Non stacca gli occhi dal video Massimo D’Alema, mentre rilascia questa intervista che doveva essere soprattutto personale e che l’urgenza del mondo ha reso soprattutto politica. Sul video le agenzie aggiornano i lanci sulle vittime di Fallujah, i rapimenti di occidentali, le bombe sulla popolazione inerme. Ogni tanto, un suo gesto di sconforto ci fa capire che morti si sono aggiunti a morti. L’ex presidente del consiglio sembra vivere questa guerra all’insegna della rabbia. Simile forse a quella di tutti, ma resa più grave dall’impotenza del fare. Nel grande studio della fondazione Italianieuropei, dietro una scrivania carica di carte, parlerà quindi subito di Iraq, di quella che ormai viene chiamata la terza guerra irachena.
Se l’aspettava? Ha mai pensato che la situazione si aggravasse fino a questo punto?«Sarà antipatico ricordarlo, ma sta avvenendo esattamente quello che avevamo previsto e cioè che questa guerra sbagliata, illegittima e costruita sulle menzogne, avrebbe portato a un drammatico peggioramento della situazione in Iraq e nel mondo. Gli sciiti che vengono massacrati erano i “buoni”, ricorda? Ora non resta che aspettare la rivolta dei curdi. Questa occupazione deve finire al più presto».
Ha detto “occupazione”?«Non c’è mai stato altro modo di chiamarla, prima e dopo la caduta di Saddam. All’inizio lo dissi anche a Tony Blair che, a Roma per incontrare Berlusconi, cercò di convincere privatamente me e Rutelli che dopo una settimana Saddam sarebbe crollato e la gente avrebbe festeggiato la democrazia. Gli dissi: “è una follia! L’occupazione avrà come effetto la crescita dell’odio e renderà più forte il terrorismo».
E ora che si fa? Anche lei ritiene che bisogna andarsene subito, prima del 30 giugno?«Trovo odioso discutere di calendari. Non è che il 20 maggio sia di sinistra e il 30 giugno di destra, come certe chiacchiere da salotto farebbero credere. Ritirarsi subito è militarmente impossibile, ma bisogna prepararsi a rendere concreto quel 30 giugno come passaggio di potere agli iracheni».
In che modo?«Accettando di riparare ai danni fatti da questo governo di irresponsabili, che ha compromesso il Paese anche nel campo delicato della pace e della sicurezza nazionale. L’Italia ha oggi il dovere di spingere gli americani a fare u passo indietro. Ormai è chiaro a tutti che si può avere un intervento dell’ONU soltanto se gli americani pagano un prezzo politico per la tragedia che hanno innescato».
Le sembra possibile?«È possibile, necessario e anche urgente, perché la democrazia non solo non si esporta con le armi, ma facendo la guerra si indebolisce anche al nostro interno».
Si riferisce alla crisi del modello multietnico nelle società occidentali? Gli inglesi hanno già cominciato a ridiscuterlo.«Non solo. Penso anche ai metodi sommari di polizia nei confronti degli immigrati, a Guantanamo, alla violazione dei diritti umani e delle convenzioni internazionali. Nella lotta al terrorismo l’occidente può smarrire se stesso e arrivare a costruire proprio quello scontro di civiltà che per ora non c’è ma che farebbe tanto comodo alla propaganda di Al Qaeda. Ma adesso la prima cosa da fare è fermare gli eccidi. O quella montagna di cadaveri ci verrà rinfacciata nella rivendicazione del prossimo attentato terroristico in Europa».
Pensa davvero che ce ne saranno? Ha paura nella vita di tutti i giorni?«Ho paura per i miei figli, per la militarizzazione in cui potrebbero essere costretti a vivere con il timore continuo di prendere un aereo o la metropolitana. Ma confido che l’Europa ritrovi gli anticorpi per reagire, come è già successo in Spagna. Perché il futuro del mondo si gioca in questo continente, crocevia di tante civiltà diverse, che può dare un grande contributo a cambiare rotta. La frontiera con l’islam passa da casa nostra».
Quindi la sua scelta di candidarsi alle europee arriva al momento giusto?«Sì, ritengo che il Parlamento europeo possa e debba esercitare un forte ruolo. Nessuno dei nostri problemi, né la pace, né la sicurezza, né lo sviluppo, potranno essere affrontati senza un’Europa più forte. L’Europa è un’opportunità, non un vincolo come crede Berlusconi».
Non ha rimpianti per la politica nazionale?«Non è che me ne vado».
Già, è vero, nel 2006 tornerà per fare il ministro degli esteri.«È una storia che ho sentito anch’io, ma le assicuro che non è tra le mie aspirazioni. Se vinceremo le politiche, come credo, ci sono altri che lo faranno benissimo».
Come mai tutti pensano che toccherà a lei?«Senta, io mi occupo del mondo. Sono vice-presidente dell’Internazionale Socialista, non ho mica bisogno di galloni. Della mia persona non si è mai capita una cosa importante. Io faccio politica perché mi appassiona. E sono talmente presuntuoso da considerare importante ciò che faccio indipendentemente dai gradi che ho».
Che cosa è importante in questo momento per lei?«Sento molto la dimensione internazionale della politica che in Italia è scarsamente popolare. Qui c’è una vena di provincialismo che fa guardare solo al cortile di casa. Quando un giornalista mi segue all’estero, in Cina, in Palestina o anche in Iraq, il direttore gli telefona per avere una mia dichiarazione su Bertinotti o Mastella».
Il suo amore per i giornalisti non è aumentato.«Al contrario. Descrivo una situazione che dovrebbe allarmarvi. Lo sa qual è la cosa che trovo più eticamente grave? Il fatto che quando dico queste cose, tutti i giornalisti mi rispondono: “Hai ragione, è vero”. Ma poi non scrivono niente».
Questa volta lo vedrà scritto. Ma torniamo alle elezioni imminenti. Berlusconi promette di nuovo che saremo ricchi e senza tasse.«Dice un proverbio contadino: “Gallina che mangia sassi, sa il culo che ha”. Se dopo che tutto il Paese si è impoverito, gli italiani si bevono ancora una balla come questa, io non ci posso fare niente. Berlusconi sembra un vecchio comico che ripete la gag che gli ha dato in successo in gioventù. Nessuno mi costringerà a correre dietro questo modo ridicolo di fare politica».
Già una volta la serietà non ha pagato.«Guardi che nel 2001 non perdemmo per eccesso di serietà né per tutte quelle stupidaggini che dice la sinistra salottiera, accusando proprio me, che sono stato l’unico a proporre una legge sul conflitto di interessi e a fare la par condicio, di essere filo-berlusconiano. Perdemmo perché Berlusconi convinse la gente che lui era il nuovo e noi – i partiti e i sindacati – il vecchio che impediva il grande cambiamento. Ha venduto un sogno privo di fondamento».
D’accordo, ma perché la sinistra non è più capace di proporre un suo sogno?«Perché siamo stati duramente vaccinati, perché il grande sogno che ha accompagnato la nostra giovinezza è finito nel gulag».
Possibile che non ci sia altro? Che non sia sopravvissuto nemmeno un po’ di anelito all’uguaglianza?«Non siamo uguali e non possiamo più sostenerlo. Oggi possiamo onestamente dire che cercheremo di ridurre le disuguaglianze, di dare a tutti le stesse opportunità. Ma il nostro progetto è comunque più suggestivo di quello della destra. Pensi solo alla forza evocativa della pace».
A parole la pace la vogliono tutti. Basterà?«C’è molto di più. I giovani l’hanno capito e si stanno di nuovo spostando. Nessun giornale l’ha scritto, ma ci sono state le elezioni universitarie e abbiamo vinto noi dappertutto. Ha perso la destra e anche Rifondazione».
Ha vinto il triciclo dei giovani?«Già, siamo uno strano Paese, dove una forza politica che aspira ad avere il 34 per cento dei voti si chiama triciclo e quelli che hanno l’uno per cento si chiamano partiti».
Se avrete il successo elettorale, riuscirete a fare di questa coalizione un partito vero?«Me lo auguro. Naturalmente ciascuno di noi lo vede in un modo un po’ diverso. Io non penso a un partito tradizionale, perché non c’è più una compattezza ideologica che lo permetta. Penso a una formazione politica aperta, direi “multietnica”, dove ci siano cattolici, laici, quelli che vengono dalla storia del Pci, del Psi, della Dc e quelli che non vengono da nessuna storia, che per fortuna cominciano a essere tanti».
Chi guiderà questa formazione? Lei si candida?«Sono stato educato all’idea che le ambizioni personali sono utili solo quando sono funzionali a un disegno collettivo. E in questo momento capisco che un eccesso di ambizione da parte mia potrebbe essere un ostacolo. Io sono uno che non ha mai voluto creare problemi. Conosce qualcun altro che un giorno si sia dimesso da Presidente del Consiglio senza che nessuno lo cacciasse, solo perché aveva valutato politicamente la situazione?»
A chi pensa allora?«Questo progetto può contare su personalità di primo piano, che rappresentano una parte importante della classe dirigente del Paese. Ha un candidato alla guida del governo – e la questione è chiusa – che si chiama Romano Prodi. Ci sono poi nomi di spicco come quelli di Fassino, Amato, Rutelli, Bersani, Letta… Ci sono amministratori di valore come Veltroni e Bassolino, donne come Bindi, Turco o Sbarbati. E deve essere chiaro che ci sono anch’io. Chi si illude di eliminarmi, commette un errore».
Perché dice questo?«Perché questo gioco a distruggerci al nostro interno è stato letale per il centro-sinistra. Io penso di rappresentare qualcosa di vero, uno che ha forza e passione politica, uno di cui c’è bisogno nei momenti difficili. E ora cambiamo discorso».
Va bene. Le chiedo cosa pensa della grazia ad Adriano Sofri?«Sofri è una persona che non riconosce la sentenza che lo ha condannato ma ha mantenuto il massimo rispetto verso lo Stato. Non è scappato né si è fatto fare qualche leggina ad hoc per evitare i processi. In questa Italia di latitanti si merita ampiamente la grazia».
D’Alema, prima di finire, posso farle due domande fuori contesto?«Sentiamo».
Perché pubblica con Mondadori?«Perché è un grande canale per far conoscere meglio il mio pensiero. Immagino che sia per lo stesso motivo che mezza sinistra pubblica con lo stesso editore: Cofferati, Rutelli, Furio Colombo, che dirige addirittura una rivista. Ma naturalmente la famosa sinistra sobria attacca solo me. Qual è la seconda domanda?
È vero che ha un fratello psicoanalista?«Sì, lo trova curioso?»
Un po’. Lei cosa pensa della psicoanalisi?«Sono sempre stato diffidente, non mi affiderei mai a un altro. Preferisco il training autogeno. Però mi rendo conto che a fare come faccio io, si soffre di più».
Stefania Rossini, L'Espresso