Discorso
2 agosto 2006

Commissioni Riunite III (Affari Esteri e Comunitari) della Camera dei Deputati e 3° (Affari Esteri, emigrazione) del Senato della Repubblica

Testo dell'intervento


Lungi dal voler svolgere una relazione - d'altro canto, abbiamo già avuto modo, in diversi momenti, alla Camera e al Senato, o in sedute congiunte, di presentare le linee di azione del Governo di fronte all'aggravarsi e alla nuova qualità della crisi esplosa in Medio Oriente - mi limiterò a fare un resoconto delle più recenti iniziative e degli incontri che, dopo la Conferenza di Roma, hanno visto impegnato il Governo italiano e me stesso negli ultimi giorni.

Ricordo che la Conferenza di Roma si era conclusa con l'impegno a lavorare su tre punti essenziali. Il primo punto prevede gli aiuti umanitari al Libano: questo ha costituito un impegno immediato dell'Italia, attraverso un'azione diretta del nostro paese, sia in Libano, dove due navi italiane hanno portato 80 tonnellate di aiuti umanitari, in particolare nel campo sanitario, sia a Gaza, con un'iniziativa italiana nello stesso campo sanitario, per cercare di sopperire ad una situazione umanitaria drammatica. L'azione umanitaria coordinata ha l'obiettivo più ambizioso di aprire corridoi e di coordinare, naturalmente sotto l'egida delle Nazioni Unite e della Commissione europea, un più vasto concorso di sostegni alla popolazione libanese. Questa attività è in corso, non senza qualche difficoltà, perché la sicurezza dei corridoi umanitari non è sempre pienamente garantita. Possiamo dire, tuttavia, che a partire dalla Conferenza di Roma c'è stato un notevole salto di qualità, nell'impegno coordinato della comunità internazionale.

La Conferenza si riprometteva, altresì, di esprimere un sostegno al Governo libanese, nella prospettiva di una ricostruzione del paese. Impegno, questo, più di prospettiva, ma certamente non meno essenziale ai fini di garantire la stabilità e la ripresa del Libano, in considerazione dell'enormità dei danni subiti dal paese, dalle infrastrutture civili, dalle abitazioni, in tante parti del Libano.

Infine - ed era forse il tema più importante - la Conferenza ha affrontato la questione cruciale di un'azione internazionale volta a fermare le ostilità e, nello stesso tempo, avente come obiettivo quello di non ritornare allo status quo ante, ossia, nella cessazione delle ostilità, di porre rimedio alle cause del conflitto, determinando una nuova situazione al confine tra Israele e Libano, attraverso il dispiegamento di una consistente forza internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite. Ciò allo scopo di impedire violazioni della Blue line e, quindi, il persistere o il ripetersi di attacchi terroristici verso il territorio israeliano, ma anche allo scopo di sostenere l'azione del Governo libanese e delle forze armate libanesi, nella piena attuazione della risoluzione n. 1559 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dell'accordo di Taif, nel senso di un disarmo delle milizie e di una piena estensione della sovranità del Governo libanese sull'intero territorio del Libano.

Dunque, noi abbiamo puntato, fin dall'inizio, ad una soluzione che consentisse la cessazione delle ostilità e, attraverso l'impegno della comunità internazionale, la possibilità di porre rimedio alle ragioni che avevano originato il conflitto e di avviare una fase nuova di stabilizzazione della regione.

Ricordo che nella Conferenza di Roma affermammo, nello statement finale, che «i partecipanti alla Conferenza di Roma esprimono la loro determinazione a lavorare immediatamente per raggiungere, con la massima urgenza, il cessate il fuoco, per porre fine alla corrente violenza e alle ostilità». Noi abbiamo lavorato con questo obiettivo: intervenire immediatamente per arrivare al più presto al cessate il fuoco. A partire da quel momento, abbiamo avuto prima un incontro molto importante con il Presidente Abu Mazen, in visita a Roma. Su questo tornerò brevemente alla fine, perché penso che l'attenzione che in questo momento si rivolge comprensibilmente alla crisi israelo-libanese non debba, tuttavia, fare uscire di scena quella che continua a rimanere la questione chiave dell'assetto del Medio Oriente, cioè la questione palestinese.

Successivamente, abbiamo avviato una complessa missione in Israele, nel corso della quale ho avuto modo di incontrare il ministro degli esteri, il ministro della difesa, il primo ministro, numerose personalità dell'opposizione, anche dell'opposizione parlamentare, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, ed anche - cosa che non aveva una diretta attinenza alle trattative, ma tuttavia ha avuto un grandissimo interesse - il nunzio apostolico, il custode di Terrasanta, il patriarca, unitamente al cardinale Martini, che ha voluto essere presente in questo incontro.

Al centro della missione in Israele c'è stata la spiegazione della nostra proposta di una forza internazionale e del nostro impegno, che considero anche un rilevante impegno dell'Europa e dell'Italia verso Israele, nel senso che l'impegno europeo a ricostruire il Libano, che gli israeliani hanno largamente distrutto, quindi concorrere con i denari dei nostri contribuenti rappresenta anche un'azione volta ad evitare la disgregazione del Libano, il precipitare del paese in un clima di guerra civile, con gravi rischi anche per la sicurezza di Israele. Così come l'impegno dell'Italia e di altri paesi europei a mandare i nostri soldati ai confini con Israele rappresenta un impegno per proteggere la sicurezza di Israele.

Ho molto insistito - d'altro canto, questa è la posizione europea, su cui tornerò illustrando le linee del Consiglio europeo - sul fatto che alla preoccupazione israeliana, legittima, cioè che il cessate il fuoco non riporti allo status quo ante, ossia al riprodursi di una situazione di minaccia, di pericolo al confine con Israele, noi intendiamo rispondere con un impegno della comunità internazionale e con il dispiegamento di una forza internazionale consistente - una forza militare, non un gruppo di osservatori - ai confini con Israele.

Naturalmente questa soluzione richiede che vi sia al più presto un cessate il fuoco. Infatti è del tutto impensabile che una missione internazionale di questa portata possa essere decisa o dispiegata nel corso di combattimenti. Non vi è alcuna disponibilità, da parte di nessuno, ad un'ipotesi di questo tipo. La missione internazionale richiede una cessazione delle ostilità, un accordo di cessate il fuoco fra le parti e una piena disponibilità, da parte del Governo libanese, ad accogliere sul territorio del Libano una forza militare consistente come quella che si dovrebbe inviare.

È evidente che tutto questo richiede una cessazione del conflitto quanto più rapida possibile. Devo dire che ho trovato, da parte israeliana, un sincero interesse ad un impegno internazionale per la sicurezza di Israele. È una novità. È la prima volta che il Governo israeliano manifesta la propria disponibilità ad accettare una consistente forza militare e si allontana da una filosofia che è sempre stata quella di garantire la sicurezza di Israele attraverso l'azione militare israeliana. Tuttavia, il punto di vista degli israeliani è che la missione internazionale debba dispiegarsi dopo che si svolga una dura ed efficace offensiva militare - questo punto di vista non è soltanto teorico, dal momento che tale offensiva militare si sta dispiegando - e che l'azione militare cesserà soltanto quando la missione internazionale metterà piede sul territorio libanese.

È del tutto evidente che questa impostazione non è, a mio giudizio, sostenibile, non è condivisa dalla comunità internazionale e rischia di far venire meno la possibilità di una forza internazionale per la sicurezza e la stabilità della regione. Credo che sarebbe un grave errore, da parte del Governo israeliano, far venire meno questa opportunità. Penso che sia il momento di una riflessione più di fondo da parte della classe dirigente di Israele sul modo in cui quel paese voglia garantire, non solo ora, in questa crisi, ma nel futuro la propria sicurezza, nel quadro di un conflitto che rischia di allargarsi, di internazionalizzarsi e che certamente non si presenta più nella forma del tradizionale conflitto israelo-palestinese.

Tuttavia, questa discussione, che si è aperta in modo molto interessante, non ha sin qui portato ad esiti. Debbo dire che ho avuto l'impressione che ci sia anche una certa difficoltà da parte della mediazione americana. A conclusione di una giornata molto dura di discussioni, domenica ho incontrato il segretario di Stato Condoleeza Rice, anch'essa presente a Gerusalemme, dove ha tenuto parallelamente incontri di certo assai più rilevanti. È stato nel corso della serata che gli americani hanno esercitato il massimo di pressione, ottenendo il risultato - decisione annunciata alla mezzanotte di domenica - di una sospensione degli attacchi aerei nel sud del Libano, per quarantotto ore, per consentire l'evacuazione della popolazione civile, tanto più necessaria dopo il tragico attacco di Cana e l'uccisione di tanti civili, fra cui numerosi bambini. Ma questo è un dato più generale: l'UNICEF oggi ci comunica che circa un terzo delle vittime sono bambini e che il numero dei militanti caduti costituisce una minoranza estrema delle vittime di questo conflitto.

Tuttavia, questa cessazione, peraltro parziale, degli attacchi aerei è già finita, e riprende un'azione militare di terra e con attacchi aerei piuttosto massiccia.

In questa situazione si è tenuto il Consiglio europeo dei ministri degli esteri. Il Consiglio ha approvato un documento, disponibile per il Parlamento, che riprende pienamente l'impostazione che qui riferivo, che è l'impostazione comune dell'Europa. Ho trovato oggi interpretazioni abbastanza singolari su alcuni organi di stampa, secondo cui il Consiglio europeo avrebbe visto un conflitto fra un asse anglo-tedesco e un asse francese. In verità, su proposta tedesca, il Consiglio europeo ha adottato esattamente lo stesso dispositivo del progetto di risoluzione che la Francia ha depositato al Consiglio di sicurezza. Ed è il dispositivo francese che prevede, esattamente, come primo step, la cessazione delle ostilità e, come secondo step, un cessate il fuoco negoziato tra le parti.

Proprio per testimoniare della unitarietà della posizione europea abbiamo deciso di adottare, nel draft del Consiglio europeo, esattamente la terminologia che è contenuta nella proposta di risoluzione che la Francia ha depositato di fronte al Consiglio di sicurezza e che, dopo le considerazioni, apre il dispositivo con le parole: «calls for an immediate cessation of hostilities». È esattamente quello che abbiamo scritto nel documento, con le stesse parole, per rimarcare che la posizione europea è una. Successivamente, il documento francese dice che si deve raggiungere un permanent cease-fire. E nello statement dei ministri degli esteri europei si è adottata la stessa terminologia.

Credo che sia importante che, in un momento così delicato, la posizione europea sia univoca. Anche la Gran Bretagna, in verità, che era stata accreditata di una posizione contraria alla richiesta di un'immediata cessazione delle ostilità, per bocca del ministro Margaret Beckett ha smentito questa contrarietà e sottoscritto il documento unanime del Consiglio europeo. Questa è la cronaca di una riunione, che solo in Italia ha assunto una veste particolare. La stampa internazionale non fornisce questa singolare interpretazione, ma noi siamo un paese creativo e applichiamo i criteri della cronaca politica interna anche alla politica estera, con effetti simili.

Le prossime scadenze della crisi spostano l'attenzione a quello che potrà accadere sul campo, e cioè al rischio di una escalation militare e di una internazionalizzazione del conflitto. È del tutto evidente che il perdurare di un'offensiva israeliana nel Libano può attivare un meccanismo di solidarietà, in tante parti del mondo islamico, con il rischio di afflusso di volontari, di armi. Siamo in uno scenario nuovo, in uno scenario post-iracheno, nel quale il rischio di un contagio è fortissimo in tutta la regione.

Tra le testimonianze più preoccupanti che abbiamo raccolto in queste ore c'è la lettera che il ministro degli esteri egiziano ha inviato a tutti i suoi colleghi europei: una lettera con accenti molto gravi circa gli effetti che il trascinarsi della crisi sta provocando nell'opinione pubblica egiziana. Parliamo di un paese che ha fatto la pace con Israele, ma nel quale è in atto un forte movimento, ovviamente alimentato dalle organizzazioni islamiche, a favore di una partecipazione dell'Egitto alla guerra in difesa del Libano. Abbiamo una situazione molto preoccupante in tutto il mondo arabo. D'altro canto, basta vedere le posizioni dei governi, compresi quelli più filooccidentali, come il Governo iracheno, per registrare l'estrema preoccupazione e la richiesta di una immediata cessazione delle ostilità. Stamani ho incontrato il vice primo ministro dell'Iraq, in visita nel nostro paese, ed ho registrato queste stesse posizioni, preoccupazioni e sentimenti.

Noi non sappiamo che prospettive, che durata abbia l'azione militare israeliana. Credo che tutto dimostri che non si tratta di un'azione militare di scarso rilievo, anche perché si trova di fronte un movimento che ha caratteristiche di un movimento di guerriglia, che ha mobilità, conoscenza del terreno e un forte retroterra, tra l'altro, di consenso: tra gli effetti negativi degli sviluppi del conflitto c'è un ricompattarsi del Libano. Il premier democratico del Libano, uomo molto vicino all'Occidente, ha ringraziato Hezbollah per il suo sacrificio nella difesa del paese. Il rischio è che, in realtà, anziché isolare questo movimento estremista, che ha anche componenti terroristiche, si determini un fenomeno di solidarietà, nel nome della difesa del paese, della popolazione civile, e via dicendo. Del resto, la guerra moderna si fa anche attraverso la televisione, e le immagini di Cana hanno avuto un effetto devastante in tutto il mondo, ma in particolare nel mondo islamico.

Da un lato, quindi, ci sono gli sviluppi sul terreno, dall'altro c'è la vicenda politico-diplomatica, che si sposta a New York, nella preparazione della riunione del Consiglio di sicurezza. Qui noi siamo spinti inspiegabilmente in secondo piano, pur essendo l'Italia tra i paesi che hanno manifestato e che confermano la più larga disponibilità a concorrere ad una forza internazionale, il che senza dubbio ci dà più voce in capitolo.

A New York si è aperto un negoziato per cercare una posizione convergente. È del tutto evidente che anche gli americani premono per una rapida conclusione. Anche la dichiarazione di Condoleeza Rice, secondo cui il cessate il fuoco è questione di giorni, non di settimane, la considero un auspicio, più che un annuncio. Certamente, comunque, è un auspicio significativo, che dimostra che anche gli Stati Uniti premono per una rapida conclusione dell'azione militare.

Credo che questo debba essere l'auspicio di tutti, innanzitutto per Israele. Il rischio che l'opportunità di una presenza internazionale nella regione si consumi esiste. È evidente, infatti, che l'aggravarsi del conflitto, l'aumento del numero delle vittime, la radicalizzazione del mondo arabo creerebbero una situazione nella quale potrebbe diventare impossibile trovare un accordo per inviare una forza internazionale nella regione: intanto perché questo accordo ha bisogno del consenso del Governo libanese e poi perché questa missione deve svolgersi in un clima di accettazione da parte delle forze in campo, altrimenti rischia di diventare un'altra cosa, ossia una missione di guerra, accanto ad una delle due forze combattenti. Questo certamente non è né nella volontà delle Nazioni Unite, né nella disponibilità del nostro paese.

Questo è il quadro assai problematico della situazione, e in questo quadro vorrei sottolineare una nota positiva. Credo che l'azione italiana si sia mossa in un rapporto positivo con i nostri alleati, in un rapporto di positiva collaborazione fra i paesi europei; direi che c'è, pur muovendo da impostazioni diverse, un certo compattarsi dell'Europa nella crisi e in un rapporto positivo con gli americani, i quali hanno tradizionalmente una posizione più legata alle ragioni di Israele, ma cercano, in questo momento, di esercitare un ruolo di moderazione, seppur non con grandi risultati, e tuttavia con qualche segno abbastanza evidente di buona volontà.

Nello stesso tempo, credo che sia stato importante aver riallacciato, in un momento così drammatico, un rapporto positivo con tanta parte del mondo arabo, cosiddetto moderato, che vorrebbe difendere una posizione moderata e chiede di essere aiutato in questo. Credo che l'essere venuti a Roma, a fare una conferenza con gli americani, nel momento della guerra nel Libano, sia stata una scelta coraggiosa da parte dei governi dell'Egitto, dell'Arabia Saudita e, per certi aspetti, anche della Turchia e della Giordania. Una scelta coraggiosa, se si considera qual è il tasso di ostilità antioccidentale che cresce in quelle società. Naturalmente questi paesi, queste classi dirigenti che vogliono fare argine al terrorismo hanno bisogno di trovare, nell'Europa e nell'Occidente, una sponda ragionevole, in grado di farsi carico delle loro ragioni.

Un'ultima annotazione vorrei fare sulla situazione di Gaza. É in atto un tentativo importante, da parte del presidente Mahmoud Abbas, per cercare di uscire da questa crisi israelo-palestinese. Il piano di Abu Mazen si articola in tre fasi. La prima fase risponde al tentativo di raggiungere un'intesa tra le diverse componenti palestinesi, per arrestare la violenza e restituire ad Israele il caporale Shalit. Il dramma delle persone rapite è uno degli aspetti più terribili di questa crisi; ho avuto modo di incontrare la moglie di uno dei soldati rapiti nel Libano, che era a conoscenza della richiesta di una mediazione italiana. A questo potremmo certamente essere disponibili, ma in un contesto diverso: la premessa di una qualsiasi mediazione è che ci sia una cessazione delle ostilità.

La prima fase del piano prevede, altresì, la cessazione del lancio di razzi Qassam contro Israele e la richiesta ad Israele della cessione dei raid su Gaza, che hanno causato 155 morti nelle ultime settimane. La seconda fase prevede: formazione di un Governo di unità nazionale, sulla base dell'accettazione del cosiddetto programma del documento dei prigionieri, e cioè sulla base di un programma che prevede il riconoscimento di Israele. La terza fase, infine, prevede la ripresa di un periodo negoziale con Israele, della road map, e via dicendo.

Si tratta di un programma positivo e credo che sia interesse di tutti - ho registrato, sia in Europa che negli Stati Uniti, la volontà di aiutare questo programma, che è attivamente sostenuto dagli egiziani - proteggere l'Autorità nazionale palestinese da interferenze che da altri paesi possano venire per ostacolare questo programma. Naturalmente, perché possa realizzarsi, è essenziale che nel frattempo non si determini un tragico collasso umanitario a Gaza.

Il meccanismo temporaneo europeo è partito, nel senso che abbiamo ricominciato a dare aiuti, come Commissione europea, e c'è anche un impegno diretto dell'Italia, ovviamente in una misura più modesta. Purtroppo, il resoconto del viaggio della Commissione europea a Gaza è impressionante, in quanto rivela il rischio di totale tracollo del sistema sanitario, la mancanza di servizi essenziali. É evidente, quindi, che se non vogliamo che la tragedia umanitaria alimenti una spirale di disperazione e di violenza, bisogna che l'impegno su questo fronte sia tale da sostenere l'azione politica che, nel frattempo, si spera possa delineare, lungo la via che ho indicato, un'uscita dalla fase più drammatica della crisi. Grazie. ...

... Chiedo scusa, la interrompo perché la discussione non prenda una piega sbagliata. Le ricordo che ho fatto una relazione al Parlamento e ho dato per scontato che non dovessi ripeterla in questa sede. Ho spiegato l'origine di questa crisi nell'attacco contro Israele; per la verità, all'origine della crisi non ci fu un attacco missilistico, ma l'attacco di un commando ad un posto di blocco.

Tutto questo è già stato riferito al Parlamento. Del riconoscimento del diritto di Israele a difendersi abbiamo già discusso. Oggi non ho fatto un'analisi della crisi, ma ho dato un'informazione sulle più recenti iniziative del Governo. Per il resto, do per scontato il testo della mia relazione alla Camera dei deputati. ...

...Mi scuserete se riprenderò alcune espressioni o formulazioni che ho usato precedentemente, perché - come mi pare giusto in una fase così delicata - vi è stato in queste settimane un intenso dialogo con il Parlamento. Ormai abbiamo prodotto una letteratura di interventi, di testi, che evidentemente non posso ripetere tutte le volte, ma che tuttavia sono agli atti parlamentari.

Sono d'accordo con l'onorevole Boniver sulla opportunità di mantenerci in contatto, anche perché potrebbe essere necessario, se si aprirà uno spiraglio - lo auspico vivamente -, assumere la decisione di cominciare a preparare un contingente italiano da inviare nel Libano, sotto l'egida dell'ONU e nel quadro di una forza multinazionale. È chiaro che una decisione di questo tipo dovrebbe essere sottoposta almeno ad un primo esame del Parlamento. Questo potrebbe accadere anche in un periodo normalmente dedicato al riposo, ma la guerra non riposa, dunque non può neppure riposare l'azione da intraprendere per cercare di arginarla.

Credo di avere impostato con molta chiarezza, fin dall'inizio, la riflessione, fin da quando - nella seduta del 18 luglio - parlando alla Camera ho sottolineato che l'attuale crisi aveva un carattere nuovo, che traeva origini dal confronto nella regione tra le forze che intravedono nella pace e nella stabilità l'unica reale prospettiva per il futuro e forze radicali ed estremistiche.

Sono stato io - non da solo naturalmente - a dire, sempre all'aula di Montecitorio, nella sede più solenne, «non a caso la crisi è stata innescata da forze radicali, l'ala oltranzista di Hamas con base a Damasco e guidata da Mechal, e dal gruppo fondamentalista Hezbollah, proprio nel momento in cui si stava aprendo un importante spiraglio per la ripresa del dialogo israelo-palestinese grazie alla mediazione del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen».

Mi pare, quindi, che chi ha inteso ripetere qui queste formulazioni, lo ha fatto con il mio previo consenso. Siamo partiti, dunque, dalla considerazione che siamo in una fase nuova e che si era registrato un attacco ad Israele, nonché dalla preoccupazione che la reazione israeliana, pur legittima, come molte volte abbiamo sottolineato, tuttavia non finisse per essere sproporzionata e controproducente.

Purtroppo, questa preoccupazione era fondata. Ora siamo al ventiduesimo giorno del conflitto. Ha scritto uno dei più accreditati osservatori israeliani - l'ho letto sull'Herald Tribune di oggi - che il Governo Olmert, che era entrato in questo conflitto con il più largo consenso internazionale che Israele avesse mai avuto negli ultimi anni, è riuscito a dilapidarlo nel corso di tre settimane. È un'osservazione che non faccio mia, ma ritengo di citare.

Purtroppo, la logica della escalation militare sta aggravando questa crisi e sta determinando nell'area una crescita di spinte radicali, che rischiano di creare una situazione molto, molto, molto difficile. Cosa volete che sia, per Israele, colpire duecento o trecento guerriglieri ai suoi confini? Israele è una delle più grandi potenze militari, non solo di quell'area. Questo, però, non significa pressoché nulla, se il prezzo da pagare è far divenire Nasrallah il nuovo eroe del mondo arabo. Quando ci si confronta con un mondo fatto di centinaia di milioni di persone, uccidere trecento combattenti, al prezzo di molte vite innocenti, non è soltanto controproducente dal punto di vista umanitario, ma è inutile dal punto di vista politico. Questo è il punto vero, questa è la preoccupazione che noi, con spirito di amicizia verso Israele, ci sentiamo di dover ripetere. Israele sta commettendo un errore, ancora una volta affidando la propria sicurezza alla durezza spietata dell'azione militare e rischiando di creare una situazione in cui, alla fine, i pericoli per Israele saranno accresciuti, e non diminuiti.

D'altro canto, se fosse possibile una soluzione militare, sarebbe già stata adottata. Israele ha occupato il Libano sette volte e, in sette invasioni, avrebbe potuto disarmare tutti i propri nemici. Il problema è che se non si risolvono i conflitti che sono all'origine i nemici si riformano e impiegano pochissimo tempo a riarmarsi. Questo è il problema, questa è la questione. Né è credibile, e neppure gli israeliani lo dicono, che il fine di questa azione militare possa essere disarmare gli Hezbollah: operazione estremamente complessa, che richiederebbe l'invasione del Libano e una campagna militare probabilmente della durata di alcuni anni, non settimane.

Stiamo parlando di un mondo complicato. Hezbollah non è un gruppetto di terroristi, che possa essere individuato e disarmato. Hezbollah è un movimento politico, che ha il voto di circa un terzo della società libanese, è rappresentato in Parlamento, ha propri esponenti nel Governo, ed ha anche una frazione armata. Questo è la tragedia del Medio Oriente, laddove molto spesso i movimenti politici si esprimono anche attraverso l'azione di gruppi armati.

Ma quando un gruppo armato, lo ripeto, non è un drappello terroristico, ma è il volto violento di un movimento politico di massa, la questione deve necessariamente essere affrontata anche sotto il profilo politico, e non può essere risolta soltanto con l'efficacia degli F16 o con la forza dei carri armati. Questo è il punto su cui abbiamo discusso con la leadership israeliana, e debbo dire che ho la sensazione di una classe dirigente che, per la prima volta, appare piuttosto incerta sul futuro e preoccupata.

Proprio in questo momento, penso che si debba avere una posizione equilibrata ed essere vicini ad Israele. Siccome anche i simboli hanno un significato, ho voluto, sia pure in una visita tutta politica, tornare - vi assicuro che non era la prima volta - a visitare Yad Vashem, incontrare la famiglia di uno dei soldati che sono stati catturati dagli Hezbollah, incontrare i rappresentanti della comunità italiana che vive in Israele, dai quali ho raccolto una testimonianza drammatica, perché Israele è per la prima volta, da molti anni, colpita. La società israeliana si sente minacciata. Anche in Israele ci sono centinaia di migliaia di sfollati, di persone che vivono nei rifugi. Mentre le popolazioni arabe circostanti erano più abituate a questo genere di vita, per Israele lo shock è enorme. La società israeliana è una società sotto shock, da questo punto di vista. In Israele si respira un clima di guerra come da molti anni non avveniva. Finora i conflitti c'erano, ma erano fuori dai confini di Israele. Oggi si respira qualcosa che va oltre persino la paura del terrorismo, che pure si è vissuta negli ultimi anni dell'intifada armata: è la paura della guerra. Per la prima volta, Israele sente una minaccia incombente, che mette in discussione l'esistenza stessa dello Stato di Israele. A maggior ragione, però, tutto questo dovrebbe incoraggiare una riflessione politica più di fondo e far intendere che l'impegno della comunità internazionale deve essere raccolto come un'occasione, non lasciato cadere.

Abbiamo cercato di lavorare per mettere in campo questo impegno della comunità internazionale per tornare ad un processo di pace negoziato. Se c'è una cosa che appare chiara in questi mesi è che la logica delle iniziative unilaterali - compresi i ritiri unilaterali - non è produttiva. Quando Israele ha fatto la pace con l'Egitto e la Giordania, ha negoziato e sottoscritto la pace. Si è ritirato dal Sinai, ma ha fatto la pace con l'Egitto. Gli unici successi, nel lungo doloroso cammino del dopoguerra, sono stati i momenti in cui si è fatta la pace, negoziandola con quelli con cui si era combattuto.

La logica delle iniziative unilaterali si lascia dietro il vuoto, il caos. Così è avvenuto a Gaza, dove il ritiro unilaterale di Israele, anziché rafforzare le componenti moderate palestinesi, ha rafforzato i gruppi estremisti, che hanno potuto dire «se ne sono andati perché abbiamo messo le bombe». Se invece Israele si fosse ritirato avendo negoziato con Abu Mazen, probabilmente questo avrebbe ostacolato il successo elettorale di Hamas. Certo, Hamas è un gruppo armato, ma è anche un gruppo politico che ha vinto le elezioni. E che ne è della democrazia che abbiamo sostenuto? Non dimentichiamo che quelle elezioni le ha imposte la comunità internazionale. Abu Mazen non le voleva; sono stati gli americani, nel nome della democrazia, a chiedergli di farle subito. Abu Mazen voleva guadagnare tempo, per arrivare alle elezioni con un'opinione pubblica più formata. Come vedete, a volte, questa nostra pretesa di decidere per tutti produce guai.

Questa è la situazione reale nella quale ci si trova ad operare. Il senatore Colombo ha posto due questioni cruciali. Innanzitutto vorrei chiarire, a proposito di speculazioni sull'utilizzo di un termine piuttosto che un altro - ad esempio, «ostilità» e «fuoco» -, che qui parliamo di un linguaggio diplomatico che può essere inteso diversamente dal cittadino comune. Tuttavia, volevo sottolineare che la formulazione usata nel documento del Consiglio affari generali - «Il Consiglio chiede un'immediata cessazione delle ostilità, che deve essere seguita da un sostenibile cessate il fuoco» - è esattamente la stessa formulazione contenuta nella proposta di risoluzione francese per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questo perché abbiamo ritenuto che si dovesse rimarcare, anche nell'uso delle parole, la piena coincidenza della posizione europea. Questo è quello che è avvenuto nel Consiglio e chi voglia farlo potrà constatare che dico il vero. La risoluzione francese reca le parole: «calls for an immediate cessation of hostilities», esattamente la frase che è stata copiata nel testo europeo, per avere la stessa letterale posizione.

Vorrei sottolineare che nella mia relazione, che ho tenuto davanti alle Commissioni congiunte il 27 luglio scorso nella sede del Senato della Repubblica, ho detto: «La posizione della gran parte dei partecipanti alla Conferenza di Roma, nella quale anch'io mi riconosco, è la seguente: la richiesta della cessazione immediata delle ostilità, a cui deve poi seguire un cessate il fuoco durevole». Questa è la frase che è stata scritta, in inglese, nel testo del Consiglio europeo. Siccome si è detto che quella frase è stato il frutto di chissà quali iniziative anglo-tedesche, basta rileggere gli atti del Senato: scoprirete che sono anglo-tedesco, perché nella mia relazione c'è esattamente la formula che poi è stata usata dal Consiglio europeo. Sgombrato il campo da queste ricostruzioni - e non sulla base di una reazione caratteriale, sebbene non mi manchino, ma di una doviziosa evidenza documentale, che può essere verificata da tutti - vorrei sottolineare che il Consiglio europeo ha adottato una formula che avevamo convenuto, tra europei, ormai da diversi giorni. Specifico che la cessazione delle ostilità significa smettere di sparare e ognuno rimane dov'è, mentre il cessate il fuoco, nel linguaggio diplomatico, è qualcosa che interviene successivamente, sulla base di un accordo tra le parti.

Chi negozia? Il Governo libanese assicura che, nel caso in cui cessino le azioni militari da parte israeliana, ci sarebbe l'immediata cessazione del lancio di missili e di azioni militari da parte di Hezbollah.

Si fa presto a dire che dobbiamo sostenere Abu Mazen o l'Egitto. Se li vogliamo sostenere, è bene che sentiamo quello che ci dicono. Ebbene, ci chiedono l'immediata cessazione delle ostilità, e lo fanno con messaggi drammatici. Il Governo egiziano, che è un interlocutore autorevole, ci dice di avere la certezza, essendo intervenuto presso le parti libanesi, che se ci sarà una cessazione delle attività militari da parte di Israele, non ci saranno più lanci di missili. Il primo obiettivo, dunque, è che non si spari più, che non si lancino più missili contro Israele e che si fermino le azioni militari di Israele.

Si obietta che manca la garanzia da parte di Hezbollah. È chiaro che se qualcuno dovesse violare questa consegna, nessuno impedisce di reagire. La cessazione delle ostilità non può essere unilaterale. È evidente che o è bilaterale, oppure non è tale. Non ho il minimo dubbio che, al primo razzo, Israele reagirebbe. È in re ipsa che la questione trova una soluzione: se le armi tacciono, ognuno è in grado di verificare chi eventualmente violasse questa richiesta della comunità internazionale. Per ora è una richiesta dell'Unione europea, ma io spero possa presto diventare la richiesta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questo è il primo obiettivo dell'Europa, che il Consiglio di sicurezza faccia sua la posizione che noi sosteniamo. Ha ragione chi dice che è necessario che tornino in campo la politica e le istituzioni internazionali, altrimenti ci sarà solo la voce delle armi.

Sul tema della liberazione degli ostaggi, noi abbiamo ragionevole convinzione, sulla base di diversi contatti, che la cessazione delle ostilità potrebbe essere seguita abbastanza rapidamente dalla restituzione degli ostaggi. Mi pare di capire che, in parallelo, non in una logica di scambio dei prigionieri, tuttavia vi sia anche una disponibilità israeliana a compiere gesti. Questo vale sia nel rapporto con i palestinesi, sia nel rapporto con i libanesi. Come voi sapete, nelle carceri israeliane ci sono circa 10 mila prigionieri palestinesi, fra i quali almeno 300 bambini e donne, oltre a un numero considerevole di parlamentari eletti e di membri del Governo, dei quali il G8 - non un gruppetto estremista - ha chiesto l'immediata liberazione. Se si fermano le ostilità, credo che questa liberazione possa avvenire.

Per quanto riguarda l'Italia, a Nabih Berri, che aveva invitato il nostro paese ad esercitare una mediazione per lo scambio dei prigionieri, noi abbiamo risposto pubblicamente che se loro sono in grado di fare liberare gli ostaggi israeliani, procedano alla liberazione immediata, come segno di buona volontà, perché questo contribuirebbe ad aprire la strada ad una cessazione delle ostilità. Questa è stata la nostra risposta pubblica, nella convinzione che questo ci potrebbe dare la forza per chiedere ad Israele atti paralleli.

Per domani è convocata a New York una riunione preliminare per quanto attiene alla costituzione di una forza internazionale. La Francia ha annunciato che non parteciperà a questa riunione. È una posizione molto drastica, che sottolinea quello che ho spiegato e che temo, vale a dire che il perdurare del conflitto renda via via impraticabile la prospettiva della formazione di una forza internazionale. Ritengo che questo sarebbe un fatto molto negativo. A mio parere, dislocare una forza internazionale nel sud del Libano costituirebbe un fatto molto importante, anche per l'Europa. Personalmente penso anche che l'Europa conterebbe di più in Medio Oriente, rispetto al peso non sempre rilevante che ha avuto in questi anni. Tuttavia, è chiaro che se non c'è una cessazione delle ostilità non si avvia il processo positivo. La posizione francese di non partecipare neppure ad una riunione preliminare sottolinea il rischio...

...Noi siamo orientati a partecipare, anche perché, in generale, siamo soliti accogliere gli inviti del Segretario generale delle Nazioni Unite. Parteciperemo attraverso la nostra rappresentanza e con un ufficiale che rappresenta il COI, il Comando operativo interforze, che è direttamente coinvolto nei compiti organizzativi. È chiaro, però, che saremo tutti auditori.

L'esame della situazione porta a dire con chiarezza che non si forma nessuna forza se non tacciono le armi e che quanto ancora recentemente Olmert ha ripetuto, cioè che gli israeliani continueranno a combattere fino a quando il contingente non sarà entrato nella regione, è una posizione irrealistica. È evidente che nessun contingente internazionale può andare in un teatro di guerra dove si combatte. Intestardirsi su questa posizione rischia di fare svanire quella che, a mio giudizio, è un'importante opportunità.

Come è stato detto, questa forza - che certamente dovrà essere una forza consistente, non un gruppo di osservatori, e dovrà avere un deterrente militare significativo - non è comunque una forza combattente. È una forza di interposizione, di stabilità, di sicurezza, non è una missione di guerra contro qualcuno. Sarebbe abbastanza strano che noi mandassimo una forza a fare la guerra contro qualcuno. Non mi pare realistico.

Credo che il disarmo di Hezbollah sia in parte notevole un processo politico. Oltretutto, Hezbollah ha sottoscritto un impegno al disarmo delle proprie milizie contenuto nell'accordo di Taif tra le forze politiche libanesi. La risoluzione n. 1559, quindi, è anche supportata da un accordo politico nazionale libanese. La presenza di una forza delle Nazioni Unite dovrebbe accompagnare la realizzazione di questo accordo politico nazionale libanese.

Il pretesto per il quale Hezbollah non ha disarmato è la rivendicazione dell'integrità territoriale del Libano e la volontà di liberare le Sheba Farms, una parte del Golan, occupate da Israele, che vengono rivendicate come parte integrante del territorio nazionale libanese. Tra l'altro, questa parte del Golan è anche oggetto di una rivendicazione siriana. Si tratta, insomma, di una questione molto complessa, ma credo che la sua soluzione debba far parte della ricerca di una soluzione politica. Da anni tale questione rappresenta un fattore di destabilizzazione della regione. Intanto, potrebbe essere la forza internazionale delle Nazioni Unite ad occupare le Sheba Farms, con il ritiro delle forze armate israeliane da questa posizione. Questo potrebbe, in parte, disinnescare una delle ragioni che hanno alimentato il nazionalismo libanese di matrice sciita nel corso di questi anni.

Si tratta di un'operazione complessa, che tuttavia può essere innescata a condizione che ci sia una cessazione delle ostilità. Questa è la condizione per innescare il processo politico positivo, e anche che ciò avvenga abbastanza rapidamente. È evidente che più procede il conflitto, più si accumulano le vittime e l'odio, più rischiamo che anche una forza internazionale vada ad installarsi in un'area profondamente degradata e carica di rischi.

Mi permetto di dire che il mio giudizio è l'opposto di quello di chi pensa di lasciar fare agli israeliani, in modo che si possa andare in quella regione in una situazione più tranquilla. A mio modo di vedere, questo è un giudizio molto superficiale. È evidente che se la guerra seminerà morti e odio si andrà in quella zona in una situazione molto più degradata, dove il rischio che siano le forze internazionali - viste come rappresentanti dell'Occidente - ad attirare la ritorsione fondamentalista e terroristica diventa molto più alto.

Penso, quindi, che si debba ragionare bene, al di fuori di schemi propagandistici, pure del tutto legittimi. Mi sembra che la mia riflessione, che d'altro canto è abbastanza comune nelle cancellerie europee, sia abbastanza serena ed oggettiva. Non ho nascosto, neanche parlando al Parlamento, le responsabilità della Siria e dell'Iran nell'aver incoraggiato posizioni estremistiche. Ho ricordato il rischio rappresentato dal fatto che il presidente iraniano neghi il diritto all'esistenza di Israele, o peggio parli della cancellazione di Israele dalle carte geografiche.

Tuttavia, è evidente che un processo di stabilizzazione deve coinvolgere la Siria e l'Iran. La politica dell'isolamento è una politica che non ha dato frutti nel corso di questi anni. Naturalmente si deve parlare ai governanti di questi paesi con spirito di verità, chiedendo loro comportamenti coerenti con le esigenze di una politica di pace. Questo abbiamo fatto nei contatti e negli incontri che abbiamo avuto. E questo farà Miguel Angel Moratinos a Damasco, in una missione che certamente non deriva da un mandato europeo, ma della quale non eravamo disinformati. Moratinos, oltre ad essere ministro degli esteri della Spagna, è stato a lungo inviato dell'Unione europea per la crisi in Medio Oriente, quindi ha una conoscenza profonda delle situazioni e dei protagonisti.

La preoccupazione siriana è che la questione siriana e del Golan finiscano per essere accantonate, nel quadro di una soluzione di altri aspetti del conflitto mediorientale, ossia che la rivendicazione nazionale siriana sia dimenticata dalla comunità internazionale. A volte, quando si teme di essere dimenticati, si possono anche adottare modi sbagliati per non farsi dimenticare.

A mio parere, in questo momento alla Siria si deve chiedere un contributo positivo, come abbiamo fatto in un incontro con il ministro dell'informazione siriano, Moshen Bilal, persona che ha studiato in Italia e conosce molto bene il nostro paese, vicino al presidente Bashir Assad. In quell'incontro abbiamo chiesto un comportamento positivo, dettagliando cosa intendiamo per apporto positivo, su diversi scenari. Inoltre, abbiamo chiarito che l'avvio di un processo di pace e di distensione per noi è anche la via che porta alla ripresa di una trattativa tra Israele e la Siria, perché si arrivi alla firma di un trattato di pace tra i due paesi. Nessuno vuole isolare la Siria o negarne i diritti. In un processo di pace e di distensione, questi problemi potranno trovare anch'essi una loro soluzione. Vi ringrazio.

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