Massimo D’Alema,
nella storia della Repubblica primo e unico presidente del Consiglio erede
della tradizione del Pci, non ricorre a perifrasi nel giudicare Vladimir Putin,
dice che «questa aggressione militare, non soltanto è un crimine, è anche un
errore», ma non usa chiaroscuri neppure nell’indicare ai governanti europei e
dunque anche l’Italia, la strada per uscirne: «Ora deve essere esercitata ogni
pressione per fermare la guerra e indurre la Russia a ritirare le sue truppe di
occupazione. Ma, in prospettiva, se si vuole costruire una soluzione stabile e
sostenibile, non si può non tener conto, malgrado Putin, che ci sono anche le
ragioni della Russia».
La mattina del
24 quando è scattato l’attacco russo, sinceramente lei è rimasto sorpreso?
«Non sono rimasto sorpreso quando i Russi sono entrati
nelle due provincie di Lugansk e Donezk perché lì, in qualche modo, erano
“attesi”. Ma devo dire la verità: quando hanno scatenato l’attacco generale non
avrei pensato che lo avrebbero fatto. Dunque, avevano ragione gli americani:
cosa che non succede sempre. Ma parliamoci chiaro: avendo previsto tutto
questo, forse l’Occidente, oltre a preannunciare l’attacco, poteva fare
qualcosa per aiutare l’Ucraina a mettersi in grado di difendersi meglio»
Molto concretamente cosa avrebbe potuto o dovuto fare?
«La politica dell’Occidente verso la Russia è stata
una politica sbagliata che ha favorito Putin».
Perché?
«Perché ha favorito il nazionalismo di Putin. Noi non
abbiamo fatto nulla per inserire la Russia in un contesto di post-guerra
fredda. Soprattutto gli americani hanno continuato a guardare alla Russia con i
sentimenti di quell’epoca. E questo è stato un errore storico. Iniziato già
nell’epoca di Gorbaciov. Nel momento in cui la Russia aveva bisogno di un Piano
Marshall nessuno gli dette un euro. Questo aiuto fu negato. E Gorbaciov era
altra cosa, era il contrario di Putin. Rappresentava una Russia che si apriva
al dialogo con i valori democratici della sinistra europea. Poi iniziò un
drammatico declino: negli anni Novanta la disgregazione, la miseria, la
crescita della criminalità economica, l’abbassamento dell’aspettativa di vita.
La Russia ha conosciuto una crisi drammatica fino a Putin, che è la risposta a
tutto questo. Lui riscopre un nazionalismo assertivo, un sistema autoritario. E
la Russia vede in Putin l’uomo che le restituisce il ruolo di una grande
potenza».
In questi giorni non c’è il rischio di un
atteggiamento del tipo: «Sì Putin sbaglia, ma tutti gli altri pure…»
«Vorrei essere chiaro. Quel che ho appena descritto
non giustifica nulla di quel che sta accadendo. Ma ci aiuta a capire quel che è
successo e anche quello che potrà accadere. Noi possiamo vincere questo braccio
di ferro con la Russia, se oltre alla necessaria fermezza non c'è anche una
visione politica sostenibile, sostenibile anche per la Russia. Di Putin non mi
sento amico né sodale. Però noi dobbiamo parlare al popolo russo e gli dobbiamo
prospettare una soluzione che sia sostenibile anche per loro. Una soluzione che
tenga conto delle ragioni della Russia».
In queste ore le “ragioni” russe faticano ad emergere:
a suo parere quali sono?
«Sono due e molto chiare. La prima: in tutti questi
Paesi ex sovietici ci sono delle minoranze russe, anche molto consistenti e noi
non ci siamo occupati quasi per nulla della tutela dei diritti di queste
minoranze. In tutti i grandi processi di disgregazione degli imperi questi sono
problemi che sono rimasti e spesso sono stati all'origine di nuovi conflitti.
Penso ai tedeschi nei Sudeti».
La soluzione trovata da De Gasperi per l’Alto Adige a
suo modo è un esempio?
«Noi abbiamo l'esempio della saggezza con cui la
classe dirigente italiana ha affrontato quel problema, dando stabilità al
nostro Paese, riconoscendo anche dei diritti, a cominciare dall’uso della
lingua. L'accordo De Gasperi-Gruber fu fatto con il governo austriaco a cui
l'Italia riconobbe il diritto di occuparsi dei cittadini di lingua tedesca, che
vivevano nei confini del nostro paese cioè certo fu un'operazione di
grandissima intelligenza infatti ha pacificato il nostro Paese».
E’ stata lasciata briglia troppo sciolta al
nazionalismo ucraino?
«Il nazionalismo ucraino, che è stato responsabile di
prevaricazioni nei confronti della minoranza russa, doveva essere scoraggiato
non incoraggiato da una parte del mondo occidentale. Il nazionalismo ucraino ha
rinnegato gli accordi di Minsk che prevedevano una riforma costituzionale
dell'Ucraina che consentisse l'autonomia delle regioni».
Un altro errore che si sarebbe potuto evitare nei
confronti della Russia?
«Il tema della sicurezza della Russia non è stato mai affrontato
in modo serio. C'erano e ci sono due possibilità. I russi non hanno mai escluso
di una loro inclusione in una NATO che cambi natura. Altrimenti occorre
realizzare una struttura comune della sicurezza europea, un accordo che i russi
a un certo punto hanno chiesto ed è stato negato. Una nuova Conferenza di
Helsinki. Un'architettura della sicurezza in Europa in grado di garantire noi e
garantire loro. Rinunciando all’idea che la garanzia è data dal fatto che noi
circondiamo la Russia perché questo ha avuto come effetto quello di alimentare
quel vittimismo e quel rigurgito nazionalista di cui Putin si è avvantaggiato,
diventando il beneficiario di questi errori politici».
Sul lungo periodo c’è un rischio che accomuna Russia
ed Europa?
«Questa aggressione militare della Russia è un crimine
perché siamo difronte ad un’aggressione a vittime civili, ma anche è un errore
perché Putin, descritto da alcuni analisti come spietato e lucido calcolatore,
secondo me stavolta ha sottovalutato i rischi connessi ad un’operazione che può
avere per la Russia dei costi molto alti. E anche noi dobbiamo saperlo: le
sanzioni non bastano. Il rischio è quello di un comune declino dell’Europa e
della Russia. Siamo legati per ragioni geografiche, di complementarietà
economica: loro hanno bisogno della nostra tecnologia e noi delle loro materie
prime. Parliamoci chiaro: dal punto di vista geopolitico questa frattura nel
cuore dell’Europa accentua il rischio di declino complessivo del continente.
Stati Uniti e Cina possono guardare con maggiore distacco, anche perché pagano
un prezzo meno alto. Questa è una tragedia europea e sta agli europei trovare
una via d’uscita».