«Ci sono due spinte populiste che stanno mettendo a rischio i tradizionali pilastri dell'Europa, una di stampo nazionalista, di destra, e una a carattere sociale, di sinistra». Massimo D'Alema è nel suo piccolo ufficio alla Fondazione Italianaeuropei, praticamente quasi sommerso da libri. Al pc scorre le agenzie. Un occhio alla “giornata particolare” che attende Tsipras e quindi anche l'Europa. Non nasconde, D’Alema, la simpatia per Tsipras, che “non è un anti-europeo” (e sta in questo la differenza con l’ala più intransigente di Syriza), viene semmai dalla tradizione eurocomunista. Il presidente di Italianieuropei, però, insiste sulla questione che lo preoccupa di più e cioè la dissoluzione dei principi fondamentali che hanno ispirato il disegno europeista. È molto colpito dalla perdita di consenso del progetto europeo tra i cittadini dell’Unione e dalla affermazione dei nazionalismi a destra e dei populismi a sinistra. Un danno “culturale” e non solo politico, prodotto da anni di subalternità al neoliberismo, che si è tradotta in politiche di austerità. Intanto, partiamo da un giudizio sull’accordo raggiunto per evitare la Grexit e salvare la Grecia che Tsipras sta portando verso le riforme.
Qual è il tuo giudizio?
“Da tempo sottolineo la debolezza di questa Europa, che nei giorni scorsi ha dato una sconcertante immagine di sé, stretta da un lato dall’emergenza immigrazione e dall’altro dalla crisi greca. Cosa dire di un ricco continente che non riesce nemmeno a gestire poche decine di migliaia di profughi? Che litiga su chi debba dare accoglienza a quarantamila persone in fuga da sanguinosi conflitti, alimentando allarmi, paure e quello stato di tensione che fa crescere le forze più populiste e reazionarie? Così come è stata deludente, per usare un eufemismo, la gestione della crisi greca. Sono d’accordo con il giudizio dato da Romano Prodi: abbiamo evitato il peggio, ma non il male. Il peggio sarebbe stato l’espulsione della Grecia dall’euro, ipotesi perseguita dalla destra europea. Politicamente sarebbe stato un colpo al cuore al progetto europeo e avrebbe avuto conseguenze geopolitiche non valutabili nella loro portata. Psicologicamente, poi, la reversibilità dell’euro, la possibilità dell’euro di fallire, avrebbe avuto un impatto devastante sui mercati. I tassi di interesse sarebbero saliti in modo difficilmente arginabile anche da parte della Banca Centrale Europea. Si è evitato un disastro politico dalle conseguenze economiche e finanziare incalcolabili e impressionanti”.
Ma non è stato evitato il male…?
“Si, perché la crisi greca è stata affrontata insistendo con quelle politiche di austerità che ormai da cinque anni producono danni, politiche punitive che non funzionano. Non può esserci alcuna politica del debito senza che vi sia anche una politica della crescita. In questo accordo ci sono anche punti ragionevoli, intendiamoci. Penso alla necessità di allineare l’età pensionabile a standard europei, alla possibilità di introdurre misure anti-povertà, anche se c’è un meccanismo abbastanza stretto del controllo sulla spesa pubblica, all’indipendenza dell’Istituto di Statistica dal potere politico”.
Gli aspetti negativi?
“Sicuramente il tono vessatorio, il diktat sulle scadenze, che è stato percepito come un’umiliazione. Intendiamoci, puoi fare delle forzature se hai una forte legittimazione democratica. Altrimenti, inevitabilmente, queste forzature appaiono imposizioni di uno o più Stati “stranieri” e non le richieste di istituzioni sovranazionali di cui sei parte. Ma ancor più grave di quel che c’è nell’accordo è quello che non c’è: non c’è nessun piano di investimenti, su scuola o innovazione ad esempio, nulla che aiuti i greci a rilanciare la loro economia. C’è solo l’idea burocratica che tagliando la spesa pubblica e privatizzando ci sarà la crescita. Vuoi la ripresa? Tagli i servizi, tagli i salari, privatizzi porti e aeroporti, riduci i diritti dei lavoratori e così cresci. Questo dogma liberista non funziona, perché senza una politica di investimenti intelligente non si va da nessuna parte”.
Il socialismo europeo aveva imposto il tema degli investimenti per la crescita in maniera molto chiara….
“Se ne discute da mesi, ma ancora non si sa con chiarezza come sarà finanziato il Piano Juncker”.
Può sopravvivere una Unione solo come insieme di stati nazionali che negoziano le crisi senza una visione, un orizzonte ampio, un’anima, una strategia? Negli ultimi venti anni il Pse forse ha perso qualche occasione…
“Questa Unione ha un’anima, ma purtroppo è conservatrice. E’ dominata da una visione culturale che si è progressivamente consolidata nel corso dei lunghi anni di dominio della destra”.
La tua intervista, da alcuni letta come un attacco frontale alla Germania, è stata virale, è stata rilanciata da molti siti e commentatori. Resti dello stesso parere anche dopo l’accordo?
“Non era un attacco alla Germania. In quella intervista ho spiegato i meccanismi di trasferimento finanziario da un Paese all’altro dell’Unione. Noi abbiamo una moneta unica, però abbiamo diversi regimi fiscali, diversi sistemi sociali, diversi tassi di interesse,e diversi livelli di competitività e cosa succede? Che nelle aree più forti si raccoglie denaro a bassissimo costo, si comprano i titoli dei Paesi indebitati che hanno dei rendimenti molto elevati e il cui rischio è coperto dall’Unione. Per capirci, se non pagano, paghiamo tutti noi, ed è troppo facile operare così, senza rischio cambio e rischio default. Questo sistema determina flussi costanti di risorse finanziarie dai Paesi poveri ai Paesi ricchi. È stata l’università di Gottingen a calcolare l’ammontare di questo enorme flusso di risorse. Quindi, quando si dice ‘aiutiamo la Grecia’ in realtà parte un’operazione finanziaria che alla fine del ciclo ha trasferito denaro pubblico agli istituti privati più esposti sul debito greco. Dei 250 miliardi dati, ai greci ne sono arrivati solo 30.
Il fatto è che ognuno sta pensando ai problemi in casa propria e questo giustifica egoismi e nazionalismi e persino i nuovi muri come tra Ungheria e Serbia...
“E’ una politica miope. E questo vale anche per la Germania. Le banche in fondo fanno il loro lavoro, ma, ripeto, è il meccanismo che non funziona. Non possiamo andare avanti così, senza un forte potere politico, un'area dell'Euro in cui si realizzi una progressiva armonizzazione delle politiche fiscali e sociali, condizioni di competitività alla pari, meccanismi di trasferimento di risorse dalle aree più ricche a quelle più deboli. D’altra parte è così che si è riunificata la Germania: lo Stato tedesco ricco trasferì risorse verso l'Est povero, mentre un sistema dove le risorse vanno dai poveri verso i ricchi non può reggere”.
E la Spd non era nemmeno d’accordo...
Ma alla fine tutti hanno avuto un enorme vantaggio. Il punto è che la Germania oggi non ha la stessa visione. Siccome è una grande potenza industriale, dovrebbe essere preoccupata dalla caduta dei consumi, dovrebbe sapere che il rallentamento della crescita danneggia anche l'industria tedesca. Se il sistema entra in crisi, paga anche la Germania. E c’è ancora altro: una politica dei due pesi e delle due misure: chi non si allinea alle regole di bilancio che devono garantire stabilità monetaria viene punito, mentre a chi, come la Germania, è in costante surplus non succede nulla. Questa non è più un'Unione tra uguali, e non è più percepita come tale.
È un'Europa matrigna?
Nelle aree più penalizzate si sta sviluppando un movimento di rivolta verso un potere percepito come non legittimo e responsabile di tagli, sacrifici. Insomma, di una drastica riduzione dell' aspettativa di futuro. È una rivolta che ha due segni diversi. Quello nazionalista o localista contro l'Europa dei burocrati e dei tecnocrati. E quella sociale, che genera forme di populismo di sinistra. Che cos’è in fondo il populismo? La rivolta delle masse contro le elite. È questa una rivolta sociale che produce forme di nuova sinistra radicale come Podemos in Spagna che, nonostante i cosiddetti successi del governo Raioy, già governa città come Madrid e Barcellona. Sono due spinte differenti che stanno logorando i pilastri fondamentali su cui è nata e s'è formata l'Europa: quello del partito popolare e quello del Pse. È una erosione progressiva. E noi socialisti non siamo in grado di imporre la svolta che serviva.
Qual è il motivo?
Prima siamo stai troppo deboli, la maggioranza in Europa era conservatrice e infatti ha espresso la Commissione Barroso. Dopo le elezioni europee il Ppe è arretrato molto e il Pse ha recuperato terreno e s'è formato un governo di coalizione con Junker che, durante la crisi greca, avrebbe potuto fare il suo lavoro cercando una mediazione per evitare il referendum. A impedirlo è stata la Germania, con una iniziativa della signora Merkel che ha aperto una ferita gravissima, che ha impedito all’organismo comunitario competente di negoziare, puntando tutto sullo svolgimento del referendum con l'idea che la vittoria dei Si avrebbe rovesciato il governo greco. È stata una scelta politica fatta sulla base di una previsione sbagliata.
Va bene, ma i socialisti sono rimasti a guardare?
Non è vero. In questi mesi, il Pse non è stato ininfluente. Qualche cambiamento c’e stato, anche se insufficiente. Guardiamo al piano Junker, che è una buona intenzione, o al documento sulla flessibilità rispetto al patto di stabilità.
D’Alema, tu fai un’analisi impietosa, eppure Tsipras ha ringraziato pubblicamente non solo la Francia, ma anche l'Italia.
Sono realista, quando vedo le cose le dico.
Anche la Bce sta dando una mano.
A Draghi va dato merito di aver ristabilito un clima positivo proteggendo i paesi più a rischio dalle speculazioni finanziarie. Le novità ci sono, è vero, ma non sono tali da imprimere la svolta che serve.
Che svolta servirebbe?
Basterebbe fare quello che il Pse ha promesso in campagna elettorale. A cominciare dal fondo comune per l'abbattimento del debito. Non basta dire: ora serve la crescita, lo diciamo da 4 anni. Battiamoci come socialisti per gli eurobond, per un serio programma di investimenti pubblici, per una governance più forte e finalmente sovranazionale e comunitaria dell'area dell'euro. Facciamo un'azione per ridurre le disuguaglianze fra Stati e negli Stati. Questa dovrebbe essere la nostra piattaforma. Siamo stati vicini al baratro con il pericolo di una Grexit? Bene, rilanciamo. Tanto più che i Popolari non sono autosufficienti. Il Pse è componente essenziale. Altrimenti la deriva sarà inevitabile e assisteremo a un rafforzamento dei populismi di destra e di sinistra.
La diagnosi è completa, la terapia pure. Quello che però non si comprende è il perché si sia aspettato la tragedia greca per farne azione politica.
Dovete rivolgere la domanda ai leader del Pse non a me.
Ma lei che risposta si da?
Che queste cose le ho dette e scritte in tempi non sospetti, e che il Pse oggi rischia molto se deluderà la grande speranza di cambiamento che aveva suscitato. O si realizza quello che abbiamo promesso o si rischiano contraccolpi pesanti per tutti.
Tsipras oggi chiede il voto al proprio Parlamento, prima però ha chiesto un voto diretto ai cittadini greci col referendum. Non c'è il rischio che quest'arma di presunta democrazia diretta sia in realtà una lama a doppio taglio?
Il referendum risponde alla stessa logica delle primarie. Sei costretto a chiedere ai cittadini di selezionare la tua classe dirigente quando i partiti non sono più in grado di farlo o rinunciano a farlo. Purtroppo viviamo una fase di destrutturazione della democrazia rappresentativa e di forti pulsioni populiste. Nel caso Greco però è evidente che Tsipras ha fatto una mossa politica. Era convinto che avrebbe ottenuto maggiore forza al tavolo europeo, ma anche nei confronti di quella parte della sua maggioranza che è antieuropiesta. Perché Tsipras non è contro la Ue, ha una matrice eurocomunista. Non dimentichiamo che anche Papapandreu cercò di fare un referendum, ma in quel caso la Merkel glielo impedì, e così finì la sua parabola politica.
Ma il referendum non è stato anch'esso, specularmente alle posizioni della Merkel, una risposta nazionale a un nodo che doveva essere risolto a livello europeo?
Ci sono due volti di questa sovranità europea ferita. Se da una parte c’è stato il referendum greco, dall’altra c’è stata la iniziativa unilaterale della Merkel che ha deciso per tutti. Io sono per la sovranità europea, ma allora le trattative con la Grecia le deve condurre Junker senza che nessun capo di governo possa mettere dei veti. Altrimenti c’è il dominio dei paesi più forti.
Ma perché i paesi più poveri o indebitati cercano risposte nazionalistiche invece di fare un fronte sovranazionale, europeo comune?
Perché fra i cittadini si ha l’impressione che comandino altri. Il cittadino ha già difficoltà a incidere sulle scelte del proprio comune, figuriamoci su quelle europee, viste e sentite come lontanissime. Il punto dunque sta proprio lì. Nella necessità di un processo di integrazione a cui dare un'anima. C'è bisogno di grandi soggetti politici che se ne facciamo portatori, che in modo non retorico incarnino questa idea della democrazia che rompa i confini nazionali. La sensazione oggi è che lassù si facciano negoziati che i cittadini devono subire. Il quadro che si offre è questo. Ma andando avanti così le spinte divaricanti diventano incontrollabili. Questo meriterebbe un seminario di giorni, dove tutti i leader socialisti si guardassero negli occhi, per evitare il rischio di andare incontro a una sconfitta collettiva. C’è bisogno di una rinascita.
Perché non avviene, perché il Pse non lo fa?
Perché i socialisti sono tanto generosi e visionari in campagna elettorali quanto pragmatici quando sono al governo.
E il Pd? Perché non partecipa più ad nessuna riunione? Cosa direbbe sabato all'Assemblea nazionale?
Mi mancherebbe il tempo. In 3 minuti non si riesce ad articolare alcun ragionamento. Sul Pd mi sto interrogando. Non so dove stia andando. O si muove, come è stato scritto, nella direzione di un rassemblement neocentrista, includendo come ormai sembra delinearsi una parte rilevante del ceto politico moderato e berlusconiano che sostiene ormai in modo determinante il governo, oppure si pone il problema di ricostruire il centrosinisistra e di ricucire un rapporto con quella parte grande del nostro popolo che alle ultime elezioni ci ha lasciato. Sono due prospettive alternative su cui davvero varrebbe la pena di aprire una discussione seria e non soltanto di affidasi ai calcoli di un capo.