Intervista
3 novembre 2025

D’Alema: io a Pechino? Ha sbagliato l’Occidente a non esserci

Intervista di Aldo Cazzullo - Corriere della Sera


pp_mda_2.jpg

Massimo D’Alema, cominciamo dalla foto di Pechino. Cosa c’è andato a fare?


«A festeggiare gli ottant’anni della
vittoria del popolo cinese nella sua liberazione, e la vittoria della
guerra contro il fascismo e il nazismo. Così era scritto sull’invito».




C’erano i peggiori autocrati della terra, a cominciare da Putin.


«Putin è stato ricevuto con maggiori onori
negli Stati Uniti che in Cina. Le ricordo che nella guerra al
nazifascismo i russi hanno avuto venti milioni di morti; che la Russia
fosse rappresentata mi pare abbastanza inevitabile».




C’era pure il dittatore nordcoreano Kim Jong-un.





«E c’era il presidente del Parlamento
sudcoreano. Qualcuno che avesse maggiore conoscenza e animo più sereno
avrebbe notato molti rappresentanti di governi democratici, dall’India
all’Indonesia».




Non dei grandi Paesi occidentali.


«I leader occidentali hanno commesso un
errore. A Pechino era rappresentato, ci piaccia o no, l’80% del genere
umano. Isolare l’80% dell’umanità è un’impresa difficile. Mi fa
riflettere un certo imbarbarimento».




A cosa si riferisce?


«L’informazione non dovrebbe mai ridursi a
propaganda. Una volta feci un bellissimo comizio con Giancarlo Pajetta,
che alla fine mi disse: tu devi fare i comizi, ma non devi mai lasciarti
convincere dai tuoi comizi. Quelli sono fatti per convincere gli
altri».




La Cina ha esibito i missili per minacciare il mondo.


«Non è stata solo una parata militare. E Xi
Jinping non è apparso solo in divisa. Guardi questo video: è in giacca e
cravatta, presiede la celebrazione della Resistenza in Europa; si canta
pure Bella ciao. La prima sera hanno dato la medaglia agli eredi degli
americani che combatterono per il popolo cinese: le Flying Tigers, i
piloti volontari mandati da Roosevelt contro i giapponesi invasori. Non
era un raduno antioccidentale. Era giusto esserci. Chi non è venuto ha
commesso un errore, anche perché avrebbe dato meno evidenza alla
presenza di Putin».




La Cina non è un pericolo?


«I cinesi non fanno guerre, non bombardano
nessuno. Se costruiamo un muro tra noi e loro è anche più difficile
esercitare una necessaria influenza nel nome della libertà e dei diritti
umani».




Non c’è il rischio di una guerra tra Cina e Usa?


«Sono d’accordo con Kissinger, quando nel
suo ultimo libro scrive che le due grandi potenze devono costruire un
nuovo quadro di convivenza. Occorre la consapevolezza che i nostri
principi non sono un assoluto; devono convivere con i principi degli
altri. In Occidente alla potenza della tecnica corrisponde una mancanza
di pensiero filosofico e letterario. Il mondo ha rotto gli ormeggi senza
avere una bussola morale. È un tema che i cinesi affrontano nel loro
pensiero. La cosa davvero importante che ho fatto in Cina, alla fine del
2024, è stata seguire un congresso di studi confuciani di grande
interesse».




Sta dicendo che dobbiamo dialogare con il Sud del mondo?


«Il dialogo è obbligatorio. È nel nostro
interesse. L’alternativa è lo scontro. Questi Paesi non sono predisposti
allo scontro con l’Europa (non so con l’America). Vogliono la
collaborazione. I cinesi si muovono in modo non ostile verso un Paese
come l’Italia. Ogni spazio di collaborazione che si apre dovrebbe essere
colto. A loro ho sempre detto: non potete più invocare la scusa che
siete in via di sviluppo; siete una grande potenza, dovete prendervi le
responsabilità di una grande potenza».




Come trova Trump? La tregua in Medio Oriente è merito suo.


«Quale tregua? La scorsa settimana, Israele
ha ucciso in due giorni 104 persone, di cui 46 bambini. E continua
l’aggressione quotidiana ai villaggi della Cisgiordania, lo squadrismo
dei coloni, gli incendi, i ferimenti. È una gigantesca tragedia: il
governo israeliano ha un progetto di pulizia etnica, di liquidazione
definitiva del popolo palestinese. Trump, con la sua spregiudicatezza e
imprevedibilità, punta a ricostruire lo spazio americano nella sfera
internazionale. E qui c’è il problema dell’Europa».




Quale problema?


«La Cina ha una sua agenda: costruire
l’egemonia sul Sud del mondo. I cinesi ragionano sui tempi lunghi della
storia. Il loro vero competitore non è l’America; è l’India, che ha una
demografia favorevole. Gli americani hanno la loro agenda: tornare
protagonisti. La Russia coltiva con rancore il sogno della rivincita
imperiale; non sovietica, russa. E l’Europa? Non si capisce. Nessuno ha
la percezione di un’agenda europea».




È così da tempo.


«Ma non è sempre stato così. Io ho vissuto
due grandi crisi, i Balcani e il Libano, in cui l’Italia fu
protagonista, e non nel senso che ci infilavamo nella foto».




La Meloni si infila nella foto?


«In sostanza, sì. Non vedo iniziativa
italiana su nessun tema di politica internazionale. Abbiamo festeggiato
la vicepresidenza di Fitto, al quale ho fatto gli auguri e che sta
lavorando bene, come un trionfo; ma nel 2000 io negoziai una Commissione
europea con Prodi presidente e Monti commissario alla concorrenza.
Forse avrei dovuto indire una festa nazionale. Ottenemmo il comando
della missione in Libano, e il giorno dopo entrammo nel Consiglio di
sicurezza».




Ma ancora le rimproverano l’intervento Nato in Serbia.


«Intervenimmo per fermare la pulizia
etnica, cosa che nessuno ha fatto nei confronti di Israele. Non volevamo
schiacciare la Serbia, ma cercare una soluzione politica, che alla fine
trovammo: il Kosovo non poteva diventare parte dell’Albania, la
minoranza serba sarebbe stata protetta. Nei Balcani e in Libano l’Europa
prese l’iniziativa; Clinton, Bush e Condoleezza Rice dovettero
negoziare con l’Europa».




Ancora si ricorda la sua passeggiata a braccetto con un capo di Hezbollah.


«Una polemica senza senso. Dovevamo mandare
i nostri militari nel Sud del Libano in condizioni di sicurezza, senza
che fossero percepiti come una forza ostile. Quella che fu chiamata,
davvero con cattivo gusto, “passeggiata” era una visita alle macerie di
Beirut dopo un bombardamento israeliano, tra civili che cercavano i loro
morti».




Lei è considerato da sempre filoarabo.


«Difendo i diritti del popolo palestinese.
Non io; Craxi, Andreotti, Moro, Berlinguer: la politica democratica
italiana. Io mi sento erede di questa tradizione».




E l’Ucraina?


«Anche lì spicca l’assenza dell’Europa, che
ha sostenuto la guerra contro la Russia da una posizione irrealistica,
sulla pelle degli ucraini».




Si riferisce anche a Macron?


«Certo. Una guerra tra l’Occidente e la
Russia è una guerra nucleare: lo scenario è la mutua distruzione.
Bisognava trovare una via d’uscita: quello che a un certo punto ha detto
Trump a un’Europa spiazzata, infastidita, a rimorchio. Anche se poi si è
mosso in modo maldestro, dando un vantaggio a Putin senza ottenere
nulla in cambio».




Come finirà?


«Dobbiamo uscire da questo conflitto in un
quadro di garanzie per l’Europa. La sicurezza dell’Europa ha bisogno di
un accordo con la Russia, come quello negoziato a Helsinki nel 1975, che
prevedeva misure concrete, controlli, riduzione degli armamenti».




E in Italia? Si costruirà una coalizione larga contro la destra?


«Spero di sì. Stanno lavorando. Non mi
piace la parte di chi sta lì a criticare quelli che sono in office.
L’elettorato spinge per l’unità Pd-5 Stelle-Sinistra; e in effetti,
quando vota appena il 50%, mobilitare i propri elettori è importante. Ma
non è sufficiente. Occorre dialogare con un elettorato non di sinistra,
con un pezzo di establishment, di classe dirigente del Paese,
disponibile a una coalizione più europeista, infastidita dagli eccessi
del sovranismo, cui non piace il legame subalterno con Trump, di cui
percepisce lo spirito antieuropeo. E dobbiamo fare un discorso più
consistente sul futuro dell’Italia. Quello che a suo tempo proponemmo
noi ebbe una presa».




A cosa si riferisce?


«Noi vedevamo un’uscita dalla crisi in
chiave europea. Quando creai la Fondazione con Amato e Ciampi, fu
proprio Ciampi a proporre il nome: Italianieuropei dava il senso di un
progetto. Oggi il tema dell’Europa è logorato. Il gruppo dirigente del
Pd raccolga la disponibilità che c’è, da una parte del mondo
intellettuale, a dare un contributo di pensiero, di analisi degli
scenari internazionali, di progetto per il futuro dell’Italia».




Come si sta muovendo la Schlein?


«Bene. Ci sta mettendo passione e spirito
unitario. Certo, il Pd farebbe bene a elaborare una risposta ai problemi
molto seri che abbiamo avanti».




Qual è il primo?


«La demografia. Altro che “fermare
l’invasione”; dobbiamo fermare lo spopolamento. Se chiudiamo le
frontiere, a fine secolo l’Europa avrà 300 milioni di sessantenni, di
fronte a un’Africa con 4 miliardi e mezzo di abitanti, età media 18
anni. Una situazione insostenibile. Se non vogliamo chiudere tutto,
fabbriche uffici ospedali welfare, non dobbiamo respingere, dobbiamo
accogliere. E integrare, per evitare il disagio sociale che
l’immigrazione provoca ai ceti popolari».




Tre ultime domande. Personali. La
questione del suo rapporto con il denaro la segue da sempre: l’Ikarus,
le scarpe fatte a mano, l’intermediazione con la Colombia. Qual è la
verità?


«A parte la barca, di cui sono stato socio,
è tutto falso. Ho sempre pensato, da vecchio comunista, che in una
società di conflitto attacchi e persecuzioni siano inevitabili. Viviamo
in un Paese in cui, se non hai fatto niente, alla fine ti assolvono. Non
so perché, pur essendo io un pensionato indipendente, sia ancora visto
come bersaglio».




E le consulenze?


«Certo, ho un’attività di consulenza che mi
consente, tra l’altro, di tenere viva una fondazione senza partiti e
senza padroni, e pubblicare una rivista cartacea costosa e prestigiosa.
Guardi il numero speciale sulla pace: metà degli articoli è scritta da
ebrei, compreso l’ex premier israeliano Olmert».




Ma lei è ancora comunista?


«La formazione è quella. Uno non può mai
dimenticare l’educazione che ha ricevuto. Ma ho contribuito a porre fine
al Pci e a dare vita a un altro partito. Occhetto fece bene, e abbiamo
sempre motivo di gratitudine per il coraggio con cui cambiò».




I suoi più stretti collaboratori, quelli
che Maria Laura Rodotà chiamava i Lothar — Latorre, Velardi, Minniti —,
guardano con interesse alla Meloni. Come mai?


«Ognuno è sempre stato libero. Ho sempre
avuto un’attrazione per il talento. Quand’ero capo della Fgci scovai e
assunsi alla Città Futura due giovanissimi che mi parevano capaci di
fare i giornalisti: erano Lucio Caracciolo e Federico Rampini. Non sono
mai esistiti i dalemiani. Nella misura in cui sono esistiti sono stati
un problema, non una risorsa. Penso che ognuno dovrebbe avere più
rispetto; non per me, ma per sé stesso».


stampa