Intervista
10 novembre 2006

Israele non sarà sicuro con l'uso della forza

Intervista di Umberto De Giovannangeli - L'Unità


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«Il voto americano segnala il venir meno della fiducia nella guida del Paese. Una sfiducia che investe la Casa Bianca e che segnala al tempo stesso la fine di un ciclo». Il ministro degli Esteri e vicepremier Massimo D’Alema spiega all’Unità le linee della politica estera italiana dopo il voto americano che ha sconfitto la presidenza Bush. Ma a preoccupare il titolare della Farnesina sono soprattutto le notizie che giungono dalla Striscia di Gaza. D’Alema rifiuta di considerare la strage di civili di Beit Hanun un «errore»: «Quello che è accaduto a Beit Hanun - afferma D’Alema - è il tragico sbocco di una politica, di una scelta sbagliata che fonda la sicurezza di Israele sull’uso estremo della forza».

«In Medio Oriente occorre ribaltare le priorità: una svolta reale per la stabilizzazione della regione può avvenire solo attraverso una soluzione negoziale del conflitto israelo-palestinese. Ne va dello stesso rapporto tra l’Occidente e il mondo islamico».

Partiamo dal voto di midterm negli Usa. Qual è il suo giudizio complessivo?

«Il voto americano è un fatto molto rilevante. Ho visto diversi tentativi di sminuirne la portata: un voto atteso, si è scritto, l’alternanza...È vero in parte. Il risultato è andato al di là delle aspettative. È dal 1994 che i Democratici, persino quando hanno avuto la Presidenza, non controllano ambedue i rami del Congresso. Perciò, non una dialettica di alternanza di routine. È un voto di grande portata politica che determina un quadro abbastanza singolare rispetto ad una tradizione americana in cui l’elettorato si era spostato su posizioni conservatrici anche nei momenti in cui la Casa Bianca è stata nelle mani dei Democratici. In questo voto, come è naturale per un grande Paese come l’America, convergono tante motivazioni. Anche qui, noto lo sforzo di una parte di commentatori nel sostenere che non è l’Iraq, sono gli scandali...».

Invece, ministro D’Alema?

«Il voto americano è sempre molto legato alla politica interna, ma in questo frangente si fondono diversi aspetti. E in ogni caso emerge un problema più generale che mi pare consista in un evidente calo della fiducia nella guida del Paese. E in definitiva, anche la questione morale non è disgiunta dall’Iraq. La cosa che fondamentalmente molti oppositori rimproverano a Bush è di avere mentito al Paese per fare la guerra, per motivare un conflitto; di aver creato Guantanamo; di aver stabilito un controllo sulla vita privata dei cittadini. E il voto di midterm segnala una forte domanda di cambiamento».

Alla luce di queste considerazioni sulle ragioni e la portata del voto Usa, quale cambiamento ritiene possibile?

«Naturalmente nel sistema americano, che è molto complesso, la politica la continuerà a fare la Casa Bianca. Una cosa è il senso del voto, un’altra cosa sono gli effetti che il voto potrà produrre. Da questo punto di vista, il biennio di coabitazione tra la maggioranza Democratica al Senato e alla Camera dei Rappresentanti e Bush alla Casa Bianca, si prospetta problematico. L’Europa deve misurare in questo caso opportunità, rischi e accresciuta responsabilità. Non credo che ci si possa aspettare, adesso, che il voto produca un repentino cambiamento generale della politica estera americana, tuttavia esso conferma che l’ondata neoconservatrice, con l’apparato ideologico che ha accompagnato il fondamentalismo neoconservatore, esce battuta da un ciclo elettorale che ha visto la sconfitta di Aznar e quella di Berlusconi, che ha visto il declino di Blair, entrato in crisi proprio sull’Iraq. L’opinione pubblica dei grandi Paesi democratici cerca una nuova politica, un nuovo approccio al grande tema che si è aperto dopo l’11 settembre».

Il «licenziamento» del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld in tutto questo che valore assume?

«Certamente Rumsfeld è stato il più esposto, nel senso di una sua maggiore responsabilità rispetto ad errori e violazioni dei diritti umani. Dovendo pagare un prezzo politico, è anche normale che chi è stato responsabile in prima linea di ciò che l’opinione pubblica respinge, ne prenda atto e si dimetta...».

L’uscita di scena di Rumsfeld è l’ammissione da parte del presidente Bush del fallimento della «strategia» irachena?

«Nella leadership americana, e non solo nell’opinione pubblica. la consapevolezza dello scacco iracheno c’era già. Erano già alla ricerca di una via d’uscita. È chiaro che il risultato elettorale spingerà la Casa Bianca a trovare un compromesso con il Congresso. Il richiamo in servizio di James Baker a cui affidare la ricerca di una “exit strategy” è indicativo dell’ammissione di questo fallimento. Non dimentichiamo che la “guerra preventiva” in Iraq ha diviso Bush figlio da Bush padre, di cui Baker è stato segretario di Stato. D’altro canto, alcuni segnali di un cambiamento della politica estera americana ci sono già stati. Non c’è dubbio che la conduzione dell’iniziativa americana di fronte alla guerra del Libano ha avuto un segno diverso rispetto alle esperienze precedenti».

Adesso il voto americano va proiettato sullo scenario mediorientale; uno scenario sempre più segnato dalla violenza.

«Io non credo che per gli americani sarà molto facile avere un grande cambiamento nella loro politica estera. La situazione dell’Iraq è obiettivamente complessa e non esiste una facile via di uscita. L’unica soluzione è aprire un negoziato con le forze che si oppongono agli americani, in particolare con il mondo sunnita e con una parte del mondo sciita, e cercare di trovare un accordo nazionale che a quel punto isoli il terrorismo di Al Qaeda. Perché il vero problema dell’Iraq è l’accumularsi di tre tipi di violenza, che troppi hanno semplicisticamente etichettato come “Terrorismo”. C’è il terrorismo, ma ci sono anche gli insorti e c’è la violenza religiosa. L’unica via è quella di trovare un compromesso nazionale che permetta la creazione di un fronte iracheno per isolare ed espellere il terrorismo qaedista che i è un prodotto di importazione, venuto in Iraq a seguito del conflitto. Il vero grande messaggio di novità che può essere dato al mondo arabo e islamico è un altro; ed è il punto da cui si sarebbe dovuto partire in Medio Oriente...».

Qual è questo punto da cui si sarebbe dovuto partire?

«La questione israelo-palestinese. Penso che sarebbe una scelta lungimirante da parte americana mettere il focus su questo conflitto, considerarlo la priorità dell’azione internazionale. Fin qui l’Amministrazione Bush ha sempre ritenuto che quella fosse una questione su cui non si potevano mettere le mani perché, in sostanza, non si poteva “disturbare” Israele. Ora si tratta di rovesciare la gerarchia dei problemi, considerando che la vicenda irachena è molto complessa e richiede un’azione rinnovata ma di medio periodo, e agendo per voltare pagina con estrema rapidità laddove c’è una emergenza drammatica, pena il rischio di una disgregazione della società palestinese, con effetti di destabilizzazione di tutta l’area. E bisogna agire spingendo Israele...».

Tema sempre delicato e foriero di polemiche.

«La cosa che mi colpisce di più è l’isolamento delle voci ragionevoli, anche rispetto alle grandi comunità ebraiche democratiche. La comunità ebraica americana comincia a dividersi su questo punto, ma ciò non sembra avvenire nel nostro Paese. Penso al dramma di David Grossman: un figlio ucciso in Libano, e lui che afferma che Israele non può più affidarsi in modo esclusivo al mito della potenza militare, all’uso della forza. Ebbene, il fatto che questa coraggiosa asserzione non trovi una eco nel mondo democratico ebraico, ciò non può non porre preoccupanti interrogativi...».

Questo dopo la strage di Beit Hanun.

«C’è chi di fronte a questa tragedia ha parlato di un “errore”. Come un “errore”! Quello che è accaduto a Beit Hanun è il frutto di una politica, è lo sbocco di una scelta. Israele ha reagito alla crisi che si è aperta con il rapimento del caporale Shalit con una offensiva militare che ha prodotto 360 morti e 4000 feriti. Hanno bloccato i Territori, impedendo persino l’afflusso di medicinali. Non metto nel conto le persone che sono morte negli ospedali per mancanze di cure. Hanno distrutto le centrali elettriche, i servizi essenziali. A Beit Hanun sono morti 8 bambini in un colpo solo e questo ha fatto notizia, ma giorno dopo giorno ne sono morti 57, di bambini palestinesi, nella indifferenza pressoché totale dell’opinione pubblica internazionale. Oltretutto, la escalation militare è intervenuta anche ad ostacolare l’avvio di un processo politico nuovo tra i palestinesi, perché è evidente che la violenza chiama altra violenza, esplode la rabbia e si finisce per vanificare gli sforzi del presidente Abu Mazen di fare un governo di unità nazionale per indurre Hamas a riconoscere Israele e a riprendere il negoziato. In questo senso, quindi, Beit Hanun rappresenta il risultato di una politica che affida in modo esclusivo all’uso della forza la sicurezza di Israele, una politica sbagliata per questioni di principio - il rispetto della vita umana, il fatto che in questo modo si colpiscono civili inermi - ma anche perché questa strategia risponde a una logica tutta interna a Israele...».

A quale logica interna si riferisce?

«Mi riferisco a un governo indebolito dalla guerra in Libano, incalzato da destra, con l’accusa di non essere stato abbastanza determinato nelle operazioni militari e che per questo colpisce i palestinesi per dimostrare che invece è forte. Io trovo che questa è una spirale politicamente disastrosa».

Come si può intervenire?

«Innanzitutto c’è chi in Israele si oppone a questa politica. Penso ad una parte dello stesso partito laburista, e a settori importanti della società civile. Ma la cosa che mi colpisce è che questi settori più ragionevoli, più moderati della politica israeliana non hanno un adeguato sostegno internazionale da parte del mondo ebraico più democratico. E non si capisce che questa politica della forza è destinata a creare una situazione di patologica insicurezza per Israele. Qualche anno fa non c’era Hamas e non c’era Hezbollah. Tra qualche mese a Gaza non ci sarà più soltanto Hamas, ci sarà il rischio di una infiltrazione anche di Al Qaeda. È inevitabile che senza speranze e sotto il peso di un attacco militare spietato che semina vittime tra i civili, prenda piede una radicalizzazione estrema. Il giorno in cui dovesse cedere anche l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, nei Territori ci sarebbero l’anarchia e il terrorismo, e null’altro. Credo davvero che siamo arrivati ad una emergenza rispetto alla quale non è più possibile rimanere con le mani in mano. Bisogna chiedere, e l’Europa deve essere portatrice di questa istanza, che si fermi l’attacco militare israeliano. Si tratta di una richiesta minima, elementare, e al tempo stesso occorre che la Comunità internazionale intervenga attivamente perché si trovi un accordo tra i palestinesi, stimolando anche la classe dirigente palestinese che deve assumersi le proprie responsabilità rispetto al suo popolo. La costituzione di un governo di unità nazionale palestinese è l’unica via per riavviare un percorso negoziale...».

Un percorso con quali tappe ulteriori?

«Una volta dato vita a questo governo, si dovrebbe attivare un meccanismo che passi attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che riprenda la Road Map, dando ad essa una forza giuridica aggiuntiva e accelerandone il processo di attuazione. Ciò che occorre fare è imporre un cessate il fuoco, chiedere la restituzione dei prigionieri, da una parte e dall’altra, inviare una forza di osservatori internazionali e indicare le tappe accelerate di un negoziato che porti ad un accordo di pace globale. E tutto questo dovrebbe essere incardinato in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Decisivo è il fattore-tempo. Io sono dello stesso parere espresso dal re di Giordania Abdallah II: se non si accelera la creazione di uno Stato palestinese, lo Stato palestinese non nascerà più perché ne verranno meno le premesse. C’è rischio di una disgregazione della società palestinese, di una situazione di crescente anarchia nei Territori. Se ciò avvenisse, si determinerebbe non solo un fattore di permanente insicurezza per Israele, ma anche di destabilizzazione per tutto il mondo arabo, con effetti drammatici nei rapporti tra l’Occidente e il mondo islamico, nel senso di un livello di odio anti-occidentale pericoloso per la nostra sicurezza».

In questo quadro resta infiammabile la situazione nel Libano dove opera in ambito Onu il contingente italiano. Corriamo dei rischi?

«In Libano ci sono dei pericoli. E possono diventare molto gravi se la situazione sul fronte israelo-palestinese non fa passi in avanti. Sulla situazione libanese gravano molte incertezze. Innanzitutto un’azione volta a destabilizzare il governo di Fuad Siniora, con il rischio del riaprirsi di un conflitto interno al Libano. I pericoli non riguardano quindi solo la frontiera israelo libanese, dove, comunque, anche qui l’atteggiamento israeliano non ha aiutato la stabilizzazione. Penso alle bombe a grappolo disseminate e ai ripetuti sorvoli dello spazio aereo libanese. Ma dall’altra parte c’è anche una azione di destabilizzazione che viene da forze radicali islamiche e da Paesi vicini come la Siria. Quindi la situazione nel Libano è tutt’altro che pacificata. È una situazione piena di rischi in cui bisogna difendere il governo Siniora e la presenza militare deve necessariamente integrarsi ad un’azione politica. Il nostro contingente fa bene la sua parte. Che non ci sia più la guerra è un buon risultato ma bisogna operare con forza e convinzione per aiutare il Libano a diventare una democrazia normale. Sarebbe molto bene per il Libano ma anche per Israele».

I nostri soldati sono presenti anche in Afghanistan. Ci resteranno?

«Non vedo come si possa andar via dall’Afghanistan in questa situazione e credo che nessuno tra noi voglia il ritorno del regime oscurantista dei Talebani. Detto questo, in Afghanistan ci vuole un forte rilancio dell’iniziativa internazionale, e forse anche di un ripensamento delle linee di azione, potenziando gli aspetti politici, economici e umanitari, dato che sul piano esclusivamente militare è difficile trovare una soluzione alla crisi. Perciò stiamo lavorando a una nuova Conferenza internazionale sull’Afghanistan in grado di coinvolgere anche i paesi della regione. Sabato a Kabul parleremo di questo con le autorità afghane».

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