Discorso
8 novembre 2014

25 anni dopo: le nuove sfide per la pace e la sicurezza.

Intervento di Massimo D’Alema - Annual Conference on Cultural Diplomacy 2014 - “A World without Walls”: Opportunities for Peace Building in a Time of Global Insecurity - Berlino


Sono trascorsi 25 anni da quella notte straordinaria del 9 novembre 1989, quando crollò il Muro di Berlino. Tutti ricordiamo le immagini dei giovani che rimuovevano le macerie di quella barriera che era stata il simbolo della divisione della Germania, dell’Europa e del mondo.


Una notte di speranza e di grande emozione: crollavano le dittature che avevano oppresso una parte così grande dell’Europa; finiva quell’equilibrio del terrore che aveva dominato il mondo per quasi 50 anni, intimorito di fronte alla minaccia di arsenali nucleari che avrebbero potuto distruggere più volte il pianeta in cui viviamo. Si guardava al futuro con fiducia. Vi era la convinzione che si sarebbe aperta un’epoca di pace, di espansione della democrazia e delle libertà, di prosperità e di benessere condiviso.


È difficile non rendere omaggio in questo momento a Michail S. Gorbaciov, che di quella grande svolta storica fu forse il più straordinario protagonista. Mi è capitato, molti anni fa, di cenare con lui, sua moglie Raissa e mia moglie, e di conversare della sua esperienza e delle sue scelte che hanno segnato la storia del mondo. Era molto preoccupato e critico della condizione del suo Paese e io gli domandai, in modo un po’ provocatorio, se, considerando questi esiti, egli non fosse pentito della scelta compiuta e del contributo determinante che aveva dato alla caduta delle dittature comuniste.


Egli mi rispose con molta serietà: “Quel mondo andava abbattuto. Esso rappresentava un danno enorme innanzitutto per noi, che crediamo nei valori della sinistra, perché essa finiva con identificarli con la realtà della dittatura, dell’ottusità burocratica e della stagnazione economica. Innanzitutto per noi e per i nostri valori quella fu una notte di liberazione e un nuovo inizio.”


Tutto questo resta certamente vero e le preoccupazioni vivissime del mondo di oggi non possono in nessun caso generare la nostalgia del mondo che fu.


Eppure è difficile negare che la realtà internazionale si sia evoluta in modo assai diverso rispetto a quello che avevamo immaginato e sperato.


La democrazia certamente ha allargato i suoi confini. Anzitutto in Europa, dove la fine della Guerra Fredda ha consentito la riunificazione non solo della Germania, ma anche di gran parte dell’Europa nella Unione Europea intorno ai valori di libertà e di democrazia, che sono costitutivi della nostra unione. Ma una evoluzione positiva si è prodotta anche in altre parti del mondo: in America Latina è finito il tempo delle dittature militari che avevano non di rado trovato negli Stati Uniti un sostegno in chiave anticomunista.


Pure tra molte contraddizioni, il continente asiatico è diventato un possente protagonista del nuovo mondo ed è stato a lungo la forza propulsiva più straordinaria della crescita economica.


Persino il risveglio del mondo arabo, sia pure con i suoi esiti contraddittori, è apparso come un’eco lontana dell’89 e delle speranze che aveva suscitato.


Malgrado questi progressi, però, nessuno potrebbe dire che quella promessa di pace e di prosperità sia stata mantenuta. Il mondo è stato colpito da una grave crisi economica da cui, soprattutto in Occidente e in Europa,  si fatica a trovare una via d’uscita. Una globalizzazione dominata dalla finanza e sostanzialmente svincolata da ogni regola ha certamente allargato il campo dei protagonisti e delle opportunità, ma ha anche creato squilibri, instabilità e diseguaglianze crescenti al punto da lacerare il tessuto sociale anche nei paesi più avanzati e ricchi.


L’evoluzione del dopo ’89 è stata segnata da conflitti sanguinosi. Persino nel cuore dell’Europa, nella ex Yugoslavia, si è consumata la tragedia di una lunga guerra civile che ha frantumato il paese e lasciato sul campo diverse centinaia di migliaia di morti.


 Ad Est l’Europa allargata non ha trovato una soluzione al delicato problema del rapporto con la Russia. La Russia ha percepito l’espansione dell’Unione Europea e della Nato verso i suoi confini come una crescente minaccia; l’Occidente appare impaurito dal ritorno di un nazionalismo russo che appare carico di aspirazioni imperiali e di sogni di rivincita. La crisi ucraina è lì a testimoniare del rischio di una nuova frattura in Europa, di una nuova Guerra Fredda.


Il ritorno dei nazionalismi e un clima di tensione investono anche il continente asiatico: pensiamo alle dispute tra la Cina e il Giappone, o ai pericoli nella penisola coreana.


Ma, soprattutto, è l’insorgere del fondamentalismo islamico e il rafforzarsi delle sue componenti più violente, estremiste e terroriste lungo tutto l’arco che dall’Asia Centrale giunge fino all’Africa del Nord, a rappresentare la minaccia più grave.Una minaccia che, dopo l’attacco alle Twin Towers, è apparsa come globale.


Viene da pensare che la divisione del mondo in due e l’equilibrio militare tra il blocco sovietico e la Nato, pure con i suoi rischi terribili, rappresentasse tuttavia una forma di ordine del mondo. Finito quell’ordine, abbiamo assistito a una crescita caotica dei conflitti  e delle minacce. Minacce che, appunto, vengono definite asimmetriche proprio perché assai meno prevedibili rispetto al passato, con l’effetto di ridurre la possibilità di prevenirle e con la conseguenza del diffondersi di un sentimento di paura .


In realtà, credo che ciò che abbiamo misurato nel corso di questo quarto di secolo sia stata la caduta di una illusione. L’dea ,cioè, che il crollo del comunismo e la vittoria dell’Occidente e degli Stati Uniti aprissero la strada ad una omologazione progressiva in ogni parte del mondo al modello occidentale e americano, intesa non solo come affermazione della democrazia, ma anche come piena affermazione di una economia di mercato che via via emarginava il ruolo dello Stato e delle istituzioni, promuovendo la crescita di una concezione individualistica della vita e del benessere.


Si scrisse, allora, che era finita la storia e cioè che nel modello del capitalismo occidentale si riassumeva il punto più elevato della civiltà umana a cui tutti si sarebbero uniformati, ponendo fine ai conflitti e alle spinte al cambiamento.


Le cose non sono andate così. Al contrario, proprio il timore della omologazione ha suscitato reazioni e ha fatto emergere nuove linee di frattura. Non più di carattere ideologico, come nel secolo scorso, ma di carattere nazionalistico, etnico e religioso. In diverse parti del mondo si sono risvegliati integralismi che apparivano sepolti nei secoli passati o sono emerse spinte al fanatismo dall’interno di movimenti religiosi che, come l’islam, avevano invece una tradizione di tolleranza e di convivenza.


L’Occidente, che comprensibilmente si è sentito progressivamente sotto il peso di una minaccia nuova, inquietante e imprevedibile, ha spesso reagito chiudendosi in sé stesso e alimentando nel suo seno spinte populiste e chiusure xenofobe. 


Ciò cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi 25 anni è stato un processo di deterioramento delle relazioni internazionali. Dapprima ha prevalso l’illusione, coltivata soprattutto dagli ambienti neoconservatori americani, che si potesse passare dall’ordine bipolare ad un ordine basato sul dominio unipolare e incontrastato degli Stati Uniti. Il culmine è stato toccato con la guerra in Iraq e con la teorizzazione della esportazione della democrazia occidentale con la forza delle armi.


Questa stagione si è chiusa con un fallimento. In realtà ha portato ad un accrescimento della diffidenza e dell’odio verso l’Occidente, in particolare in quella parte del mondo (come gran parte del mondo arabo), che si è sentita emarginata dai grandi processi della globalizzazione economica e che meno ha goduto dei vantaggi e dei risultati che la globalizzazione ha portato con sé.


L’avvento di Obama alla guida degli Stati Uniti d’America ha rappresentato la presa d’atto della necessità di un cambiamento profondo. Ma abbiamo misurato in questi anni quanto è difficile creare le condizioni di un multilateralismo efficace.


Anzitutto perché sono apparse invecchiate e inadeguate le vecchie istituzioni, le vecchie strutture, le vecchie gerarchie. Il G8 da una parte e lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’altra, rappresentano largamente equilibri ormai superati e dunque appaiono organismi privi di legittimazione e di efficacia, non in grado di arginare la tendenza pericolosa verso un multipolarismo conflittuale, confuso e non governato.


In un bel saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Foreign  Affairs, “The Unraveling. How to Respond to a Disordered World”, Richard N. Haas affronta il tema di un rilancio su nuove basi della leadership americana. Naturalmente questo comporta, da una parte, la correzione degli errori che hanno indebolito il prestigio e la credibilità degli Stati Uniti e, dall’altra, la necessità di una politica inclusiva, capace di coinvolgere la responsabilità dei partners tradizionali e di nuovi partners.


In questo senso,  avverto il peso della debolezza dell’Europa, che ha rappresentato davvero una spina nel fianco della politica di Obama. Egli parla del fatto che “Europe’s parochialism and military weakness may make the region a poor partner for the United States in global affairs”. È un giudizio severo, ma non privo di fondamento, se pensiamo all’Europa di questi anni ripiegata su sé stessa e sulla sua crisi interna e spesso incapace di dispiegare in modo unitario il suo ruolo potenziale di grande claire sulla scena globale.


Sono certamente convinto che un nuovo ordine del mondo non possa prescindere da un ruolo primario degli Stati Uniti d’America: The Indispensable Nation, come Magdalene Allbright definì il suo paese. Ma penso anche che questo non sia più sufficiente e che al limite questa condizione risulti essere anche pesantemente costosa e rischiosa per gli Stati Uniti, al punto di suscitare nella società americana resistenze crescenti rispetto all’assunzione di nuove responsabilità internazionali e spinte ad un ritorno a quell’isolazionismo che da sempre ha rappresentato una delle tendenze di fondo della politica negli USA.


Un nuovo ordine mondiale ha dunque bisogno dell’impegno multilaterale di una pluralità di Stati e di istituzioni. Non può, ad esempio, prescindere da un rilancio del ruolo delle Nazioni Unite anche attraverso coraggiose riforme che ne rafforzino la legittimità e la capacità di agire. Non può prescindere da un sistema di regole e di principi generalmente accettati e da tutti rispettati senza doppi standard che non appaiono più tollerabili e che generano soltanto rancore e delegittimazione.


È difficile, per esempio, che mentre gli ucraini che difendono l’integrità del loro territorio sono considerati da noi dei patrioti e vengono sostenuti in ogni modo, i palestinesi che si ribellano all’annessione illegale e forzata di Gerusalemme e alla occupazione della West Bank vengano spesso considerati come dei terroristi. Insomma, le regole devono valere per tutti e non possono essere considerate un optional per gli amici dell’Occidente ed un obbligo da imporre attraverso la forza e le sanzioni per quelli che non ci stanno simpatici. Altrimenti, non meravigliamoci se nel mondo continuerà ad esserci caos e se intorno a noi si ridurrà sempre di più il consenso e la credibilità.


Se il secolo scorso (il Secolo breve) ha sofferto in modo terribile per il peso eccessivo della politica e delle ideologie e per la ipertrofia degli Stati, i venticinque anni che abbiamo alle spalle ci hanno fatto assistere, al contrario, ad una inquietante e dannosa eclisse della politica e della sua capacità di regolare l’economia e le relazioni internazionali.


E questa è la sfida di fronte alla quale noi ci troviamo: su quali fondamenta restituire alla politica la sua capacità di guidare i processi e di regolarli sulla base del diritto, il che non esclude il ricorso, in casi estremi, all’uso della forza. Ma la forza deve essere al servizio della legge internazionale e di una visione politica della soluzione dei conflitti, non può sostituirsi a tutto ciò salvo il rischio di alimentare pericolose illusioni di cui abbiamo misurato gli esiti negativi nel corso di questi anni.


Potrebbe apparire utopistica questa idea di relazioni internazionali governate da istituzioni politiche e regolate dal rispetto di principi condivisi e di valori di civiltà e di protezione dei diritti umani. Volendosi riferire a due grandi filosofi tedeschi, si potrebbe dire che il mondo dovrebbe tornare da Karl Schmitt ad Emanuele Kant, il che, a dispetto della cronologia, sarebbe un passo verso il futuro e non verso il passato. A quali condizioni si può muovere in questa direzione, pure nella realistica consapevolezza che non può che trattarsi di un processo lungo e graduale?


Voglio sommariamente indicarne due.


La prima è certamente una riforma complessiva in grado di rivitalizzare le istituzioni internazionali e la loro capacità di deliberare. Ciò vale certamente anche per le istituzioni economiche e finanziarie, nelle quali si nota tuttavia già una evoluzione positiva attraverso una crescente assunzione di responsabilità da parte di paesi che rappresentano le economie emergenti.


Ma vale soprattutto per il sistema delle Nazioni Unite a cominciare dallo stesso Consiglio di Sicurezza, che appare, invece, rappresentativo di una realtà mondiale che non esiste più e troppo spesso paralizzato da veti contrapposti che finiscono per ridurre la maggiore istituzione mondiale all’impotenza e ne diminuiscono la credibilità. Sappiamo da quanti anni si trascina una discussione e si accavallano proposte per una riforma delle Nazioni Unite. Ma questa dovrebbe davvero diventare, oggi, una priorità per chi si rende conto che non ci si può più affidare ad una pura logica di potenza, per chi capisce che occorre creare argini alla crescita del disordine del mondo.


La seconda condizione ci riguarda ancora più da vicino, perché investe il ruolo dell’Europa e la capacità della nostra Unione Europea di diventare un attore politico in grado di integrare in una visione condivisa e in un’azione comune i diversi paesi europei, a cominciare da quelli più grandi e che hanno maggior rilievo sulla scena mondiale.


L’Europa, in questi ultimi anni, è apparsa spesso ripiegata su sé stessa, chiusa in un dibattito talora affannoso sui temi della crisi economica, sociale e finanziaria, attraversata da paure e da spinte nazionaliste e populiste.


Bisogna scrollarsi di dosso questi sentimenti negativi, dobbiamo riprendere fiducia in noi stessi e nel ruolo cui siamo chiamati in ragione della nostra storia e dei nostri valori fondativi.


Ciò, naturalmente, comporta un dialogo ed una collaborazione con molti altri protagonisti e, innanzitutto, con gli Stati uniti d’America, ma anche la capacità dell’Europa di esercitare un condizionamento e di guidare i processi politici in particolare in questa parte di mondo che ci riguarda più da vicino.


Penso, innanzitutto, alla complessa vicenda dei rapporti con la Russia. Io non ho alcuna simpatia verso le spinte autoritarie che caratterizzano la Russia di Putin né verso un nazionalismo aggressivo e carico di nostalgie imperiali che sembra oggi caratterizzare almeno in parte la politica estera di quel grande paese. Condivido la necessità di difendere l’integrità dell’Ucraina e capisco le ragioni che hanno spinto anche l’Unione Europea alla difficile decisione di porre in atto sanzioni economiche contro la Russia.


Ma dobbiamo domandarci se noi davvero abbiamo fatto tutto il possibile per evitare di alimentare in Russia i sentimenti antioccidentali e i timori che ispirano la politica attuale di Putin. La Russia, in questi anni, ha avvertito un atteggiamento che in molti casi ha teso ad emarginarla dalle decisioni importanti, umiliandone il ruolo di grande potenza. La Russia ha percepito l’allargamento dell’Unione Europea e della Nato fino ad arrivare al ridosso dei suoi confini come una politica minacciosa e volta ad un suo progressivo isolamento. 


Non c’è, in questo, anche una qualche nostra responsabilità? Non mi riferisco soltanto alla vicenda del cosiddetto scudo antimissile, che alla fine gli americani hanno preferito accantonare. Mi riferisco anche allo scarso funzionamento del Consiglio Nato-Russia e, più in generale, degli strumenti della cosiddetta Partnership For Peace. Mi riferisco alla decisione un po’ affrettata di non prendere in considerazione la proposta russa di una nuova conferenza per la sicurezza in Europa.


Oggi siamo alle prese con la crisi ucraina. Ma proprio mentre più aspra appare la contrapposizione, abbiamo il dovere di tenere aperta la possibilità di una soluzione politica e diplomatica. Abbiamo il dovere di non incoraggiare il nazionalismo ucraino e i sentimenti antirussi di cui si alimenta.


Una soluzione politica e diplomatica significa garantire i diritti della assai numerosa minoranza russa che vive in ucraina e, nello stesso tempo, prendere atto che non è ragionevole pensare che l’Ucraina possa divenire membro dell’Unione Europea o della Nato, ma deve rimanere un paese aperto alla collaborazione verso l’Ovest e verso l’Est.


L’altra grande sfida di fronte alla quale l’Europa si trova – forse la più impegnativa e difficile – riguarda il rapporto con ciò che avviene a sud del Mediterraneo e, in particolare, con il mondo arabo ed islamico nelle sue diverse componenti e realtà.


Tutti noi abbiamo simpatizzato per la Primavera Araba, anche se con una certa superficialità ci siamo illusi che potessero facilmente nascere in quella parte del mondo democrazie di tipo occidentale, pensando che quelle minoranze, che vedevamo in piazza Tahir fotografare le manifestazioni con gli i-phone, rappresentassero l’insieme del popolo egiziano e dei suoi orientamenti profondi.


Abbiamo sostenuto un processo tumultuoso di cambiamento ed anche di vera e propria destabilizzazione, senza avere alcuna idea di come contribuire a costruire una nuova stabilità. Abbiamo finito per apparire incerti e contraddittori: abbiamo salutato le libere elezioni in Egitto e, pochi mesi dopo, legittimato il colpo di stato militare e la messa al bando del partito che quelle elezioni aveva vinto.


Tutto questo denota una scarsa comprensione della complessità di quella realtà e una pericolosa assenza di visione strategica. In fondo, non dovremmo dimenticare che le democrazie nelle quali viviamo – che pure appaiono anch’esse minacciate da nuove forme di intolleranza e di populismo – sono il frutto di un lungo processo storico e di una evoluzione culturale che difficilmente può essere sostituita dalla rozzezza degli interventi militari e dalle illusioni sulle capacità seduttive del modello occidentale.


Oggi la grande priorità ci appare quella di arginare il fanatismo ed in particolare ciò che si esprime nelle forme più barbare, violente e terroriste. Far vincere un’idea di convivenza e di tolleranza religiosa è un obiettivo già di per sé molto difficile ed appare una precondizione indispensabile perché si possa pensare, poi, alla democrazia.


Ma se l’avversario principale è il fanatismo dell’Isis o di Al Qaida, allora occorre un’azione politica intelligente ed un dialogo aperto con tutte le altre componenti del mondo arabo e islamico per isolare e sconfiggere la nuova barbarie che abbiamo visto venire alla luce in modo così crudo e inquietante.


Per quanto tempo l’Occidente non si è preoccupato per nulla dei diritti nazionali e dei diritti umani dei curdi? Eppure oggi sono i curdi a rappresentare la resistenza più coraggiosa all’avanzata sanguinaria del nuovo califfato.


Non ho particolari simpatie verso il regime iraniano, ma mi sembra difficile che possa esservi davvero stabilità nella regione – penso in particolare all’Afghanistan o all’Iraq – senza trovare un accordo con l’Iran sulla questione nucleare che ponga fine all’isolamento di quel paese.


Se vogliamo evitare che anche tra i palestinesi metta radici il nuovo fondamentalismo religioso in forme ancora più inquietanti di quanto non sia già avvenuto, allora bisogna agire con determinazione per sostenere la leadership moderata e per aprire in modo accelerato la strada alla creazione di uno Stato palestinese anche attraverso l’esercizio di una pressione più forte della comunità internazionale, per vincere le chiusure e l’oltranzismo dell’attuale leadership israeliana.


Potrei continuare, ma credo che si sia compreso che ciò di cui si avverte la necessità è un’azione politica coraggiosa e coerente, non viziata da pregiudizi e dall’applicazione di doppi standard che renda l’Europa protagonista di un processo di stabilizzazione in questa regione cruciale del mondo, così importante anche per la nostra economia e per la nostra sicurezza.


 Torno così a quelle promesse di pace e di prosperità che la caduta del Muro aveva portato con sé alimentando la speranza di un’epoca migliore non solo nel cuore dell’Europa, ma per l’umanità intera. Questa speranza non si è realizzata spontaneamente, come ingenuamente avremmo potuto pensare venticinque anni fa.


Ma gli obiettivi della pace, della convivenza e della prosperità, della piena affermazione dei diritti delle persone son obiettivi ai quali non dobbiamo e non vogliamo rinunciare nella consapevolezza che essi potranno essere raggiunti solo attraverso un rinnovato e intelligente impegno politico.


D’altro canto, la stessa caduta del Muro fu possibile grazie al coraggio e all’intelligenza della politica e il motore della storia non è rappresentato dalle illusioni ideologiche ma dalla volontà delle donne e degli uomini.

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