Intervista
4 novembre 2004

La sconfitta di Kerry è una lezione anche per noi. Non servono battaglie "contro"

Intervista a Massimo D'Alema di Federico Geremicca - La Stampa


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L’insegnamento ... Ecco, appunto: qual è l'insegnamento che il capitombolo di Kerry consegna alla sinistra europea, e a quella italiana in particolare? Come è ovvio, a frittata fatta, è tutto un gran fiorire di tesi e ipotesi, calcoli, analisi e perfino pudici e sussurrati “io l'avevo quasi detto”. Massimo D'Alema, invece, rende prima di tutto l'onore delle armi a JFK ed alla sua battaglia. E se proprio deve provare a spiegare le ragioni della sconfitta, si rifugia nel passato.
Perché sì, sarà pure il tempo di Internet e della globalizzazione, e magari apparirà demodè il farlo: ma lui cita Gramsci. Dice: “A proposito di egemonia - parola che è stata spesso equivocata - Gramsci spiegava: l'egemonia è di chi comprende il nocciolo di verità che c'è nel punto di vista del suo avversario”.
Sembra un parlar d'altro, ma applicando questa regola a una campagna elettorale dominata dal tema della guerra e dalla paura del terrorismo, D'Alema azzarda: “Una sinistra - e parlo anche di noi - che non capisse e anzi disprezzasse il bisogno di sicurezza che c'è nel popolo americano e non solo americano, sarebbe una sinistra destinata alla sconfitta”.
Uno degli inciampi di John Kerry sta forse qui. Ed a questo inciampo avrebbe fatto da moltiplicatore un vezzo antico di certa sinistra (americana e non) contro il quale Massimo D'Alema, in verità, si batte da tempo con fortuna assai alterna. Infatti dice: “Le, elezioni americane confermano che, alla fine, un certo radicalismo non aiuta. Penso alle ironie, alle barzellette su Bush, a certe gag sul presidente stupido ... Una cosa che c'è anche da noi, e mi riferisco a un certo antiberlusconismo salottiero al quale, in America, hanno corrisposto - come dicevo – barzellette e prese in giro del presidente.

Da tutto ciò Kerry ha preso chiaramente le distanze: ma il danno era fatto, a conferma che questo armamentario non serve, non è utile. E' stato fatto uno studio – argomenta D'Alema - sull'effetto elettorale, per esempio, del film di Michael Moore sull’11 settembre: negativo per i democratici, perché ha avuto l'effetto di rimotivare i sostenitori repubblicani. Ripeto: la battaglia elettorale comporta anche la comprensione e il rispetto delle ragioni e della forza degli altri: altrimenti si perde”. Ma ciò detto, il presidente, dei Ds esalta la rimonta di Kerry, parla di un'America divisa perfettamente a metà e ipotizza un distacco crescente tra l'opinione pubblica europea e la riconfermata amministrazione di George Bush. E non nasconde, naturalmente, una certa delusione: “Nelle ultime ore - ammette - si era diffusa una aspettativa positiva. Ora, certo, un qualche contraccolpo psicologico c'è”.

Intanto presidente, e scusi l'approccio senz'altro provinciale, colpisce il riferimento che lei fa al radicalismo che non aiuta ed a certo antiberlusconismo salottiero...“Dovremmo parlare di elezioni americane, no?”.

Certo, ma dovrebbe spiegare meglio con chi ce l'ha quando punta l'indice contro l'antiberlusconismo salottiero!
“Io non ce l'ho con nessuno. Dico solo che si conferma la validità di un certo insegnamento e di una linea, la nostra, che tende appunto ad arginare certe posizioni. Anche da noi ha avuto corso l'analisi che per vincere bisognava essere più contro Berlusconi. Si conferma che non è vero, che non è questo il punto. in una mobilitazione semplicemente "contro", tu attivi i tuoi, è vero. Ma poi c'è un salto da compiere: e avviene nel momento in cui ti dai carico anche dei sentimenti degli altri, riuscendo a presentarti come una forza che, a prescindere da chi ha di fronte, è in grado domani di es5ere la guida di tutto il paese”.

E' stato questo il limite del candidato democratico?
“Kerry ha combattuto in condizioni difficilissime, e ha aperto una partita che in avvio sembrava senza storia. I1 punto è che – e capisco che non è facile – nelle battaglie elettorali occorrerebbe mobilitare i propri sostenitori senza provocare e offendere gli altri. Alla fine, è uscito confermato un principio ormai consolidato: che le campagne fondamentalmente negative non vincono. Forse, il limite della grande battaglia dei democratici - che è stata grande davvero, che ha spostato ampie fasce di elettorato e che non va trattata con sufficienza - è che si è risolta comunque in un referendum pro o contro Bush. E quando vai a un referendum pro o contro qualcuno, sei più debole”.

E così torniamo alle polemiche nostrane...
“Nient'affatto. Ma sarebbe sbagliato non vedere che quel principio vale anche per noi. Io non credo che il voto americano cambierà l'orientamento del nostro Paese, non credo che si rifletterà automaticamente sugli orientamenti dell'opinione pubblica italiana: anzi, per certi aspetti, si profila una divaricazione tra l'opinione pubblica europea e quella americana. E credo, soprattutto, che la vittoria di Bush non cambierà il destino declinante del governo Berlusconi. Anche perché in Italia abbiamo una destra che non ha la forza di quella americana, capace di combinare - in questa occasione - ideali e interessi. Ma da quel voto arriva un evidente insegnamento anche per noi: e cioè che se la sfida alla destra italiana assume il carattere di un referendum pro o contro Berlusconi, ecco, quello non è il terreno migliore per noi”.

La sinistra, intanto, appare molto delusa per l'esito del voto. Lo è anche lei?
“Io credo che una certa delusione ci sia nella maggioranza dell'opinione pubblica europea, convinta che Kerry rappresentasse una possibilità di migliorare i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Ora è chiaro che l'Europa e l'Italia devono cercare di collaborare can l'amministrazione americana che c'è, non con quella che vorrebbero, e per certi aspetti la conferma di Bush impone all'Europa una maggiore coesione per cercare di condizionare gli Stati Uniti. Un'Europa che continuasse a essere divisa tra paesi che si accodano e paesi che si appartano, rischierebbe di essere ininfluente. Ce la farà? Io credo che spetti anzitutto ai maggiori governi europei - penso alla Francia, alla Germania, alla Gran Bretagna - trovare un'intesa per chiedere una svolta alla nuova amministrazione. Ma, tornando al voto, mi pare che le elezioni abbiano rappresentato un momento di mobilitazione assolutamente straordinaria e per l'opposizione siano state un sussulto di vitalità. Ora c'è un paese diviso a metà. Con Bush ricandidato e nel vivo di una guerra, non c'è stato quel plebiscito che avrebbe potuto esserci. Al contrario, il voto è molto contrastato.
I democratici prevalgono in quasi tutti gli Stati evoluti, c'è una frattura orizzontale tra l'America più colta, quella dei grandi giornali di informazione, delle metropoli cosmopolite, e un'America profonda nella quale ha prevalso il senso di paura, il bisogno di sicurezza ed il legame con i valori che questa destra rappresenta. Ora si aprono grandi interrogativi su cosa farà la nuova amministrazione Bush, che ha di fronte problemi molto seri. A cominciare dalia guerra in Iraq.

Crede anche lei che una svolta sia possibile, nonostante la rielezione di George Bush?
“Questo non è facilmente prevedibile. Io credo che non possiamo interpretare la destra americana di oggi con le stesse categorie con le quali interpretavamo la destra repubblicana di ieri. Quella era pragmatica, campione diReal Politik; questa è una destra ideologica con aspetti anche di fanatismo, di fontamentalismo religioso. Vedremo, qualcosa si capirà meglio quando il presidente sceglierà la
sua squadra, se ci saranno cambiamenti e quali cambiamenti. Per ora occorre prender atto della vittoria di Bush e del fatto che è stato in grado di interpretare meglio i sentimenti più profondi della maggioranza del popolo americano: innanzitutto la paura”.

La paura?
“Ha prevalso l'idea sbagliata che di fronte alla minaccia del terrorismo e in piena guerra la scelta fosse quasi tecnica, cioè più del capo supremo dell'esercito che di un nuovo presidente. Ma credo sia stato scelto anche il candidato che, sul piano dei valori, ha proposto e puntato più nettamente su una "scelta di civiltà” in quello che è stato presentato e appare oggi come uno scontro di civiltà. Non c'è dubbio che in Bush, al fondo, vi sia un'idea muscolare della politica che è però nutrita - e questo non bisogna dimenticarlo mai - dallo choc dell'11 settembre. La sua rielezione è un modo anche di reagire a un sentimento, appunto, che resta di paura. Un paese che si sente invulnerabile può anche essere capace di generosità; un paese che si sente vulnerabile e minacciato è un paese che tende a reagire in maniera più aspra e più dura. Bush l'ha capito, e ha vinto puntando tutto su un sentimento così.

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