause di conflitto, combattendo il terrorismo, o per lo meno compiendo ogni sforzo possibile per ridurre il sostegno popolare di cui godono le organizzazioni terroristiche, e favorendo le condizioni per una cooperazione e una partnership attiva nella sfera politica, economica e della sicurezza. 
Ma la pace e la stabilità non possono ottenersi senza alcune importanti precondizioni: la promozione del dialogo interreligioso, la tolleranza e il rispetto reciproci, il rafforzamento della democrazia e la protezione delle libertà individuali, dei diritti umani e civili, in particolare il diritto delle donne all’uguaglianza. 
Naturalmente, valori e principi non possono essere imposti, ma l’Europa dovrebbe cercare di incoraggiarne e sostenerne la diffusione, favorendone il radicamento attraverso la formazione di partnership con i Paesi che si riconoscono in questi ideali e su di essi fondano le loro politiche. 
Alla vigilia di quello che ritengo un anno decisivo per l’intera regione, è particolarmente importante per l’Unione europea interrogarsi sugli scenari politici mediorientali e sulla propria posizione riguardo alle crisi che scuotono la regione. 
Ad aprile del 2014 si terranno le elezioni in Afghanistan per scegliere il successore del presidente Karzai. Allo stesso tempo, il mandato della missione ISAF volgerà al termine, per essere sostituito dalla missione Resolute Support. Gli Stati Uniti avvieranno una profonda revisione della loro strategia. Tutto questo avverrà nel contesto di un Paese che ancora fatica a ricostruire il proprio quadro istituzionale, le proprie infrastrutture. In una parola: se stesso.
La riduzione graduale della presenza militare internazionale nel Paese costituisce un punto di svolta delicato e cruciale per l’Afghanistan, durante il quale dovremo garantire il nostro pieno sostegno per i processi di pacificazione e di nation-building.
In quello stesso periodo, anche i cittadini iracheni si recheranno ai seggi per eleggere il loro Parlamento. Considerati la crescente insoddisfazione espressa da diverse fazioni del Paese, la frammentazione dell’arco politico iracheno e il peggioramento del clima di violenza, il tentativo di Al Maliki di ottenere il terzo mandato potrebbe rappresentare una sfida complessa.   
Anche in quel Paese sarà necessario compiere sforzi maggiori per porre un freno alle lotte intestine e incoraggiare la pacificazione tra le varie componenti dell’arena politica irachena, in particolare tra la maggioranza sciita e la comunità sunnita che ha mantenuto il potere così a lungo.  
All’inizio dell’anno prossimo, dovremmo anche vedere l’apertura dei negoziati di Ginevra tra il governo siriano e l’opposizione, volti a porre fine alla guerra civile che sta dilaniando quel Paese, che ha causato circa 100.000 morti e costretto quasi due milioni e mezzo di persone a lasciare le proprie case e a cercare rifugio nei Paesi vicini e altrove, mentre altri quattro milioni e mezzo sono sfollati nel Paese stesso. I civili hanno dovuto lasciare il Paese a un ritmo di 6.000 al giorno nel 2013: le Nazioni Unite ci dicono che non si assisteva a un simile ritmo dal genocidio in Ruanda, vent’anni fa.  Un record assolutamente tragico che non c’era bisogno di eguagliare e che rischia di destabilizzare l’intera regione. La Siria, insomma, sta vivendo un’enorme tragedia umanitaria. 
Non penso che si possa negare la responsabilità del regime di Bashar Al Assad, che ha fatto un lungo uso della repressione e che non rappresenta la maggioranza del popolo siriano. Tuttavia, ritengo anche che non vi sia soluzione militare a questo conflitto. Inoltre, l’insorgenza è capeggiata da alcuni dei più estremisti tra gli elementi fondamentalisti sunniti, e le varie migliaia di miliziani islamici che combattono in Siria non lo fanno per i diritti e le speranze del popolo siriano.
L’unica soluzione, a mio parere, è sospendere gli scontri e avviare un dialogo politico per lanciare un processo pacifico di transizione democratica, nel rispetto dei diritti umani e civili, e delle esigenze di tutti i gruppi etnici e religiosi che costituiscono la variegata popolazione della Siria. Ed è necessario un accordo regionale, che coinvolga la Turchia, il Qatar e, in particolare, Iran e Arabia Saudita.
Credo che questo sia l’unico modo di evitare un pericoloso contagio verso i Paesi vicini come il Libano, dove in realtà possiamo già osservare segnali inquietanti, o gli Stati del Golfo. 
In nessun Paese al mondo la democrazia può consistere solo nel rispetto della regola della maggioranza, a maggior ragione in questi, tenuto conto della loro complessità religiosa ed etnica. 
Quindi, la partecipazione ai processi politici e il rispetto dei diritti di ogni gruppo sono condizione imprescindibile per una convivenza pacifica e per la prevenzione di episodi di intolleranza e di attacchi terroristici.  
Nel 2014, potrebbero esserci degli sviluppi anche in Egitto, per definire la direzione in cui si muoverà il Paese in seguito al colpo di Stato militare dello scorso luglio, che ha deposto il presidente Mohamed Morsi, democraticamente eletto. Non c’è dubbio: Morsi non stava costruendo una democrazia sostanziale, come risultato di elezioni democratiche. 
Infatti, bisogna sempre tenere ben presente la differenza tra democrazia formale e democrazia sostanziale. 
Tuttavia, tornando alla situazione egiziana, la soluzione non può certo essere quella di un ritorno al regime militare. Speriamo di vedere l’Egitto riprendere la strada della democrazia e confidiamo che lo stato attuale sia solo transitorio: tutte le forze politiche devono essere incluse nel processo democratico. A mio avviso, infatti, l’esclusione dei Fratelli musulmani è un errore e non è accettabile, qualunque opinione si abbia della loro condotta politica. 
Detto tutto questo, il conflitto chiave per l’intera regione, e il più difficile da risolvere per profonde ragioni politiche e religiose, sono convinto che resti quello israelo-palestinese. La posizione dell’Unione europea al riguardo è chiara: l’unica soluzione possibile è la coesistenza di due Stati, che garantisca al tempo stesso la sicurezza di Israele e del diritto dei palestinesi a fondare uno Stato entro i confini pre-1967.
Attualmente, sono in corso negoziati tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese. Questa volta le intenzioni paiono serie, anche a detta degli stessi palestinesi. Le due parti sembrano disponibili ad affrontare anche le questioni più controverse, che devono essere risolte nello spirito delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Mi riferisco allo Stato palestinese e alla natura della sua sovranità, al disegno e alla gestione dei confini tra i due Stati, alla questione di Gaza, al futuro di Gerusalemme, al delicato problema dei rifugiati, agli accordi di sicurezza, alle relazioni economiche, al problema dell’acqua e delle risorse naturali. Ma senza il ritiro israeliano dagli insediamenti nei Territori occupati da un lato, e senza la garanzia della salvaguardia del carattere ebraico dello Stato di Israele dall’altro, non è possibile alcun approdo. 
Si tratta di questioni talmente serie, talmente complesse e radicate, da poter essere risolte soltanto attraverso un’azione estremamente decisa e coraggiosa. 
Ho sempre guardato alla causa palestinese con comprensione e ho spesso criticato apertamente le politiche di insediamento e di occupazione di Israele. In qualità di ministro degli Esteri italiano, mi sono anche speso per agevolare una risoluzione del conflitto israelo-libanese, persuadendo il governo di Tel Aviv a ritirare il proprio contingente dal Sud del Libano ed entrambe le parti ad accettare una presenza più forte dell’ONU come cuscinetto e come garanzia. 
Ciò detto, vorrei sottolineare un punto cruciale: se vogliamo davvero creare le condizioni per risolvere questo conflitto senza fine, dobbiamo anche capire il punto di vista israeliano. Il popolo ebraico ha potuto, finalmente, trovare una patria, dopo secoli di persecuzioni, culminate nell’Olocausto inflitto dalla Germania nazista. Noi europei conosciamo fin troppo bene questa storia e sentiamo ancora una profonda responsabilità morale per quella tragedia. Soltanto tenendola bene a mente possiamo comprendere l’ossessione per la sicurezza sottesa alla politica e all’ideologia israeliana. 
Dobbiamo rassicurare, assieme al popolo palestinese, il cittadino comune israeliano. Credo che una strategia di pace potrebbe contrastare efficacemente e, nel lungo periodo, finanche sconfiggere, le posizioni più estremistiche che purtroppo oggi sono tanto diffuse da una parte e dall’altra.
Se vogliamo sostenere chi sta lavorando per la pace in Israele, dobbiamo tenere conto dei problemi di sicurezza non del governo di Tel Aviv, ma dei cittadini israeliani. 
Le grandi sfide che ho descritto richiedono un ruolo attivo della Repubblica islamica dell’Iran: un grande Paese, con una popolazione numerosa e istruita, abbondanti riserve di gas e petrolio, un enorme potenziale economico, notevole prestigio politico e uno straordinario patrimonio culturale. 
Vi sono forze che vorrebbero contenere, o addirittura congelare, la sua funzione. Lasciate che vi dica che ciò non è nell’interesse dell’Unione europea e, secondo me, neanche degli Stati Uniti, i quali, dopo l’avventura irachena, temono di rimanere imbrigliati in una nuova crisi o in nuovi conflitti e cercano un ordine più equilibrato nella regione, in un clima di distensione e di sicurezza.
Per le ragioni che ho menzionato e per molte altre che non ho il tempo di affrontare oggi, penso  che i negoziati tra i Paesi del “5+1” e l’Iran, insieme all’accordo siglato a Ginevra alcune settimane fa, siano della massima importanza, nonostante quest’ultimo abbia carattere temporaneo e non affronti la questione nucleare nella sua interezza. Ma ? ripeto ? sono passaggi che segnano una svolta cruciale nelle relazioni con l’Iran, e ciò non solo per i Paesi direttamente coinvolti nel processo negoziale. 
Sono anche convinto che i negoziatori iraniani, la cui abilità diplomatica è ben nota, saranno in grado, nei mesi a venire, di andare avanti con lo stesso mix di risolutezza e flessibilità che ha reso possibile il raggiungimento di un obiettivo che sarebbe sembrato inarrivabile fino a pochi mesi fa, superando gli ostacoli e le divergenze tra le rispettive posizioni di ciascuna delle parti. Spero che ci si possa attendere altrettanto anche dai rappresentanti del “5+1”. 
Il merito di questo notevole risultato, tuttavia, non va soltanto alla diplomazia, nonostante il ruolo essenziale che questa ? lo ribadisco ? ha indubbiamente svolto. Dietro la diplomazia, infatti, vi è sempre la politica, vi sono decisioni politiche. E, in questo caso, scelte politiche hanno reso possibile arrivare a un accordo concreto, dopo dieci anni di negoziati sporadici e in larga parte infruttuosi. 
Indubbiamente, bisogna congratularsi con entrambe le parti negoziali per il successo ottenuto. Dobbiamo anche riconoscere che il governo iraniano insediatosi in seguito all’elezione del presidente Hassan Rohani, oltre ad aver dimostrato notevoli doti negoziali, ha chiaramente provato la propria decisa volontà politica di giungere a un accordo. 
Il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, ha intelligentemente ribadito che i negoziatori di ambo le parti sarebbero potuti giungere a una soluzione sulla base della sola formula possibile, in ottemperanza al Trattato di non proliferazione (TNP). Quella in grado, di combinare robuste garanzie di non proliferazione con il diritto dell’Iran a portare avanti un programma nucleare civile. 
Sarò chiaro: non credo che sia interesse dell’Iran possedere armi nucleari, ma nessuno può contestare il diritto del popolo iraniano ad avere accesso all’energia nucleare per scopi pacifici. Del resto, questo è il fondamento stesso del TNP. 
L’accordo ad interim, quindi, costituisce un primo passo importante verso la creazione di un sistema di monitoraggio efficiente e, prima di tutto, verso l’instaurazione di un clima di fiducia reciproca tra l’Iran e la comunità internazionale. Un clima che ci consentirà di superare la logica del confronto e di includere l’Iran tra i grandi protagonisti della costruzione di un nuovo ordine regionale. 
La portata dei negoziati, infatti, è andata sin dall’inizio ben al di là della pur cruciale questione nucleare. Non ci può essere alcun dubbio sul fatto che il marcato dinamismo iraniano e la sua nuova flessibilità debbano essere considerati nel quadro di una nuova visione delle relazioni internazionali da parte di Teheran e, in particolare, delle priorità del governo, volte a proteggere gli interessi nazionali (dalla sicurezza allo sviluppo economico), sulla base del dialogo e della cooperazione con il resto del mondo. Agli occhi di osservatori esterni, l’Iran sembra determinato a lasciarsi alle spalle le restrizioni associate proprio a questo tema, per entrare in una nuova fase della sua politica estera. 
L’Europa considera questo rinnovato attivismo politico molto promettente, e sono convinto che nuove relazioni, basate sulla cooperazione con la comunità internazionale, aiuterebbero l’Iran a utilizzare il proprio soft power, grazie anche al grande punto di forza costituito dalla sua società civile, la quale, in un clima interno più aperto e tollerante, potrebbe esprimere appieno la propria energia culturale e la propria creatività. 
In particolare, l’Iran potrebbe iniziare a giocare un ruolo positive in Medio Oriente. Naturalmente, non sarà facile superare la storica e radicata diffidenza da parte di molti Stati arabi, che ha origine molto prima della Rivoluzione del 1979. Ma questa diffidenza potrebbe essere alleviata da un nuovo atteggiamento diplomatico, basato sulla cooperazione e sul dialogo, che il governo Rohani sembra incline a mantenere.
Un Iran attivo diplomaticamente, non più isolato, potrebbe dare un grande contributo, grazie ai suoi importanti contatti e alla sua vasta influenza, nel promuovere un nuovo equilibrio regionale. Nelle aree di crisi, potrebbe aiutare le parti in conflitto a passare dallo scontro alla ricerca di compromessi sostenibili, tenendo conto delle richieste, degli interessi e delle preoccupazioni per la sicurezza di tutte le componenti coinvolte, inclusi naturalmente quelli dello stesso Iran. D’altra parte, la memoria del brutale attacco da parte delle forze di Saddam Hussein credo sia ancora molto vivida. 
Mi riferisco soprattutto al prezioso ruolo che Teheran potrebbe giocare nella ricerca di una soluzione diplomatica al sanguinoso conflitto siriano. Dopotutto, non abbiamo dimenticato il contributo essenziale che l’Iran ha dato tra il 2001 e il 2002, quando i talebani furono sconfitti. Fu un segnale molto apprezzato e positivo del ruolo costruttivo che il Paese può avere nella regione, un atto purtroppo vanificato dall’improvvido discorso del presidente George W. Bush sull’“asse del male”. 
In altre parole, un Iran, la cui azione non sia più limitata dalla controversia nucleare, sarà in grado, almeno potenzialmente, di esercitare un impatto positivo per gli sviluppi regionali, dalla Siria all’Afghanistan. Ciò a condizione che utilizzi gli stessi strumenti che ne hanno decretato il successo a Ginevra: mi riferisco in particolare alla ricerca di un gioco a somma positiva, che combinasse la difesa degli interessi nazionali con il perseguimento di soluzioni che potessero essere accettabili per i suoi interlocutori, generando al tempo stesso le condizioni per la stabilità regionale. 
Del resto, un accordo sul nucleare potrebbe spianare la strada a un processo, che – mi rendo conto – non sarebbe né breve né semplice, di graduale denuclearizzazione della regione. Condivido profondamente e sinceramente il grande progetto, ambizioso e forse addirittura utopistico, lanciato nel 2009 dal presidente americano Barack Obama. Un progetto che punta alla realizzazione di un mondo libero dalla minaccia nucleare. Una nuova cornice di pace e cooperazione, di cui questo patto potrebbe costituire il primo passo. 
Come ho detto poc’anzi, l’irrisolto conflitto israelo-palestinese rimane, a mio parere, la più complessa delle crisi che fanno del Medio Oriente un’area così instabile. La posizione del governo iraniano in materia è nota a tutti e si basa sulla creazione di un singolo Stato multinazionale. Tuttavia, in quella proposta di apertura dei negoziati, inoltrata a Washington nel 2003, alla quale gli Stati Uniti, come si sa, non risposero, Teheran appariva pronta a discutere la cosiddetta iniziativa saudita, che portava avanti l’approccio dei due Stati. Inoltre, in molte occasioni l’Iran ha affermato la propria determinazione a sostenere “qualunque accordo sia accettabile per i palestinesi”. Credo che essa debba essere riaffermata nella nuova fase attuale, come un’importante premessa a un dialogo difficile, ma essenziale.  
Tornando alla questione nucleare, vi sono ragioni di ottimismo in seguito all’incoraggiante risultato ottenuto a Ginevra il mese scorso, ma ritengo, a maggior ragione dopo la recente polemica sulle nuove sanzioni, che dovremmo mantenere una certa cautela. L’accordo, infatti, potrebbe certamente avere effetti positivi, anche se soltanto nel settore nucleare. Ma tali effetti dipenderanno dalla transizione dell’accordo stesso verso un patto definitivo, nei sei mesi stabiliti a Ginevra. Non possiamo fingere che questi sei mesi non richiedano un impegno rinnovato nel negoziato e, soprattutto, nel preservare le buone intenzioni che hanno finora guidato entrambe le parti.   
Oltretutto, non dobbiamo dimenticare che sia l’accordo di Ginevra sia, più in generale, il pieno ritorno dell’Iran nel mercato globale e nella comunità internazionale scatenano non poca avversione e sospetto. Chi crede nell’importanza del processo avviato dovrà provare la propria abilità, aggirando i tentativi degli oppositori, che certo non mancheranno, di contrastare con ogni mezzo questo cammino verso la normalizzazione. 
Il capitolo delle sanzioni rimarrà sul tavolo come uno tra i più pesanti e delicati. Possiamo già vederlo. La mia opinione è che si dovrà affrontare un percorso graduale, a causa dei complessi meccanismi legali che regolano la questione. Vale la pena sottolineare, tuttavia, che numerosi Paesi, nel rompere le proprie relazioni economiche con Teheran, sono andati molto oltre la mera adozione delle sanzioni, imponendosi una sorta di auto-restrizione in risposta a pressioni politiche. Queste restrizioni dovrebbero essere rimosse immediatamente. 
Guardando al mio Paese, le aziende italiane che sono state tradizionalmente attive nel commercio con l’Iran ed erano solite investirvi, sono pronte, dopo una lunga assenza, a impegnarsi per un rilancio della loro presenza, sicure come sono dell’importanza e del potenziale di Teheran come partner economico. Quindi, il nostro interesse per il successo di Ginevra non è solo politico, ma anche economico. Grazie ad esso, sarà possibile una cooperazione anche in altre aree, dal settore culturale, così importante in un Paese con un patrimonio tanto significativo, a quello scientifico, fino alla dimensione umanitaria. Mi riferisco, ad esempio, alla cooperazione nella lotta al narcotraffico. 
Parecchio rimane ancora da fare. Come ho detto precedentemente, molto dipenderà dalla buona volontà delle parti coinvolte. Certamente, le relazioni con gli Stati Uniti, non solo sulla questione nucleare, sono di particolare importanza. So bene, infatti, che l’accordo ottenuto a Ginevra è in gran parte dovuto alla convergenza tra le priorità e gli interessi del presidente Obama e del presidente Rohani. 
I recenti tentativi, da parte del Senato americano, di introdurre nuove sanzioni, nonostante i vari avvertimenti che ciò possa indurre l’Iran a lasciare il tavolo dei negoziati, non dovrebbero spingere il governo di Teheran ad arrendersi. Certo, è necessaria molta cautela, ma confido nell’impegno dell’Amministrazione Obama per il raggiungimento di un accordo finale, a dispetto degli ostacoli e dell’opposizione presenti negli USA.
Vorrei anche sottolineare il ruolo giocato dall’Unione europea, che non è stato affatto trascurabile: la presidenza del “5+1” esercitata da Lady Ashton non è stata simbolica, ma cruciale. 
L’UE nel suo insieme e gli Stati membri individualmente sono pronti a impegnarsi con l’Iran in tutti i campi possibili e a creare le condizioni per coinvolgerlo nella ricerca di soluzioni ai numerosi conflitti e tensioni che sconvolgono il Medio Oriente, dalla Siria all’Afghanistan. E l’Italia, le cui relazioni con l’Iran hanno ormai una lunga storia, è in prima linea. 
A questo proposito, vorrei ricordarvi l’importante proposta, da parte del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, di includere l’Iran nei negoziati di pace sulla Siria. 
Lasciatemi concludere dicendo che la novità del governo del presidente Rohani non si limita, per quanto mi riguarda, alla sola politica estera. Credo, infatti, che l’attuale leadership abbia una visione complessiva, che comprende stimoli all’economia, coesione sociale, ampia convergenza politica e attenzione per le giovani generazioni. 
Un miglioramento concreto delle relazioni tra Iran e resto del mondo, a cominciare dalla questione nucleare, ma andando anche oltre, è strettamente legato alla prospettiva di un cambiamento interno. Questo sia per l’ovvia correlazione tra l’economia e le relazioni internazionali, sia da un punto di vista politico. E’ difficile, infatti, innescare un processo di crescita sociale e civile in un clima di tensione e isolamento.
Per tutte queste ragioni, sono sicuro che l’UE, e naturalmente l’Italia, saranno in grado di offrire il proprio supporto promuovendo relazioni economiche più strette e fornendo gli incentivi politici e diplomatici necessari a incoraggiare il dialogo che è stato recentemente lanciato. E sono convinto che l’Unione manterrà la sua promessa e che, a partire da gennaio, le sanzioni saranno progressivamente ridotte.  
Noi progressisti siamo impegnati, anche in vista delle elezioni europee del 2014, a promuovere una ripresa economica dell’Europa, la costruzione di un’Unione più vicina ai cittadini, la messa in campo di politiche volte alla crescita e all’occupazione, invece che all’austerità. Ma, soprattutto, vogliamo un’Europa che agisca come un attore globale. Non l’Europa rinchiusa in se stessa, come purtroppo abbiamo visto a volte negli ultimi anni. L’accordo con l’Iran è un banco di prova cruciale per un nuovo corso nel nostro continente e per questo considero molto importante l’iniziativa di oggi.

Grazie.

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