Incontro Massimo D'Alema al termine della riunione di redazione di Italianieuropei che ha impostato il prossimo numero della rivista, in gran parte dedicato alla crisi del Partito democratico e, più in generale, della sinistra. «Ospiteremo le opinioni di molti esponenti del partito, speriamo che dicano cose interessanti».
Tutto qui, possibile che lei non sia della partita?
«Ogni tanto leggo di manovre di cui sarei il regista. Sciocchezze. Dalla politica attiva sono fuori da un pezzo. Leggo, studio, rifletto, all'occorrenza dico la mia. Ma come può farlo, diciamo, un intellettuale di sinistra».
La prendo in parola, anche se converrà con me che questa auto definizione dal sapore antico le va un po' stretta. È in libreria, ripubblicato da Solferino, un suo scritto del 2004, A Mosca l'ultima volta, in cui racconta la storia di un suo viaggio in Urss con Enrico Berlinguer per i funerali di Jurij Andropov: una storia vecchia di quasi quarant'anni. È nostalgia del tempo che fu, o pensa che Berlinguer abbia ancora qualcosa da dire a una sinistra sconfitta e in cerca di sé stessa?
«Nostalgia è una parola complicata che ha nella sua radice il dolore. Ma ci sono studi importanti, pubblicati da riviste scientifiche autorevoli, in cui si legge che va considerata anche come una risorsa esistenziale, perché porta con sé, assieme a un tanto di tristezza, anche l'appagamento per quanto si è vissuto, e in ultima analisi migliora l'umore, e pure, sembra, la convivenza con gli altri. Confortato anche da queste letture, la coltivo felicemente, senza per questo rinunciare alla ricerca. Mi aiuta anche a intuire che la nostalgia della politica è un sentimento diffuso. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il primo partito italiano, quello di Giorgia Meloni, è il più novecentesco di tutti».
Capisco e, per quel che vale, condivido. Ma insisto: secondo lei la lezione di Berlinguer ha ancora una sua attualità per la sinistra o no?
«Il mondo di Berlinguer finisce pochi anni dopo la sua morte, assieme al comunismo e alla Prima Repubblica. Aveva presagito prima di tutti, e non senza angoscia, la crisi irreversibile di entrambi, e si era impegnato a battere strade nuove e soprattutto a coltivare pensieri nuovi per venirne a capo. Non aveva certo ragione su tutto, il modo in cui sollevò la questione morale è a dir poco discutibile: viveva Bettino Craxi, che considerava il capo di una banda di avventurieri impadronitisi del Psi, come un'ossessione. Perse. Ma fu forse l'unico, comunque l'ultimo leader italiano a rivendicare la necessità di una politica forte e "investita di pensieri lunghi". E a renderlo indimenticabile fu anche la sua morte in battaglia, da eroe timido».
Forse Berlinguer capì in anticipo la fine di quello che allora si chiamava il socialismo reale, ma continuò orgogliosamente a professarsi comunista.
«Non c'è dubbio che qui risiedano il suo limite e la sua contraddizione. Quando nel 1981 dichiarò esaurita la "spinta propulsiva" della Rivoluzione di Ottobre, avrebbe dovuto riconoscere anche l'esaurimento di quella del Pci, che sull'onda di quella rivoluzione era nato. Probabilmente lo sapeva, ma non lo fece. Perché si considerava un comunista (per fedeltà agli ideali della giovinezza, disse a Giovanni Minoli), perché temeva che il partito sarebbe andato a scatafascio, e per non dare ragione a Craxi».
Vero. Ma allora in che senso è attuale?
«Berlinguer era convinto che chiamarsi fuori da quello che allora si chiamava il movimento comunista internazionale non dovesse comportare l'abbandono della critica del capitalismo, ma al contrario il tentativo di fondarne senza coltivare illusioni palingenetiche una nuova, moderna. In questo senso sì, il suo messaggio è ancora attuale. Svanita la grande ubriacatura della globalizzazione capitalistica, avvertiamo tutti il peso soffocante delle disuguaglianze, delle marginalità e dell'infelicità. La destra se ne avvantaggia, la sinistra è senza parole. Perché ha rinunciato a una visione critica dell'esistente e le è rimasta solo la gestione amministrativa della realtà. Ma una sinistra che non coltivi un'idea di cambiamento non può esistere».
Tra i motivi di fondo del tracollo della Prima Repubblica, c'è l'incapacità della sinistra nel suo complesso di proporsi come un'alternativa alla Democrazia cristiana. Non penso che a determinarla sia stata soltanto l'incompatibilità di carattere, chiamiamola così, tra Berlinguer e Craxi. Forse tutti e due pensavano che la maggioranza degli italiani fosse, in un modo o nell'altro, di destra, e che la Dc facesse in parte da argine, in parte da filtro, alla destra peggiore.
«Magari lo pensavano pure, e con qualche fondamento. Anche se c'è stato un momento in cui questo assunto sembrò essere smentito dai fatti. Per un lungo tratto del secondo dopoguerra, in Europa a governare erano stati quasi solo i moderati e i conservatori. Poi, sull'onda del Sessantotto, la situazione cambiò. In Germania andarono al governo i socialdemocratici, in Francia Mitterrand cominciò a porre le basi dell'Union de Gauche che poi avrebbe vinto. In Italia, comunisti, socialisti e socialdemocratici nelle elezioni regionali del 1975 conquistarono la maggioranza assoluta, che poi sfiorarono nelle elezioni politiche dell'anno successivo. Ma da noi di una sinistra di governo non si parlò nemmeno, con la solitaria eccezione di Riccardo Lombardi. A rendere impossibile una credibile alternativa alla Dc contribuiva in modo determinante la nostra collocazione internazionale. Anche se lo negavamo, eravamo i primi a saperlo».
Sono passati trent'anni, ma da questo punto di vista non è cambiato molto. Un'alternativa credibile alla destra vittoriosa non c'è, e non è nemmeno all'orizzonte.
«Una volta si faceva l'analisi del voto, oggi pare che anche la semplice lettura dei risultati elettorali non interessi più né la politica né l'informazione. I numeri dicono, per cominciare, che quasi il 40 per cento degli italiani non è andato a votare: è molto più che un segnale di allarme, significa che la maggioranza degli italiani, compresi molti che tradizionalmente votavano a sinistra, si sente estranea al sistema democratico. E non è vero, sono sempre i numeri a dircelo, che la maggioranza di quelli che alle urne ci sono andati ha votato a destra. È vero invece che con 12 milioni di voti la destra ha conquistato una larga maggioranza parlamentare. Le ricordo che fino a non molti anni fa per vincere magari di un soffio le elezioni, come è capitato a noi nel 2006, servivano 17 o 18 milioni di voti, non tantissimi di più dei quasi 16 milioni di voti, il 56,2 per cento, conquistati adesso dagli avversari della destra».
Gli avversari della destra saranno pure la maggioranza degli elettori. Ma non sono una maggioranza politica, e difficilmente sapranno mettere in piedi un'alternativa dall'opposizione.
«Sa, conta pure, o dovrebbe contare, l'iniziativa politica. Secondo lei era semplice, nel 1996, tenere insieme Lamberto Dini e Armando Cossutta? Eppure, io, e naturalmente Romano Prodi, ci riuscimmo, e conquistammo la maggioranza parlamentare nonostante il centrodestra, che però era diviso, avesse ottenuto più voti di noi».
E stavolta, invece?
«Stavolta è capitato qualcosa di incredibile. La destra, che si era spaccata su due dei tre governi dell'ultima legislatura, si è presentata unita alle elezioni, aggiudicandosi la vittoria in partenza. I suoi avversari, che avevano sostenuto insieme prima il secondo governo Conte, poi Mario Draghi, si sono presentati divisi. Con un sistema proporzionale, si può anche fare. Con la nostra pessima legge elettorale, no».
Il Pd si avvia faticosamente al congresso. Lei cosa si aspetta?
«Le ripeto, io dico la mia come può farlo un intellettuale di sinistra che legge, studia, discute, niente di più, niente di meno. Sul Pd, mi limito a constatare che un segretario dimissionario che però resta al suo posto per condurre il partito al congresso rappresenta, diciamo, una novità, o meglio un'ingombrante anomalia. Più in generale, penso che per la sinistra stare all'opposizione possa anche essere utile per ricostruire i suoi fondamenti. E le sue fondamenta».