Intervista
4 febbraio 2017

Trump, terrorismo, Papa Francesco: il mondo secondo D’Alema

Intervista di Federico Cenci - In Terris


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Grazie alla sua “forza, consapevolezza e chiarezza di idee” sull’attuale scenario geopolitico, Papa Francesco ha conquistato la stima anche di Massimo D’Alema. L’ex primo ministro italiano, oggi a capo della Fondazione Italianieuropei, ritiene il Santo Padre l’unica grande personalità credibile, “un punto di riferimento per la pace”. Coerentemente con il pluralismo che lo caratterizza, pronto a dar voce anche a chi non ne condivide la linea editoriale, In Terris ha intervistato in esclusiva D’Alema che parla anche delle prime scelte in politica estera e in materia d’immigrazione dell’amministrazione Trump, del conflitto israelo-palestinese, dell’ascesa dell’Isis e dell’intricata matassa che occorrerà dipanare in Siria e Iraq una volta che le truppe di Al-Baghdadi saranno definitivamente sconfitte sul campo.

Presidente D’Alema, partiamo dall’intenso lavoro di dialogo con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo che Lei svolse da premier e da ministro degli Esteri.

In effetti durante il mio mandato ho cercato di rilanciare la tradizionale politica italiana di dialogo con il mondo arabo a cui hanno contribuito alcune tra le maggiori personalità del dopoguerra: Fanfani, Colombo, Moro, Craxi… Ricordo che quando ero ministro degli Esteri l’Italia fu accolta come osservatore della Lega araba. Ricordo inoltre, nel 2006, la Conferenza di Roma per la pace tra Israele e Libano a cui seguì l’affidamento all’Italia della missione di pace Unifil 2 nel sud del Libano.

Con questo bagaglio d’esperienza come inquadra la scelta dell’amministrazione Trump di vietare l’ingresso negli Stati Uniti di cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana?

Nell’attuale contesto di destabilizzazione e di tragedia umanitaria in molti di questi Paesi nonché di crescita del radicalismo islamico e del terrorismo, credo che la decisione dell’amministrazione Trump sia stata disastrosa. Il commento più efficace l’ha fatto il senatore repubblicano McCain, secondo cui questa misura favorisce il reclutamento all’Isis. Del resto è evidente che il carattere razzista di un tale provvedimento incoraggia l’odio antioccidentale, il radicalismo e il terrorismo.

E come spiega l’assenza, in questa lista redatta dalla Casa Bianca, delle monarchie del Golfo e dell’Egitto?

Assenze non casuali. Come maliziosamente è stato osservato, con alcuni Paesi del Golfo gli americani – lo stesso Trump in particolare – intrattengono intensi rapporti di affari. Questa scelta perpetua l’ambiguità di Washington: la radice del fondamentalismo è wahabita ed ha la sua culla proprio nel Golfo. Ambiguità che ha raggiunto il paradosso quando, a seguito dell’abbattimento delle Twin Towers da parte dei figli della migliore borghesia saudita, gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan e poi l’Iraq. Assente anche l’Egitto, perché l’attuale dittatura militare di al-Sisi è molto legata all’Occidente, che purtroppo ha sempre avuto simpatia per le autocrazie, così creando insofferenza da parte l’opinione pubblica araba.

Alcuni osservatori ritengono, tuttavia, che la scelta della Casa Bianca sia caduta sui sette Paesi a maggioranza musulmana in cui le ambasciate statunitensi non operano o non sono in grado di fornire dati attendibili sulle persone che intendono partire per gli Stati Uniti.

Alla frontiera sono stati fermati non solo immigrati, ma anche persone che da anni vivono negli Stati Uniti. Ciò testimonia che si tratta di una misura rozza, brutale, indiscriminata…

Secondo Lei a quali fattori è dovuta l’ascesa dell’Isis?

La risposta è complessa. Concorrono sostanzialmente due fattori. Da un lato c’è il salto di qualità da al-Qaida all’Isis, cioè dal terrorismo a un progetto politico che comprende il terrorismo ma che comprende anche la guerra convenzionale e un’ambizione territoriale. Questo mutamento avviene, non a caso, in corrispondenza con il disgregamento degli Stati della regione. L’Isis interpreta l’idea di una nuova statualità che ha un fondamento religioso, non più dunque basata su confini stabiliti artificialmente nel periodo post-coloniale. Ma questa organizzazione è anche figlia della crisi irachena, soprattutto della gestione del dopo-guerra, segnato da un processo di emarginazione dei sunniti che ha spinto settori dell’elite militare di Saddam Hussein verso la radicalizzazione.

Che scenario vede in Siria e in Iraq una volta che l’Isis sarà sconfitto del tutto sul campo?

Esistono troppe variabili per fare un pronostico. Posso dire qual è il mio auspicio. Credo che la stabilità in questi due Paesi, che sono fortemente pluralistici dal punto di vista etnico e religioso, sia legata a un accordo di convivenza. Bisogna lavorare per un’intesa nazionale in grado di garantire tutte le diverse componenti. Non è un caso che in Libano, dopo anni di guerra civile, sia stata redatta una Costituzione che prevede un presidente della Repubblica cristiano, un primo ministro sunnita e un presidente del Parlamento sciita. È un’idea che sarebbe assurda in Occidente, ma che corrisponde a quelle peculiarità nazionali. La democrazia non è un kit da esportare, come erroneamente si è pensato negli anni scorsi negli Stati Uniti. La democrazia, prima ancora di essere governo della maggioranza, è rispetto delle minoranze.

C’è il rischio che alla perdita di territori da parte dell’Isis corrisponda una recrudescenza di attentati terroristici in Occidente?

Sì, c’è questo rischio, che riguarda anche l’Occidente ma che riguarda soprattutto il Medio Oriente. Il più alto numero di vittime di attentati terroristici si registra in quei Paesi.

Come arginare il terrorismo in casa nostra?

Innanzitutto con la cooperazione con i Paesi del Medio Oriente. Poi anche con un capillare lavoro di intelligence e con politiche comuni in Europa. Ma il terrorismo, secondo me, si argina soprattutto attraverso un più intenso lavoro politico-culturale. In Europa quasi il 10% della popolazione è composta da musulmani. Il nostro vero interesse sarebbe quello di riconoscere un Islam europeo, con moschee che operino alla luce del sole e non negli scantinati. Ad esempio qui in Italia, sarebbe opportuno trovare una formula per far accedere i musulmani all’8 x mille che consenta loro di costruire luoghi di culto con soldi pubblici. Gioverebbe anche alla sicurezza: se la moschea la finanziano i Paesi del Golfo, il predicatore salafita lo mandano loro. Un buon risultato l’ha ottenuto in questi giorni il Governo italiano, che ha firmato un accordo con le principali associazioni islamiche che operano nel Paese per rendere obbligatorio un albo con i nomi di tutti gli imam e per rendere l’italiano la lingua dei sermoni nelle moschee.

Tornando a Trump, come valuta il suo impegno a riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele?

È una posizione che è un po’ sfumata, evidentemente grazie alle pressioni da parte dei suoi collaboratori. Certo si tratta di un’affermazione che apertamente contrasta con l’idea di portare la pace. Attesterebbe il riconoscimento da parte americana dell’annessione israeliana di Gerusalemme, che è illegittima dal punto di vista del diritto internazionale, contraria alle risoluzioni dell’Onu e fortemente offensiva verso il mondo islamico. L’idea che ho io di Gerusalemme è quella di una grande città internazionale, culla delle tre religioni monoteiste, al di fuori della quale si devono costruire i presupposti per la nascita dei due Stati.

Ma con l’espansione degli insediamenti israeliani, la prospettiva dei due Stati è ancora realistica?

Se ci si affida all’attuale volontà di espansione sempre più esplicita nella destra israeliana, la prospettiva dei due Stati è in effetti irrealistica. Vedo il rischio di uno scenario sudafricano, vale a dire un unico Stato israeliano attraversato da un conflitto di lungo periodo. D’altro canto non è un caso che questa deriva espansionistica stia radicalizzando una parte della società arabo-israeliana. Sono assolutamente convinto che in quel conflitto debba giocare un ruolo fondamentale la comunità internazionale, per definire una soluzione equa per la sicurezza di Israele e per la creazione di uno Stato palestinese entro i confini stabiliti dal diritto internazionale.

Nel 2006 suscitò molte polemiche, in Italia, la sua visita a Beirut, in quanto fu ritratto a braccetto con Hussein Haji Hassan, deputato di Hezbollah…

Furono polemiche sterili. Io svolgevo una missione di pace. Arrivai a Beirut un’ora dopo la fine dei bombardamenti israeliani, con l’aereo schivammo le buche sulla pista d’atterraggio. L’allora ministro degli Esteri libanese, espressione di Hezbollah, mi chiese di compiere un gesto di solidarietà andando a visitare Beirut sud, che era stata appena bombardata e dove erano morti molti civili. Mi trovai davanti uno scenario drammatico, con gente che scavava a mano sotto le macerie per cercare i propri parenti. Fu un gesto di solidarietà. Come quelli che compii verso Israele: incontrai privatamente i familiari dei soldati israeliani rapiti ed anche lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Era evidente poi, che dovendo dislocare le forze italiane nel sud del Libano, in una zona controllata da Hezbollah, un rapporto con questa organizzazione fosse necessario, per garantire la sicurezza dei nostri soldati.

A undici anni di distanza, i fatti hanno dimostrato l’importanza del dialogo con Hezbollah?

Direi di sì. Hezbollah è stata una delle maggiori forze di contenimento dell’espansione dell’Isis in Siria. Inoltre, il suo alleato Iran è un interlocutore necessario per ottenere stabilità e lotta al terrorismo in quella regione.

È cambiato in questi anni il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo?

Si è ridotto rispetto alla nostra storia. Del resto si sono ridotte anche le ambizioni internazionali dell’Italia…

Come valuta invece il ruolo geopolitico, specie nel contesto mediorientale, che sta svolgendo Papa Francesco?

Non vorrei esagerare, ma mi definisco un fan di Papa Francesco. La personalità mondiale che su questi conflitti si è pronunciata con maggiore forza, consapevolezza e chiarezza di idee è stato il Santo Padre. Il quale, oltre a sollevare il problema ben comprensibile della persecuzione dei cristiani, si è posto il problema della pace e dei diritti di tutti. Non a caso l’atteggiamento del Vaticano verso i palestinesi è stato lungimirante e coraggioso. Spero che il Papa riesca a illuminare i governanti d’Europa. È un punto di riferimento per la pace nel mondo.

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