Discorso
4 febbraio 2005

"Noi siamo l’Italia che non si arrende al declino"

Testo dell'intervento al Congresso dei Democratici di Sinistra


Cari amici, invitati al nostro Congresso, cari amici dell’Ulivo, cari amici del centrosinistra, care compagne e cari compagni, tutti noi sentiamo che questo congresso ha i tratti di un momento importante, non solo per noi, ma per la storia del paese.

Ieri con grande forza, Piero Fassino ed oggi con lui Romano Prodi, hanno parlato all’Italia, non soltanto a noi stessi, alle donne e agli uomini del nostro Paese. Hanno parlato di un Paese impaurito, preoccupato per il suo futuro, di un paese diviso e stanco che ha bisogno di unirsi per vincere nuove sfide, che ha bisogno di tutto quello slancio vitale di quella intelligenza, di quella creatività che sono le sue qualità migliori e che nei momenti più difficili della nostra storia si sono manifestate e hanno consentito di riprendere il cammino del progresso e della crescita civile.

A questo paese Piero Fassino e Romano Prodi hanno parlato il linguaggio della fiducia e della speranza innanzitutto dicendo la verità ma anche indicando le risposte, il cammino da percorrere, le scelte difficili che sono di fronte a noi, di fronte ad una grande forza unitaria - quando dico noi dico tutti noi, dico la grande alleanza del centro sinistra – una forza che si prepara a governare il Paese e che sa che la condizione per vincere la sfida che sarà aspra in questi quindici mesi così importanti per l’avvenire dell’Italia, è la serenità, è la capacità di parlare a tutti gli italiani, è la forza di un progetto che restituisce appunto speranza e fiducia.

Nelle campagne elettorali che pure abbiamo vinto tutte negli ultimi tre anni, abbiamo anche incontrato molti cittadini che dicevano “sì, non c’è nulla da sperare da loro ma non mi fido neanche di voi”. Un’Italia che rischia di rimanere ai margini perché ha perso fiducia nel governo e non ha speranza nell’opposizione, un’Italia che noi dobbiamo sapere convincere, riportare al voto, conquistare ad un grande progetto di rinnovamento ponendoci l’obiettivo di straordinaria novità di conquistare al centrosinistra il consenso di una maggioranza assoluta degli italiani. Così non fu neppure quando vincemmo ma oggi appare possibile.

Nella giornata di ieri il “grande comunicatore” ha sbagliato, dimostrazione che egli non è infallibile. In un paese civile quando parla il maggior partito dell’opposizione il capo del governo ascolta e poi il giorno dopo risponde. L’idea di riunire una raffazzonata riunione con l’obiettivo dichiarato di oscurare il congresso dei democratici di sinistra, di tenere un’improbabile concione che ha avuto al centro l’improbabile parallelo tra Piero Fassino e Giuseppe Stalin, improbabile non solo per i baffi…, questa trovata del Presidente del Consiglio ha avuto come effetto soltanto quello di fare emergere con ancora maggiore evidenza il contrasto tra la passione e la serietà di ciò che noi andiamo elaborando e proponendo per il futuro dell’Italia e la pochezza di quello che oggi si esprime nella leadership dello schieramento di centrodestra.

E dispiace per le persone serie che sono di là, per quelle che invece hanno ascoltato, per quelli che hanno usato parole misurate e rispettose, dispiace per loro. Il bipolarismo è sempre sfida tra grandi coalizioni o grandi partiti nei quali da una parte e dall’altra vi sono anche posizioni più estreme o persino più estremistiche. La particolarità del bipolarismo italiano è che nel centrodestra l’estremismo è al comando, dove normalmente invece non è.

In questo modo si finisce per dividere il paese ed è questa la responsabilità maggiore di questi anni di governo: avere lavorato per dividere il paese, non solo riproponendo vecchie fratture ideologiche, cercando di resuscitare paure che sopravvivono alla estinzione dei grandi fenomeni storici che le hanno generate - la paura del comunismo sovietico – ed aprendo nuovi e drammatici conflitti sociali e istituzionali. In questo modo si è impoverito quel patrimonio di senso civico, di senso dello stato di cui il paese nostro non è ricchissimo ma a maggior ragione questo patrimonio è prezioso. Si è impoverito quel senso comune della legalità e si sono aggravati tutti i problemi.

Il paese è più debole e si è rafforzata soltanto una ristretta oligarchia intorno al Presidente del consiglio che cerca di controllare tutto: la politica, la comunicazione, la finanza. Sarebbe ingeneroso dire – né noi lo diciamo – che i problemi che il paese ha di fronte a sé dipendano tutti dagli effetti del governo negativo di questi anni. In realtà noi siamo di fronte ad una grande e complessa sfida di portata storica e quando Romano Prodi dice che si deve ricostruire il paese non pensa soltanto ai guasti che pure vi sono nella finanza pubblica, nello spirito pubblico, determinati da questi anni, ma pensa come tutti noi pensiamo al fatto che ci misuriamo con un mutamento storico del paradigma economico e politico mondiale che nasce dalla globalizzazione dei mercati, dalle nuove sfide dei paesi emergenti, dai grandi problemi legati alla integrazione dell’Europa.

E al fatto che a questa sfida si presenta un paese fragile nelle sue istituzioni, nelle sue strutture civili anche per effetto di quella che giustamente Fassino ha chiamato una “lunga transizione incompiuta”. Noi siamo l’Italia che non si arrende ad un declino, noi siamo l’Italia che dice la verità ma che nello stesso tempo sa che in questo paese vi sono davvero le risorse per vincere la sfida. C’è bisogno innanzitutto di un clima nel paese e di una classe dirigente in grado di mobilitare tutte le energie, di coinvolgere le forze vive, c’è bisogno di amore per l’Italia, c’è bisogno di attenzione all’interesse generale sopra gli interessi particolari, c’è bisogno di dialogo, di intesa sociale, di solidarietà.

Quanto si è irriso in questi anni al dialogo sociale, alla concertazione, al ruolo delle grandi forze organizzate, per poi scoprire che senza la solidarietà e la collaborazione delle grandi forze produttive il paese non ce la farà. Non è un caso che i primi a capirlo siano stati gli imprenditori, primi a rompere con la logica di un governo che ha cercato di dividere l’impresa dal lavoro,primi anche perché più esposti sulla frontiera della competitività. L’impresa è in prima fila e io credo che noi, il centrosinistra dobbiamo rivolgerci a questo mondo. La sinistra e l’impresa, un rapporto un tempo difficile, ma non più così da molti anni.

Là c’è un patrimonio straordinario di intelligenza di capacità di ingegnosità a cui noi dobbiamo guardare con orgoglio e che costituisce una risorsa essenziale per vincere la sfida. ma al mondo degli imprenditori noi dobbiamo dire la verità, che essi sanno, cioè che da soli non ce la faranno. Essi hanno bisogno per vincere quella sfida innanzitutto di avere nelle loro aziende, nelle loro fabbriche un lavoro amico, perché se è vero che la sfida avviene sul terreno della qualità e della produttività del lavoro, del contenuto intellettuale del lavoro, è del tutto evidente che non si otterrà qualità del lavoro schiacciando i diritti dei lavoratori, comprimendone i salari, precarizzando il lavoro, disprezzando i sindacati e la necessità di dialogare con loro. E c’è dunque qui un grande tema che il centrosinistra assume come centrale, quello della dignità del lavoro,in tutti i suoi aspetti.

Dignità del lavoro non significa soltanto riproporre come detto da Piero e Romano il tema delle retribuzioni dei lavoratori italiani, anche usando la leva fiscale non per ridistribuire soldi ai più ricchi ma per ridurre il cuneo fiscale e contributivo che comprime i salari e non riduce i costi delle aziende. Retribuzioni dei lavoratori: io insisto nel dire che il nostro meno tasse dovrebbe essere più salari, salari e stipendi più degni per i lavoratori italiani.

C’è un grande problema che riguarda la pienezza dei diritti e della rappresentanza del lavoro e c’è anche qualcosa che ci interroga nel senso di ritardi che non riguardano soltanto il nostro paese ma anche le nostre democrazie. Torna ad essere centrale il tema della democrazia, la forza della democrazia, della democrazia come valore universale – guai se noi fossimo impauriti di fronte a questa sfida, ma nel momento in cui il mondo occidentale rilancia questa sua funzione di promotore della democrazia io credo che dovremmo guardare più a fondo alle nostre democrazie. Pensate, nel nostro paese ci sono quasi due milioni e mezzo di persone che noi incontriamo tutti i giorni, sono una parte importante dei lavoratori dell’edilizia, sono quelli che lavorano nelle concerie o in certi settori siderurgici dove il lavoro è più pesante, sono quelle donne che tengono in piedi le nostre famiglie assistendo gli anziani, i malati: quasi due milioni e mezzo di lavoratori che costituiscono la base di una piramide sociale che producono ricchezza, che aiutano la coesione di questo paese,ma che non hanno diritto di voto.

Se la democrazia è anche il luogo dove si compongono gli interessi, dove si mediano le istanze della società, una democrazia che esclude dai circuiti della partecipazione, della rappresentanza un segmento così fondamentale del mondo del lavoro, è una democrazia fragile. Lo so che questo mette in discussione le idee della cittadinanza, una certa idea della democrazia legata allo stato-nazione ma questo è un grandissimo tema della sinistra e non ci sarà nessuna integrazione reale di questo grande mondo di lavoratori dal cui lavoro dipende in parte notevole il futuro del nostro paese se innanzitutto essi non si sentiranno integrati nel circuito della rappresentanza, dei diritti politici, del voto, della democrazia.

Dunque l’impresa ha bisogno del lavoro, ha bisogno della cultura, innovazione, formazione, ha bisogno di un rapporto nuovo con l’ambiente perché la riqualificazione del territorio, una grande opera di abbellimento del paese che significa riassetto idrogeologico, che significa intervenire sulle periferie urbane, è anche una grande opportunità di crescita. I vincoli ambientali imposti alle produzioni non sono un peso per la competitività ma spingono le imprese a investire nella innovazione a essere più competitive in un mondo in cui il tema della compatibilità ambientale diventa una frontiera della competizione, l’impresa ha bisogno delle grandi risorse non valorizzate di questo paese: l’intelligenza femminile, il Mezzogiorno, su cui giustamente Piero e Romano sono tornati e questo congresso ha messo l’accento come forse mai prima.

Dunque ha bisogno della politica, di un’azione politica che accompagni, sostenga il rinnovamento del paese, la riqualificazione del sistema produttivo in una sfida che muova dalla consapevolezza che non c’è competitività senza ambiente, pubblica amministrazione, territorio, perché la sfida non può essere vinta da una singola impresa ma riguarda il sistema Italia nel suo complesso. Noi siamo nelle condizioni di guidare un new deal italiano, di rivolgerci alle grandi forze produttive del paese di promuovere la collaborazione, un patto tra impresa lavoro e cultura. Solo il centro sinistra può fare questo.

La destra ha lacerato questo tessuto sociale e non è in grado di rimetterlo insieme, non ha un progetto per l’Italia. Il centrosinistra deve e può compiere quest’opera innanzitutto – e qui davvero le parole di Prodi sono state forti e chiare – rimettendo al centro del suo progetto il legame con l’Europa. L’obiettivo di tornare ad essere nel gruppo di punta dell’unità europea, come fu nei momenti migliori nella storia di questo dopoguerra, come fu l’Italia di De Gasperi, come è stata negli anni ‘90 l’Italia di Prodi, di Ciampi e del centrosinistra. Paese di punta nella costruzione europea, paese che lega il proprio destino – perché così è – al destino dell’Europa, delle sue istituzioni, della sua integrazione economica, del suo impegno comune per dare concretezza al grande programma riformista di Lisbona, l’idea cioè che la cultura, il patrimonio di civiltà dell’Europa non sono un peso di cui disfarsi ma possono essere una leva per vincere la sfida della competizione nell’epoca dell’economia fondata sulla conoscenza.

Questa Europa è di fronte ai grandi cambiamenti del mondo. Io voglio dirlo ai compagni: guai se noi affrontiamo con pigrizia, con pigrizia intellettuale, con vecchie categorie, un mondo in cui tutto si è rimesso in movimento, anche perché è finita l’illusione che la globalizzazione senza regole, che il liberismo estremo – l’ultima grande ideologia del ‘900 – ci consegnasse il migliore dei mondi possibili. Quando discutevamo con una delegazione dell’Internazionale socialista con il Presidente cinese dei rischi dell’unipolarismo americano lui ci ha risposto così: “Noi abbiamo un punto di vista un po’ diverso perché abbiamo valutato che intorno al 2050 la Cina avrà lo stesso Pil degli Stati Uniti e un ritmo di crescita circa doppio.

Quindi il nostro problema è piuttosto quello di prepararci a gestire il bipolarismo con gli Stati Uniti”. Poi si è fermato perché noi eravamo tutti europei e avrà pensato di averci offeso e ha detto “beh, anche l’Europa, se sarà unita…” come dire, può darsi che anche l’Europa possa dire la sua. Il mondo sta rapidamente cambiando. Siamo di fronte a nuove sfide, può piacere o non piacere - e a noi non piace – ma la nuova destra americana si pone a mio giudizio il problema di governare questa transizione e di rilanciare la leadership degli Stati Uniti su un terreno in parte nuovo rispetto al passato. Questa destra appare lontana dal cinismo e dalla realpolitik tradizionale dei presidenti repubblicani che sostenevano le dittature dell’America latina e appare invece piuttosto legare il nuovo mito americano all’idea di una espansione della democrazia della libertà del modello occidentale in altre parti del mondo come condizione di sicurezza e di convivenza.

Io credo che la comprensione di questo fatto non deve farci cambiare opinione sulla guerra e tuttavia ha mille volte ragione Piero Fassino quando dice che se noi vogliamo sfuggire alla alternativa inaccettabile tra la tirannia e la guerra noi dobbiamo dare una risposta più lungimirante e più coraggiosa alle nuove sfide che ci sono oggi sullo scenario mondiale. Abbiamo bisogno cioè di strumenti di governo, di istituzioni capaci di governare il mondo, di affrontare l’esigenza di una espansione della democrazia, di una difesa dei diritti umani. Non valgono vecchie categorie ottocentesche come un’idea sacrale della sovranità nazionale quando sono colpiti i diritti umani di milioni di esseri umani e occorre dunque costruire una risposta nuova, collocarsi su un terreno che comunque è più complesso e più avanzato.

Così come quello che avviene in Iraq dove, badate, sarebbe errato il trionfalismo, ci mostra che le elezioni aprono una fase nuova carica di interrogativi, di problemi. E tuttavia, questo entrare in campo di milioni di esseri umani che vogliono contare, che vogliono votare, che vogliono farsi padroni del loro futuro è un grande evento in un paese schiacciato per decenni da una feroce dittatura e noi, la sinistra, non possiamo che salutare questo come un grande fatto positivo. Per tutti questo risultato è una sfida, anche per gli americani, perché vincitore di queste elezioni alla fine di un lungo e defatigante spoglio non sarà il piccolo partito su cui gli Stati Uniti hanno appoggiato principalmente la loro presenza in Iraq, ma saranno altre forze. Il paradosso di queste elezioni è che alla fine le vinceranno grandi forze politiche che sono state contro la guerra. Noi siamo stati a Bagdad all’indomani dell’occupazione americana, non siamo stati ciechi, ci siamo presi le nostre responsabilità.

Vorrei dire: non siamo andati ad incontrare i terroristi e neppure i resistenti, siamo andati ad incontrare quelle forze democratiche che hanno partecipato alle elezioni. Vorrei dire a quelli che raffigurano in modo grottesco la nostra posizione che noi non siamo mai stati amici o in affari con Saddam Hussein, né mai la sinistra ha civettato con l’islamismo integralista e terrorista. I nostri amici erano quelli che in quel paese hanno combattuto contro la dittatura, e sono qui con noi. I curdi, i comunisti iracheni, gli sciiti. Vorrei dire a qualcuno che era distratto che le persone che hanno voluto queste elezioni e che sono andate a votare noi le avevamo invitate in Italia un anno e mezzo fa e se forse ci fosse stata un pochino più di attenzione, se si fossero affacciati alla riunione che avevamo promosso, avrebbero conosciuto quelli che ora sono alle cronache come i vincitori di queste elezioni.

Dunque noi siamo dalla parte della democrazia irachena, siamo dalla parte di quelli che erano contro la guerra e di quelli che hanno detto ai loro elettori che c’è una via per liberare il paese dall’occupazione militare e non è il terrorismo, è la democrazia. A questo mondo iracheno democratico noi dobbiamo essere vicini, per aiutarli a consolidare questa democrazia, per aiutarli a risolvere i problemi aperti, in particolare il dialogo con quella parte della società irachena che ha rifiutato le elezioni, che è una comunità importante che deve integrarsi nella vita di un paese multietnico e multireligioso. Insomma noi non siamo dalla parte di quelli che sperano che tutto vada a catafascio, noi siamo dalla parte di quelli che vogliono impegnarsi per fare in modo che lì si affermi davvero una democrazia e che quel popolo sia padrone del suo destino.

E questa sarà la vittoria dell’Iraq e non la vittoria di Bush, e a questa vittoria dell’Iraq la sinistra non può non dare un suo contributo. E così anche lo scenario nuovo che si apre nel Medio Oriente chiama noi, l’Europa, la sinistra, ad una accresciuta responsabilità . Ha vinto un uomo coraggioso in Palestina e vorrei dire che quelle elezioni, prima di quelle irachene, con il voto democratico di un paese occupato, schiacciato dalla guerra e che ha tanto sofferto sono state un grande evento di libertà. Da quel voto esce una guida nuova che sceglie la pace, la via pacifica, che respinge non soltanto il terrorismo ma anche ogni forma di lotta armata. Una scelta coraggiosa e difficile.

Dall’altra parte c’è un nuovo governo in Israele, sostenuto da tutta la sinistra e questo dà a noi una grande responsabilità. Pensate: in questo momento da una pare e dall’altra ci sono i nostri compagni dell’Internazionale socialista, guai se questa speranza dovesse cadere, guai se l’Europa non fosse lì, perché se la via della pace darà sicurezza a Israele e finalmente libertà ai palestinesi allora vinceranno, se la via della pace non darà questi frutti tornerà la guerra e noi avremo un po’ di responsabilità se in questi mesi non saremo lì dalla parte dei costruttori di pace. L’Italia deve tornare a giocare pienamente questo suo ruolo.

Quando si parla della necessità di una federazione dell’Ulivo sembra una cosa di ingegneria organizzativa ma se noi partiamo dai contenuti, se partiamo dall’idea che c’è bisogno di una grande forza che garantisca il ruolo dell’Italia in Europa e che si misuri con la costruzione di un ordine mondiale diverso noi ci rendiamo conto che né il voto contrario alla Costituzione europea, né un pacifismo integrale che non affronta il tema dell’Onu e delle sue responsabilità sono il modo di costruire un mondo diverso. Io lo dico nella consapevolezza che non solo dobbiam, ma vogliamo costruire la più larga unità del centrosinistra ed un patto di governo anche con la sinistra più radicale. Ma perché questo sia credibile agli occhi degli italiani è importante che ci sia una grande forza di governo riformatrice in grado di garantire il cammino del futuro dell’Italia. Per questo la federazione dell’Ulivo non solo non è un ostacolo ad una più larga unità del centrosinistra ma ne rappresenta una importante condizione.

Condizione di una unità che non soltanto sia larga ma anche in grado di esprimere un asse politico convincente, credibile, rassicurante per la grande maggioranza dei nostri concittadini. Io vorrei dire con fraternità ai compagni che sono preoccupati o che sono ostili – e lo faccio in forma interrogativa, questo è un congresso in cui tra di noi c’è una grande serenità d’animo e uno spirito unitario vero, il che non ci può impedire di discutere, persino io che come ha detto giustamente Fabio Mussi, sono un combattente e qualche volta anche ruvido, mi sento più nelle vesti di chi vuole promuovere un dialogo approfondito tra di noi,vorrei dire che non bisogna mai prendere sottogamba quella che Gramsci chiamava la paura dei pericoli, anche se lui la considerava un freno al coraggio dell’innovazione – ma la federazione dell’Ulivo non è stato un nostro comune grande obiettivo?

La rilettura di tutti i nostri congressi non ci fa vedere come l’idea di costruire un soggetto politico pluralistico capace di decidere insieme che tenesse insieme i partiti ma fosse anche aperto alla società non ha rappresentato un obiettivo che era nel DNA del nostro partito a cominciare dalla nascita di questo partito nuovo? E ora che grazie al coraggio e alla determinazione di Prodi questo obiettivo lungamente vagheggiato pure tra resistenze e preoccupazioni – ogni innovazione suscita anche sofferenza – ora che questo obiettivo diventa realtà, perché dobbiamo considerarlo un cambiamento di rotta inopinato, una bizzarra idea estiva di un gruppo dirigente che ha voluto complicarsi la vita… non è così!

Noi siamo finalmente alla prova di un salto di qualità del processo unitario che non per caso da anni noi abbiamo individuato come necessario ma non come necessario soltanto per noi, necessario per l’Italia, cioè per un paese che guarda oramai con profonda diffidenza ad un bipolarismo caratterizzato dalla frammentazione, dalla litigiosità, dalla ricerca di visibilità di singoli partiti e che ha bisogno di risposte forti, di una politica forte se vuole vincere le sfide che ha di fronte a sé. Non sottovalutiamo questo senso di insopportazione, questo bisogno di coesione, di una coesione che non sia soltanto la classica alleanza dei partiti che si mettono tutti insieme per vincere le elezioni e cominciano a litigare il giorno dopo perché qui non si tratta soltanto di vincere le elezioni ma di governare il paese.

Ed io non credo proprio che se noi avessimo fatto finta di nulla di fronte alla proposta di Prodi di una lista unitaria alle elezioni europee egli avrebbe avuto poi la forza, tornando, di fare ciò che è stato fatto in questi mesi, rimettendo insieme una larga alleanza di centrosinistra. E’ la prima volta – e giustamente Romano l’ha sottolineato – che noi andiamo tutti uniti nelle regioni italiane, abbiamo scelto i nostri candidati attraverso un confronto democratico, c’è un salto di qualità. E lo vedete nei fatti che la federazione dell’Ulivo non solo non ha frenato ma ha incoraggiato una più larga unità che ci rende oggi in grado di competere in ogni regione italiana, un processo che resta aperto e non un restringimento del campo. Ora facciamola funzionare questa federazione come luogo di promozione dell’unità, di confronto, di decisione comune, unendo i partiti e aprendoci ai cittadini.

E io voglio dire a quei compagni che temono che in questo processo si smarrisca l’autonomia, l’identità della sinistra: siate voi anche i protagonisti di questo processo! Non è per un embrassons nous, è una ragione politica oltre alla solidarietà e all’amicizia che ci lega che mi fa dire che nel momento in cui la più grande forza della sinistra italiana si lega ad altre forze in un organismo più ampio ha bisogno di andarci con tutta la ricchezza delle sue idee, una grande federazione riformista ha bisogno di avere una sinistra vitale sui contenuti, sulle scelte. Non è all’ordine del giorno il partito unico, i partiti non nascono a tavolino. Non è oggetto di una decisione congressuale anche se nessuno potrà impedire a qualcuno di sperare.

Di sperare che i processi politici, l’abitudine a lavorare e a decidere insieme possano nel tempo fare crescere una grande forza riformatrice di governo, socialista, laica, cattolica, ambientalista quale l’Italia non ha mai avuto; non credo che possa essere impedito sperare questo, non può essere impedito che ci si confronti tra chi pensa che in Europa e in Italia certi steccati resteranno in piedi e chi pensa invece che anche in Europa possa nascere – certo, intorno al socialismo europeo – uno schieramento progressista più ampio, in grado di incorporare nuove culture. Anche qui, questa idea di una contaminazione e non solo di un’alleanza è nel nostro DNA comune e non è una trovata di questi ultimi mesi.

Ma appunto, sarà il tempo a decidere e come si diceva una volta “chi ha più filo da tessere tesserà”. Io sono fra quanti pensano che questo processo non porterebbe alla scomparsa della sinistra ma alla costruzione di una sinistra nuova con le sue radici nelle battaglie e negli ideali che sono nella nostra storia ma capace di proiettarsi verso un orizzonte nuovo. Abbiamo ascoltato Romano Prodi, io credo che tanti fra di noi pensano che le idee di Prodi non sono poi tanto una buona base per fare un governo insieme ma fanno parte a pieno titolo del progetto e degli ideali di quella sinistra nuova nella quale molti di noi sperano e per la quale vogliono impegnarsi.

Grazie.

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