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7 luglio 2015

Grecia: una via progressista per uscire dalla crisi

Dal libro “Non solo euro”


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Negli ultimi giorni della crisi greca sono tornate alla ribalta le diverse, e talvolta contrastanti, proposte su come affrontare e superare la drammatica fase che sta vivendo l’Europa. Mi fa piacere riproporre alcune riflessioni tratte dal mio ultimo libro, che ho scritto alla vigilia delle scorse elezioni europee, “Non solo euro” (Rubbettino, 2014).


I temi trattati nel testo sono, oggi più che mai, al centro del dibattito europeo, in particolare il capitolo 2, “Oltre l’austerità”. Qui di seguito alcuni stralci.


[…]



Ripensare le politiche economiche e l’architettura della governance


Questa breve analisi dei dati economici mostra chiaramente che l’Europa non è stata in grado di tornare ai livelli di crescita verificatisi prima della crisi, a differenza di quello che sta accadendo in altre parti del mondo, compresi gli Stati Uniti. Le politiche di austerità hanno una doppia responsabilità: da un lato, hanno reso più arduo e costoso il superamento della crisi del debito e della crescita in Europa. [1] Dall’altro, non sono riuscite in alcun modo a rimuovere le debolezze strutturali che hanno reso relativamente fiacca la crescita europea, anche prima del 2007-2008.


È evidente, dopo sei anni di crisi, che occorre un serio ripensamento delle politiche economiche europee e della stessa architettura istituzionale della governance dell’area dell’euro. Senza una effettiva solidarietà nell’affrontare la crisi del debito e senza un programma di investimenti pubblici e privati a livello europeo e nazionale, sarà impossibile riportare l’Europa lungo un cammino di sviluppo e di solidarietà, in grado di favorire una crescita sostenibile, la creazione di lavoro, la riduzione delle diseguaglianze sociali in ogni parte del continente. Sappiamo che la crisi è anche effetto della globalizzazione e delle sfide che essa ha posto all’Europa. Ma è indubbio che la risposta offerta nel corso di questi anni, sotto il peso di un’egemonia culturale neoliberista e di un predominio politico conservatore, è stata del tutto inadeguata e ha reso per molti aspetti più insostenibile e drammatica la crisi stessa.


[…]



Fisco e lavoro: un’armonizzazione necessaria


Per tutte queste ragioni, è necessario voltare pagina. È evidente, infatti, che la nascita della moneta unica si sarebbe dovuta accompagnare alla creazione di una efficace governance economica comune, in grado di armonizzare le politiche fiscali, le politiche per il lavoro e quelle per la crescita, e in grado di disporre degli strumenti per ridurre gli squilibri tra aree con diversi livelli di produttività all’interno della Moneta unica europea. Tutto questo è sin qui mancato.


L’effetto è stato quello di spostare la pressione del riaggiustamento economico sul mercato del lavoro[2]. Il lavoro ha perso terreno nei confronti del capitale, per via del profondo indebolimento delle politiche salariali e dell’occupazione[3]. L’eurozona è sprofondata in una corsa al ribasso verso la flessibilità e la compressione dei salari, come unica via per guadagnare produttività, in assenza di forti investimenti per la ricerca e l’innovazione. Ad aggravare queste politiche recessive, si è aggiunta la crescente iniquità delle politiche fiscali: nei Paesi dell’Unione, in media, attualmente, le imposte sui profitti e sui redditi non da lavoro ammontano a circa il 15% del pil, mentre le imposte sulle retribuzioni pesano per oltre il 20%. Senza contare l’estrema facilità con cui, in un regime di libera circolazione dei capitali, è possibile evadere o eludere il fisco per i proprietari di grandi patrimoni.


È chiaro che la crisi ha reso esplosiva questa situazione, portando l’euro sull’orlo di un collasso e provocando una lacerazione profonda dei vincoli di solidarie tà all’interno dell’Unione. Si è ora aperta una fase nuova, nella quale la necessità di un più forte coordinamento si fa strada, anche fra i teorici più radicali del dogma neoliberista. Tuttavia, senza una radicale svolta politica, anche i timidi passi che sono stati intrapresi rischiano di non riuscire a invertire la tendenza alla stagnazione, alla disoccupazione e all’impoverimento del mondo del lavoro.


 



Le riforme strutturali


Abbiamo constatato che il binomio austerità/riforme strutturali non funziona. Non soltanto perché una politica così improntata non ha promosso né crescita né occupazione, ma persino perché, nonostante i tagli alla spesa e l’aumento della tassazione, il deficit pubblico è solo marginalmente migliorato, mentre il debito pubblico è aumentato ancora. Insomma, senza crescita non è perseguibile seriamente né l’obiettivo del risanamento delle finanze pubbliche né quello dell’abbattimento del debito.


Prendiamo il tema fondamentale delle riforme strutturali. Dobbiamo liberarci dall’ossessione secondo cui la vera riforma necessaria è esclusivamente quella che garantisce, in definitiva, una maggiore precarietà del lavoro e un contenimento dei salari. Sotto questo profilo, siamo già andati oltre il livello di sostenibilità sociale in Paesi che hanno una tradizione democratica e di solidarietà, come quelli europei. Ciò non toglie che le riforme siano necessarie.

Se penso all’Italia, ad esempio, vi sono riforme non più rinviabili. Le priorità riguardano direttamente il sistema politico, di cui bisogna abbassare i costi, aumentare la trasparenza e la rapidità decisionale; la pubblica amministrazione, di cui bisogna ridurre la macchinosità e accrescere l’efficienza; la giustizia, che deve offrire maggiori certezze ai cittadini e alle imprese.


Altra questione cruciale è la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, e la necessità di varare misure che vadano nel senso di un riequilibrio della fiscalità a favore del lavoro e delle imprese, spostandone in parte il peso sulle rendite e sui patrimoni. Ecco, dunque, alcuni temi di intervento per riforme strutturali di cui si parla poco, ma che certamente aiuterebbero la crescita.


Più in generale, sono convinto che sia molto difficile pensare a una ripresa economica sostenuta, in grado di avere effetti significativi sull’occupazione, se non si introducono alcuni cambiamenti rilevanti nelle scelte politiche e nei meccanismi di funzionamento dell’Ue.


 


La mutualizzazione del debito


Innanzitutto, è indispensabile affrontare la questione della mutualizzazione del debito. In questo senso, credo che la proposta più seria in campo sia quella avanzata dal Consiglio tedesco degli esperti economici, che prevede l’istituzione di un Debt Redemption Fund. Esso consiste nella temporanea messa in comune del debito eccedente il 60% del pil e in un rimborso graduale lungo un periodo di 25 anni. Occorrerebbero circa 5 anni per mettere progressivamente in piedi il fondo comune[4] con il concorso dei Paesi indebitati. È evidente – per essere chiari – che non si tratta di un sistema per far pagare i nostri debiti agli altri. Ciascun Paese, infatti, rimarrebbe responsabile per la propria quota di debito e sarebbero previsti adeguati meccanismi di compensazione per i Paesi più ricchi, che garantiranno, agli occhi degli investitori, la solvibilità dell’intero fondo. Si tratta, piuttosto, di pagare il debito a tassi di interesse più bassi, abbattendo gli spread, contrastando così la speculazione finanziaria e liberando risorse aggiuntive per gli investimenti.

 


Un programma europeo di investimenti


È la ripresa degli investimenti, infatti, la condizione essenziale per la crescita, che si può ottenere anzitutto sviluppando una capacità propria di spesa dell’Ue su questo fronte. La raccomandazione principale a livello europeo è che la dotazione del bilancio dell’Unione venga aumentata gradualmente, sino a raggiungere un più efficace 4% del pil entro il 2020[5]. Ciò consentirebbe un trasferimento significativo di risorse verso i Paesi maggiormente in difficoltà e permetterebbe di agire sulle asimmetrie strutturali di fondo dell’Unione monetaria. Asimmetrie che si riflettono inevitabilmente sulla capacità di competere dei singoli Paesi e, quindi, in ultima istanza, sulla situazione dei loro conti con l’estero.


Un programma europeo di investimenti può essere finanziato anche attraverso quella tassazione sulle transazioni finanziarie, a favore della quale si sono pronunciati il Parlamento e la Commissione europei. Come pure sarebbe possibile, nel quadro di una politica comune di tutela dell’ambiente, introdurre una tassa sulle emissioni di CO2.


Una politica di investimenti significa, inoltre, consentire una rinnovata capacità dei Paesi membri di sostenere, attraverso l’azione pubblica, politiche di sviluppo, istruzione e ricerca. A questo fine, si impone una interpretazione intelligente e innovativa delle regole della stabilità, distinguendo tra la spesa pubblica corrente e la spesa per gli investimenti. È, d’altro canto, evidente che gli investimenti, promuovendo la crescita e il lavoro, generano nuove possibilità di entrate per lo Stato e, quindi, gli effetti ai fini del risanamento finanziario nel medio periodo non possono essere considerati sullo stesso piano della spesa corrente. Se si vuole uscire dalla stagnazione, non si può prescindere dall’applicazione della cosiddetta Golden rule. Oltretutto, questa mancata distinzione tra spesa e investimenti produce l’effetto perverso di spingere i governi nazionali, per uniformarsi al famoso criterio del 3%, a tagliare gli investimenti, il che è certamente più facile che non comprimere la spesa.


Accanto all’aumento del bilancio dell’Unione e all’allargamento dei margini di manovra per i governi nazionali, è altresì indispensabile un ripensamento del ruolo dei fondi strutturali, per riorientarli in maniera più efficiente verso la crescita e l’occupazione. Un esempio positivo della riallocazione di fondi comunitari verso attività che stimolino la creazione di lavoro è rappresentata dalla Youth Guarantee, lo Schema di garanzia giovani, introdotto dall’Unione nell’aprile 2013. Questo programma, per il quale si è battuto, tra gli altri, il governo italiano, impegna Bruxelles a garantire che tutti i giovani sotto i 25 anni ottengano una offerta concreta di impiego di buona qualità entro 4 mesi dall’uscita dal percorso di istruzione. Il bilancio Ue assegna fondi per incentivare tale prospettiva e richiede l’istituzione di contributi nazionali. Si tratta di un passo, anche se timido, nella giusta direzione. Si stima che siano disponibili sino a 80 miliardi di euro per sostenere più in generale progetti volti alla creazione di nuove opportunità di lavoro[6].


Per ottenere un simile obiettivo, è necessaria una maggiore flessibilità da parte delle amministrazioni nazionali e di quella comunitaria, ma anche un riordino mirato dei fondi verso progetti in aree innovative, quali l’efficienza energetica e le energie rinnovabili, o la promozione dell’innovazione a sostegno delle piccole e medie imprese europee. Tutto ciò anche allo scopo di sostenere una maggiore produttività del lavoro e una più elevata competitività del nostro sistema economico e industriale.







[1]S. Griffith-Jones, M. Kollatz-Ahnen, Europe’s Economic Crisis: Some Ideas for Recovery and Growth, in «The Guardian», 16 agosto 2013, disponibile su www.theguardian.com.



[2]C. Lapavitsas, A. Kaltenbrunner, D. Lindo, J. Michell, J.P. Painceira, E. Pires, J. Powell, A. Stenfors, N. Teles, Eurozone Crisis: Beggar Thyself and Thy Neighbour, Rmf Occasional Report, Research on Money and Finance (Rmf), Londra 2010.


[3]G. Irvin, A. Izurieta, Fundamental flaws in the European Project, in «Economic & Political Weekly», vol. XLVI, n. 32, 6 agosto 2011, pp. 14-16.


[4]L. Buchheit, A. Gelpern, M. Gulati, U. Panizza, B. Weder di Mauro, J. Zettelmeyer, Revisiting Sovereign Bankruptcy, Committee on International Economic Policy and Reform (Ciepr), Brookings Institute, Washington 2013.


[5]T. McKinley, G. Cozzi, J. Michell, H. Bargawi, How Can the Eu Federal Government Spearhead an Employment-led Recovery?, Feps-Cdpr Policy Brief n. 1, agosto 2013.


[6]S. Griffith-Jones, M. Kollatz-Ahnen, L. Andersen, S. Hansen, Shifting Europe from Austerity to Growth: A Proposed Investment Programme for 2012-2015, Feps-Ipd-Eclm Policy Brief, 2012.


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