ROMA Manca un mese alle elezioni europee. Un mese per il primo test della lista unitaria, la lista Prodi. Manca un mese, e in questo mese il centrosinistra giocherà le sue prime carte per una vittoria contro Berlusconi. Carte che non si basano soltanto sull’attacco a Berlusconi, ma cercano di essere propositive, alternative a una politica del centrodestra che sta mandando a pezzi un Paese. Massimo D’Alema, candidato e capolista alle prossime elezioni europee, fa il punto sul futuro della coalizione e sul futuro di questo Paese. Sulla litigiosità vera o presunta della sinistra, sulle cose da fare e quelle da non fare. Avvertendo subito che le sottigliezze dei piccoli equilibri politici non lo interessano, come non lo interessano i giochetti più o meno demagogici per conquistare terreno nella logica di chi vuole apparire più di sinistra, o più antiberlusconiano di altri. Quello che conta davvero per gli elettori è avere la sensazione di una proposta alternativa che dia sicurezza e stabilità. E un atteggiamento responsabile, soprattutto in politica estera. A questo si collega una battuta di D’Alema, qualche sera fa ad una cena elettorale della sezione Mazzini della Quercia, a Roma, alla quale il presidente dei Ds è iscritto.
«Se continuiamo così, rischiamo di sembrare come i protagonisti di Brancaleone alle crociate, quando Gassman ed Enrico Maria Salerno si incrociano e l’uno chiede: ”Onde ite?”. E l’altro: “Sanza meta”. E lui: “Puro noi sanza meta, ma da altra direzione”».
D’Alema, era soltanto una battuta, o il segno di uno smarrimento su quello che fa la lista unitaria: una situazione che in certe giornate pare davvero confusa? «Naturalmente era una battuta scherzosa, riferita più in generale al modo di essere della sinistra italiana e non in modo particolare alla lista “Uniti nell’Ulivo”. E naturalmente, come in ogni battuta scherzosa, c’è un elemento di verità, o quanto meno una preoccupazione fondata».
Ma questa tentazione, dell’andar tutti da un'altra parte, c’è? «Io credo di no, non credo ci siano divisioni sostanziali. Non c’è dubbio, però, che dobbiamo tutti impegnarci, all’interno della lista dell’Ulivo, per far prevalere gli elementi di coesione, anche a prezzo di smussare qualche angolo e di rinunciare a qualche protagonismo individuale o di partito».
Secondo lei è un errore... «Certo, a volte le differenze sono state sottolineate in modo eccessivo e persino artificioso. Per esempio, a proposito dell’Iraq».
Si riferisce alle date di un eventuale ritiro delle truppe italiane in Iraq? «Francamente non trovo appassionante il dibattito se si debba chiedere il ritiro delle truppe italiane subito, cioè a maggio, o entro il 30 giugno se non c’è una svolta radicale sotto l’egida dell’Onu, dato che gli stessi sostenitori del ritiro immediato ritengono - così dicono - che nel caso di un contingente deciso dalle Nazioni Unite i nostri militari dovrebbero tornare in Iraq. In sostanza, il discrimine tra la pace e la guerra, il bene e il male passerebbe tra maggio e giugno: ho l’impressione che tutto questo appaia strumentale e stucchevole a molti cittadini italiani».
Anche questo è un modo per dividersi, o no? «No, quando le divisioni sono vere, sono drammatiche, allora appassionano. Quando ci siamo divisi tra chi voleva tenere assieme il Pci, e chi voleva cambiare la natura del partito, il risultato fu una grande emozione per il paese. E il paese ebbe la sensazione che ci dividevamo attorno a grandi questioni, a un’analisi dei processi storici. E non su piccole cose, creando la sensazione che l’enfasi del dibattito sia strumentale per fini elettoralistici. È chiaro che questa operazione politica della lista unitaria crea tanti problemi, preoccupazioni e resistenze e spinge anche qualche nostro alleato a cercare più di creare difficoltà a noi che non di combattere Berlusconi».
Perché? «Ma perché cambia lo scenario politico in modo radicale, sia a destra, dove nel caso di sconfitta preferiscono di gran lunga la dispersione del voto...».
Aspetti un attimo, cosa intende per dispersione del voto? «Se all’indomani delle elezioni europee noi abbiamo un voto di protesta in cui la sconfitta della maggioranza di governo si traduce nel fatto che alcuni prendono il 2,5 altri il 3,1 e via dicendo, e in questo quadro tu non hai un’affermazione della nostra lista di alternativa, diranno che è un voto di protesta che ha penalizzato tutti. Diranno che non tocca gli equilibri politici del paese. Se invece loro cadono, e la lista Prodi ha una grande affermazione, beh questo è un avviso di sfratto per il governo».
Ma poi ci vuole lo sfratto esecutivo. «Certo, ma i governi entrano in crisi quando matura un’alternativa. È naturale che la lista unitaria, da sola, non è l’alternativa, ma è anche evidente che una grande forza riformatrice che si affermi come centrale e trainante per tutto il centrosinistra darebbe una grande forza e una grande credibilità a una nuova prospettiva di governo, che non può fondarsi solo sulla somma teorica delle percentuali raccolte dall’insieme dei gruppi e dei partiti dell’opposizione. Se il voto contro il governo si disperde, non incide sull’equilibrio politico. Quindi, il compito della lista unitaria è mettere in campo un’alternativa di governo».
Torniamo alle cifre, che sono fondamentali. «Innanzitutto, come in tutti i paesi europei è fondamentale vedere chi arriva primo. Quindi, è fondamentale che la lista unitaria si affermi come la prima forza del paese e con un largo margine di vantaggio sulla lista di Berlusconi. È evidente che il primato della nostra lista si collocherà oltre il 30% dei voti, poi sarà molto importante il numero che viene dopo il tre. Un risultato simile rappresenterebbe una svolta nella vicenda del sistema politico italiano degli ultimi dieci anni».
Ma dopo quel 3 che numero deve seguire? «Se c’è un numero cospicuo, è chiaro che la differenza la farà il numero che viene dopo. Ed è chiaro che si tratterebbe di un risultato che cambia lo scenario politico. E questo dà fastidio».
Vogliamo dire il 33 per cento: un terzo dell’elettorato? «Se arrivi a un terzo dell’elettorato, vuol dire che hai costruito un pilastro fondamentale per una prospettiva di governo. La mia opinione è che, a partire dal risultato elettorale, il processo unitario di costruzione di un nuovo soggetto politico debba essere portato avanti con realismo e gradualità, ma anche con coraggio e determinazione».
Ma lei pensa che questo sforzo unitario crei dei problemi, oltre - naturalmente - al governo, anche all’interno della coalizione? «Debbo dire che sono rimasto colpito, iniziando la mia campagna elettorale, in particolare nel Mezzogiorno, dello spirito unitario che ho trovato ovunque, dalla presenza e dall’impegno di esponenti di tutti i partiti e della società civile, e mi sono sentito più che mai capolista di tutti e non esponente di parte. Adesso guardiamo avanti, a cominciare dalla posizione unitaria che abbiamo elaborato e presentato in Parlamento sull’Iraq».
La vicenda irachena ha, però, acutizzato le distinzioni con l’ala sinistra, o radicale che dir si voglia, della coalizione, come prova la presentazione di due diverse mozioni: da quella parte, tutta puntata sul ritiro immediato come precondizione dell’intervento dell’Onu, mentre la lista unitaria dà la priorità alla svolta e fa derivare il rientro dei militari italiani dall’impossibilità di realizzarla. «Non mi scandalizza che vi siano due mozioni. Osservo solo che la distinzione mi sembra drammatizzata artificiosamente.
Ma c’è. Pesa la competizione prossima ventura per le europee? «Certamente ognuno cerca di rivolgersi all’elettorato anche marcando la propria identità piuttosto che ricercare l’unità con gli altri».
Non vale anche per la lista unitaria? «Ma la lista Prodi l’unità l’ha ricercata e l’ha trovata positivamente...».
Con una seria riserva nel correntone ds. Ha letto quel che è stato scritto sul sito di “Aprile”: se foste stati al governo, la presentazione di due mozione avrebbe comportato una possibile crisi... «Francamente, credo sia una sciocchezza: se il centrosinistra fosse stato al governo, i soldati in Iraq non li avrebbe mandati. E non ci sarebbe nessun dibattito sul ritiro. Il problema è che, oggi, non serve a nulla testimoniare questa nostra posizione già nota. E non si capisce quale utilità avrebbe per l’Iraq e per l’Italia discutere in Parlamento, domani, la richiesta di ritiro e farsela bocciare».
Invece, con la mozione della lista unitaria? «Mettendo in relazione il possibile ritiro con la richiesta di una svolta gestita dall’Onu, noi sviluppiamo una iniziativa politica che cerca di mettere in difficoltà il governo e quelle stesse forze della maggioranza che invocano l’Onu, cercando di incidere sulla realtà e non soltanto di testimoniare nuovamente la nostra contrarietà alla guerra».
Sareste disponibili a una convergenza bipartisan? «Il problema è se il governo sia disponibile - e non mi pare - a riconoscere di avere trascinato il paese in una avventura pericolosa, coinvolgendolo in una guerra ingiusta e sbagliata come dimostra la catena di errori e orrori che ne è seguita. E se oggi intende agire per una svolta vera, profonda. Che significa il passaggio non a un governo iracheno fantoccio ma effettivamente rappresentativo della realtà irachena. Cosa che solo l’assunzione della piena responsabilità dell’Onu può garantire...».
Responsabilità piena: politica e militare? «Politica e anche militare. Spetterà al Consiglio di sicurezza decidere in quale forma».
È commisurabile un tale processo con le scadenze del confronto parlamentare? «Le date sono fissate dal piano Brahimi: non le stabiliamo noi. Mi è scappato detto in un’occasione che tutta questa discussione sulle date è ridicola: non è che dire maggio è più di sinistra che dire giugno...».
Sarebbe più di sinistra cosa? «Una discussione strettamente legata all’operatività dell’intervento delle Nazioni Unite. Il piano dell’inviato speciale Brahimi dice che le personalità che debbono entrare a far parte del governo iracheno siano scelte entro maggio, non entro giugno, per preparare il passaggio dei poteri che, altrimenti, non potrà avvenire, come stabilito, il 30 giugno...».
E il 30 giugno scade anche il decreto che finanzia la missione italiana in Iraq: per chiudere la querelle sulle date, si può assumere il 30 giugno come cartina di tornasole dell’alternativa tra svolta e ritiro?«Senza dubbio: è lo spartiacque segnato dal Consiglio di sicurezza. Il mio interesse va a questo processo politico, in cui l’Europa può incidere positivamente. Già un gruppo di paesi europei ha cominciato ad agire insieme: Germania, Francia, Spagna...».
E l’Italia? «L’Italia, o meglio: il governo italiano si è vantato di essere l’alleato più fedele di questa amministrazione degli Stati Uniti. Si è accodato alla destra americana che ha trascinato l’Occidente nella più disastrosa avventura della sua recente storia: la teoria della guerra preventiva ha esposto il mondo occidentale non solo a una sconfitta, bensì a un disastro sotto il profilo etico».
Perché non è proprio un bel modello di democrazia quello che si sta «esportando»? «Non sono tra quelli che dicono che bisogna fare le guerre per la democrazia, ma considero la democrazia un grande valore. Se però la democrazia occidentale si presenta con il volto della guerra preventiva, la fa sulla base della menzogna, occupa un paese e lo tiene con la violenza e le torture, così facendo mette radicalmente in gioco le sue ragioni più nobili sotto il profilo etico. Una guerra che, come quella in Iraq, ha aperto una ferita nel mondo arabo ed eccitato il risentimento religioso rischia di fare al terrorismo fondamentalista il più straordinario favore, perché offre ad Al Qaeda l’alibi per cavalcare lo scontro di civiltà e presentarsi come la punta di diamante del mondo islamico».
Ma la sfida del terrorismo è in campo. E ormai minaccia anche l’Europa, come si è tragicamente visto a Madrid. C’è una risposta di sinistra? «La sinistra sbaglierebbe se considerasse il terrorismo fondamentalista come il riflesso degli errori dell’Occidente. Siamo di fronte a una sfida reale, a un pericolo vero, da affrontare come tale. Tanto più è il momento di mettere in campo una strategia diversa rispetto a quella unilaterale che ha ha provocato un impatto disastroso: in Iran c’è stata una sterzata conservatrice, in Medio Oriente la crisi si è aggravata in forme drammatiche, il mondo arabo si sente spinto indietro. C’è bisogno di riaprire un dialogo con il mondo arabo, e restituire prestigio, autorità e ruolo alle istituzioni internazionali».
To
ny Blair, che è indubbiamente parte della sinistra europea, ha condiviso quella risposta. È recuperabile a quest’altra? «Spero proprio voglia impegnarsi nel rilancio dell’intervento dell’Onu. La nostra opinione - e gli è nota - è che abbia sbagliato a scegliere la guerra. Ora, l’interventismo democratico e umanitario, come egli stesso l’ha definito, è di fronte alla prova della verità, in particolare sotto il profilo degli effetti che la vicenda irachena sta avendo sulla crisi mediorientale».
Il Medio Oriente resta il focolaio di tutte le tensioni? «Sinceramente è difficile individuare una sola ricaduta positiva: Sharon appare indebolito nel suo stesso disegno unilaterale, già carico di ambiguità perché nel momento stesso in cui annunciava il ritiro parziale da Gaza accennava all’annessione di una parte della Cisgiordania. Adesso, dopo il voto nel Likud, non si capisce bene che ne è di questo disegno....».
Sono - come si dice - i costi della democrazia? «Un momento. È una curiosa democrazia quella che sottopone decisioni cruciali per l’avvenire di un popolo al diritto di veto di una parte degli iscritti di un partito, parte di un governo di coalizione. Il tema della pace in Medio Oriente deve tornare a impegnare seriamente la comunità internazionale. Nell’ultimo documento del cosiddetto quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione europea e Nazioni Unite) si parla di un cessate il fuoco garantito da osservatori internazionali. Ne sono lieto perché nella stessa direzione si muoveva una delle proposte emerse dalla recente missione dell’Internazionale socialista a cui ho partecipato. E mi auguro che anche le altre proposte per un effettivo impegno internazionale siano prese in considerazione».
Forse si potrebbe allargare il discorso alla concezione dell’uso della forza da parte della sinistra, visto certi richiami polemici del centrodestra alla vicenda del Kosovo, dove l’Italia è intervenuta con lei alla guida del governo. Quali i punti di contatto e quali le differenze? «Intanto, in Kosovo - e non soltanto in Kosovo: prima in Bosnia - intervenne la Nato, che è l’alleanza di cui facciamo parte, con l’assenso dell’Unione europea, che è l’istituzione in cui ci riconosciamo. Non intervenne una coalizione di volenterosi, e non è differenza di poco conto. Allora, la comunità internazionale usò la forza per fermare una spaventosa guerra civile nei Balcani, forse tardivamente visto che già si era consumata una tragedia costata trecentomila mila morti, e creare le condizioni di una difficile convivenza. Fu una scelta dolorosa, sofferta. Imparagonabile, dal punto di vista della gestione politica e dello sforzo di ricostruire un tessuto internazionale, con le vicende di oggi. Intanto, perché l’Italia fu protagonista: fummo noi a liberare Rugova, l’uomo della mediazione, poi diventato presidente del Kosovo; noi a tenere i rapporti con i russi. Lo ricordo per dire come vi fu allora una politica estera italiana che non rinunciò, nel mezzo del conflitto, a percorrere le vie diplomatiche e politiche...».
Non senza polemiche... «Sì, mi si rimproverò una frase che esprimeva la speranza che si potesse fermare subito l’azione militare per passare a quella politica. E il mio governo contestò apertamente i bombardamenti delle città della Serbia, tanto è vero che questi furono fatti direttamente dagli americani e dagli inglesi, non dalla Nato. Ma quel che più conta è che, con l’Italia, ebbe un ruolo l’Europa nel rapporto con gli americani: dicemmo insieme che l’obbiettivo era impedire la pulizia etnica e difendere i diritti della minoranza albanese nell’ambito della federazione jugoslava, non rovesciare un regime o cambiare la geografia con le armi. E, alla fine, l’esito del conflitto, con il ritiro delle truppe serve dal Kosovo, fu negoziato con le autorità di quel paese. Non un soldato ha occupato il Kosovo senza il mandato delle Nazioni Unite. Anzi, a entrare per primi nel Kosovo furono i russi, che erano stati contrari all’azione militare. Ecco, se proprio si vuole fare paragoni, lo si faccia sul come, pur in una situazione critica e difficile con una comunità internazionale divisa, non si dismette di fare politica».
Oggi la politica è di fronte alla prova elettorale europea. Lei, D’Alema, è l’unico leader di primo piano del centrosinistra ad essere candidato. Questa scelta dell’Europa come nasce? «Muove da due ragioni. La prima di carattere squisitamente politico. Io penso che la lista unitaria sia una operazione significativa, alla quale attribuisco un grande valore, sia dal punto di vista delle prospettive del nostro paese, sia dal punto di vista del rinnovamento e dell’allargamento dei confini della sinistra europea. E siccome, per carattere, quando a una cosa credo, la faccio, non ho avuto dubbi sul mio impegno in prima persona».
E la seconda ragione? «È che penso che questo Parlamento europeo sarà davvero importante. Una parte del dibattito sul ruolo dell’Europa nel mondo passerà da lì. Ho visto che ci sono, almeno nell’aerea socialista, delle candidature significative e autorevoli. Vuol dire che si sta facendo un investimento serio e che nel nuovo Parlamento europeo prenderà posto un pezzo di classe dirigente vera».
La lista unitaria nelle europee ha un punto di riferimento: Romano Prodi. La gestione di Prodi, anche in vista di una sua discesa in campo diretta alle prossime politiche, non è però semplice. Per gli attacchi che gli vengono rivolti. Per il fatto che lui continua a essere il presidente della Commissione europea ma guida la lista unitaria. Ci sono dei rischi? «Prodi ha deciso di non candidarsi. Con un atto di grande serietà e responsabilità, tanto più apprezzabile in un mondo dove tutto è diventato legittimo. Prendete il caso del presidente del Consiglio. È una figura ineleggibile. Ma è anche l’unico capo di governo che si candida alle europee in una smania narcisistica che non ha eguali in nessun paese civile. Ora, è inconcepibile che Berlusconi possa attaccare il presidente della Commissione europea, il quale tra l’altro sarebbe invece eleggibile, perché dovrebbe essere superpartes. Il problema di Prodi non è quello di essere super partes: la sua non è una figura istituzionale ma una carica politica».
Vuole dire che il vulnus vale più per Berlusconi che per Prodi? «Certo, Berlusconi in quanto capo del governo, non avrebbe decentemente potuto, tanto più in un momento difficile come questo, candidarsi dappertutto e buttarsi in campagna elettorale. C’è una totale cattiva fede nel rimproverare a Prodi una scarsa correttezza. Prenda Gianfranco Fini, il quale oltre a candidare se stesso ha candidato i suoi ministri. Lo reputo uno spettacolo indecente».
Perché tutti ineleggibili? «Appunto. E sono tutti candidati. Ma perché? Per far pesare il loro potere, le loro relazioni, salvo poi mandare a Strasburgo degli anonimi portaborse. Dietro questo atteggiamento c’è una una forma di truffa nei confronti degli elettori. Il messaggio è: “vota Fini”. Ma poi Fini, dopo aver chiesto e ottenuto i suoi voti, in Europa a fare quel lavoro non ci andrà. E ci manderà invece uno che i suoi elettori non sanno chi è. È come mettere una etichetta falsa. Sono come i prodotti taroccati cinesi. Tu metti l’etichetta Fini su un signor Pinco Pallino che con mille preferenze diventa il rappresentante dell’Italia in Europa. Mentre Fini ne prenderà centomila di voti, e poi se ne rimane a Roma».
Un tradimento verso i propri elettori, insomma? «È difficile far capire quanto sia grave questo modo di fare. Prendete la grande stampa, quella paludata, terzista, bipartisan: su una cosa del genere dovrebbe fare una campagna fortissima, farla diventare una grande battaglia etica. Invece da noi si fatica soltanto a far capire il concetto».
In ogni caso Prodi non si è candidato. E quando terminerà il suo mandato... «Diventerà il capo dell’opposizione».
Sarà eletto in Parlamento? «Può essere, dipenderà anche da lui. Se si creeranno le condizioni. Sinceramente non è obbligatorio che il leader dell’opposizione sia membro del Parlamento. Ma quello che veramente è importante, è riuscire a dare una leadership più avanzata e più moderna alla coalizione di centrosinistra».
Beh, è una leadership già sperimentata, nel passato. «È vero, ma era una leadership indicata dai partiti e sovrapposta alla loro realtà organizzativa. A differenza da quel che avviene nel resto d’Europa dove il capo del governo è sempre anche il leader del maggiore partiti della maggioranza, il che gli conferisce una particolare forza e radicamento. Ad un certo punto lo stesso Prodi ha verificato la fragilità di quel modello di leadership».
Quindi, quella stagione del centrosinistra non è più un modello? «Lo spirito originario dell’Ulivo non solo è vivo ma va recuperato. E però la coalizione deve essere organizzata su basi nuove. Non dobbiamo ripercorrere gli stessi errori. Non è un caso che io abbia chiamato provocatoriamente questa lista unitaria “il partito di Prodi”. Prodi può tornare ad essere il leader del centrosinistra in quanto leader della più grande forza del centrosinistra. Oltretutto di una forza che può raggiungere dimensioni finalmente europee».
Questa leadership più forte in che modo deve strutturarsi, rispetto alle forze che la sostengono? Il rapporto con Prodi deve essere più stretto e più organico? «Credo che si debba costituire una federazione di forze: partiti, movimenti, associazioni. Che vuol dire avere gruppi dirigenti unificati, messi in grado di lavorare e decidere assieme».
Ha fatto rumore un accenno al «partito nuovo» nel suo saggio pubblicato sull’ultimo numero di “Italianieuropei”. Cos’è: una reminiscenza togliattiana o vuole mettere assieme anche le sezioni di partito? «No. Anzi. Credo che sia persino ragionevole avere organizzazioni autonome sul territorio. Si tratta, in fondo, di storie e percorsi diversi. In questo senso, la “reductio ad unum” può persino impoverire il panorama e il patrimonio attuali. Quando parlo di nuova formazione politica non mi riferisco a un partito di tipo tradizionale, ma - come, appunto, ho scritto su “Italianieuropei” - a un soggetto dal carattere federativo e aperto, pluralistico e “multiculturale”, che sappia esprimere un progetto politico e programmatico unitario, una rappresentanza comune nelle istituzioni, un solo gruppo dirigente pure nel pluralismo delle opinioni politiche. L’importante è che ci sia questa sintesi».
Questa sintesi si può raggiungere soprattutto con una certa disciplina politica? «Sì, ma ci vuole anche la capacità e la generosità di Prodi di presentarsi come quello che apre una pagina nuova, che mette assieme le forze e le personalità migliori del centrosinistra. Non si può pensare di costruire operazione di questa portata per esclusione».
Cosa vuol dire? «Voglio dire che in realtà noi abbiamo perso molto tempo in una lotta tra noi. Ma si è trattato di una lotta vana. Intanto, perché finché uno ha una forza politica non lo puoi eliminare. Se il problema è chi conta di più, vince chi conta di più. Per ragioni storiche il centrosinistra e la sinistra in Italia sono sempre sempre state una federazione di personalità diverse».
Non è che poi viene fuori una federazione di ruggini? «Non si può pensare di avere una logica liquidatoria come per una fase è sembrato. Se hai l’ambizione di togliere di mezzo un gruppo dirigente, al suo posto devi mettercene un altro. Se non ne hai un altro non togli di mezzo niente. Apri solo un processo di logoramento, inutile e dannoso. Ecco perché dico che, nel passato, ci siamo fatti del male da soli».
Oggi questa stagione si è chiusa? «Penso proprio di sì. Non vedo i segnali di questo tipo di conflittualità. Credo che in questo abbia dato un contributo notevole Fassino, col suo buon senso e una rara dose di pazienza».
Ora si va alla sfida elettorale. Con un premier e ministri che vantano un record di durata ma non riescono a nascondere la perdita di popolarità e consenso. Soprattutto, non gestiscono politicamente nulla ma cercano di occupare tutto. Che partita sarà? «È vero, il paese appare privo di una strategia di fronte a una crisi drammatica. Che sarebbe, però, ingiusto far risalire esclusivamente alla politica del governo Berlusconi. Indubbiamente, sono venuti al pettine nodi più di fondo con la caduta di competitività del paese. Il punto è che questi problemi esaltano ancora ancora di più l’assenza di una cultura di governo da parte di questa maggioranza. Sta fallendo l’idea dell’Italia che Berlusconi ha messo in campo e sulla quale aveva vinto le elezioni: quella del miracolo, di uno sviluppo da rimettere in moto abbassando la soglia delle regole, allentando i vincoli dei lacci e lacciuoli, lasciando liberi gli spiriti animali, condonando gli abusi e gli illeciti».
Una sorta di liberismo all’italiana? «Direi molto all’italiana. Il liberismo del “se po fa”, nutrito di una cultura antistatale, che ha già provocato guasti enormi, facendo ripiombare l’Italia in un conflitto drammatico e, allo stesso tempo, gratuito. O ideologico, come nel caso dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Qualcosa che ha corroso lo spirito di coesione del paese».
Lasciando, invece, incancrenire situazioni come quelle esplose alla Fiat di Melfi o all’Alitalia? «Appunto. Siamo di fronte al nodo del sistema paese, a una sfida enorme che comporta una revisione e riorganizzazione profonde del sistema produttivo, del rapporto tra scuola, ricerca e produzione, del modello di competitività italiana. C’è da aiutare il paese a salire il gradino, non pensare a mosse furbesche per aggirarlo».
Come con il taglio delle aliquote fiscali alte? «Non so cosa stiano architettando. C’è il rischio di nuovi trucchi che finirebbe inevitabilmente per compromettere la già precaria situazione della finanza pubblica. Sarebbe grave poi pensare, come si sente dire, di tagliare gli incentivi per gli investimenti al fine di finanziare i consumi dei ceti più ricchi. Come non capire che tutto questo può compromettere ulteriormente la stabilità dei nostri conti pubblici? Il che non è un dispetto a Bruxelles, ma una minaccia all’Italia dal momento che compromettere la credibilità del paese e far ripartire i tassi d’interesse significherebbe ridurre i margini di spesa pubblica primaria (meno scuola, meno ospedale, meno polizia), colpire il sistema delle imprese (di cui conosciamo l’indebitamento) danneggiare le famiglie (pensiamo a cosa accadrebbe ai mutui indicizzati). Insomma un disastro per il paese, per le famiglie, per gli stessi imprenditori».
Ci sarà pure qualcuno che ci guadagna... «La ricetta è sempre la stessa: mettere un po’ di soldi nelle tasche dei ceti alti perché i consumi di lusso facciano da volano alla ripresa dell’economia. Ma è una ricetta che non funziona, anzi rischia di ritorcersi contro il paese. Il vero miracolo italiano non è stato fatto solo con le esportazioni e le svalutazioni competitive degli anni Settanta-Ottanta, ma si è retto sui grandi investimenti pubblici, sulla rete delle infrastrutture, sulla crescita della produttività degli anni Cinquanta e Sessanta».
Quindi? «O si promuovono grandi investimenti, anche pubblici, nell’innovazione, nella ricerca, nel trasferimento di tecnologia, nelle grandi infrastrutture moderne, oppure si persevera in una cultura di tipo parassitario. La stessa ripresa americana si basa su un grande programma di investimenti: purtroppo hanno investito nella guerra, che come sappiamo ha prodotto ben altre controindicazioni».
Dice niente: i grandi investimenti, sia pure politicamente corretti, costano. Dove prendere le risorse? «È il vero problema. Nostro e dell’Europa. Non l’impaccio dei “lumaconi”, come dice Berlusconi per giustificare la sua richiesta di sforare i margini di spesa».
I vincoli del patto di stabilità non pesano anche sulla sinistra? «Guai a noi se predicassimo l’ortodossia monetarista, ma vi sono modi diversi anche di concepire la ragionevole flessibilità dei parametri del patto di stabilità. Uno è rinazionalizzare le politiche economiche, per ripristinare interventi assistenziali, clientelari o di privilegio sociale: insomma, tornare al passato. L’altro è agire sul bilancio per destinare una quota del pil europeo a un grande programma dal serio impatto anticongiunturale. Ecco, è questa visione alternativa della politica, italiana ma strettamente intrecciata al futuro dell’Europa, che dovremmo far valere in questa campagna elettorale».
Avvelenata dal blitz sulle nomine Rai che hanno costretto la presidente di garanzia, Lucia Annunziata, alle dimissioni. Torna l’idea che le elezioni si vincono in televisione? «Quello che è avvenuto alla Rai è il paradigma dell’arroganza e del disprezzo non solo per le regole, ma anche per i valori professionali che questa maggioranza sta praticando in tutti i campi. Io non sono facile all’indignazione, ma leggendo le dichiarazioni del consigliere Alberoni, debbo dire che sì, mi sono indignato per quel particolare tono di complicità nel misfatto. Che questi signori non sentano il dovere di dimettersi e replichino con tanta arroganza mi pare una brutta macchia nelle loro biografie di cittadini e intellettuali».
Dunque, conta su un effetto controproducente? «Un assalto al servizio pubblico, al pluralismo e alla libertà d’informazione così smaccato, pesante e grave non è privo di conseguenze. E lo dico non perché creda che Berlusconi abbia vinto le ultime elezioni politiche per la tv: sarebbe un’analisi sbagliata. Semmai c’è da fare un discorso più profondo: Berlusconi è l’archetipo del cittadino italiano a cui rivolge la sua politica. Si rivolge a un paese arato da un certo modo di fare televisione e cultura, ed è diventato forte per i modelli culturali che la sua televisione ha diffuso. Ma questo è un discorso che rientra nell’assoluta anomalia della situazione italiana che dobbiamo affrontare con il nostro progetto alternativo di governo».
Non per riaprire vecchie ferite, ma non sarà un po’ tardi? «Mi prendo la mia parte di responsabilità per il pregresso, anche se mi permetto di far notare come la tanto discussa par condicio, che per quanto imperfetta e discutibile un qualche argine lo ha posto (altrimenti, oggi, saremmo invasi dagli spot di Berlusconi su tutte le reti e a tutte le ore), è una normativa varata dal governo che ho presieduto. Aggiungo che per portare a casa quel risultato, ci scontrammo con buona parte di quelli che poi mi hanno accusato dei peggiori inciuci. Ma lasciamo perdere. Lo ricordo solo perché c’è sempre bisogno di dire cose di sinistra ma non considero meno rilevante riuscire a farle. E possibilmente in modo serio».