Intervista
7 dicembre 2006

«Generali ai francesi? Va difesa l'italianità»<br>

Intervista di Alberto Orioli - Il sole 24 ore


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«La decisione del Governo di mettere sul mercato il 30,1% del capitale rendendo così obbligatoria l’Opa taglia la testa al toro rispetto a tante speculazioni o voci prive di fondamento. È evidente che soltanto un imprenditore o un gruppo disposto a impegnarsi con molta serietà e risorse rilevanti potrà misurarsi con questa sfida». Il caso Alitalia è un buon inizio per parlare con Massimo D’Alema, 57 anni, vicepremier e ministro degli Esteri, dei rapporti tra politica ed economia.

È vero che i Ds puntano su Toto?
Ci penserà il mercato, non si voterà in Parlamento. Toto ha dimostrato capacità imprenditoriali. Se avrà un piano industriale, i capitali, potrà concorrere. Io non so nulla dei suoi progetti. Parliamoci chiaro: chiunque abbia voglia di spendere, di fare l’imprenditore si faccia avanti.

E i dubbi antitrust indicati da Catricalà?
Se mettiamo insieme Alitalia e AirOne faremo, sì e no, il 60% del mercato che è meno di quanto normalmente controllano le cosiddette compagnie di bandiera nei mercati domestici dei Paesi cosiddetti liberali. Non vorrei che noi diventassimo più liberali dei liberali...
Con il "paletto" della garanzia dei livelli occupazionali rischia di essere compromesso l’interesse all’acquisto. Il problema di Alitalia è l’eccesso di sindacalizzazione.
Dobbiamo solo evitare che finisca in mano a chi vuole fare soltanto speculazione finanziaria.

Parliamo di Mediaset che proprio lei definì «un patrimonio del Paese». La legge Gentiloni, dice Fedele Confalonieri, brucia un quarto del fatturato. È una vendetta?
Mediaset è un patrimonio del Paese. Quel patrimonio è diventato enormemente più grande anche grazie a una normativa di favore. Il Ddl Gentiloni introduce modeste limitazioni in materia di concentrazione pubblicitaria e semmai si potrebbe rimproverare a quel disegno di legge di essere un compromesso tra quello che sarebbe giusto e quello che è considerato accettabile. Dalla legge può venire a Mediaset l’incoraggiamento a innovare, a divenire più competitiva, anziché sfruttare una rendita di posizione che non sarebbe sostenibile in nessun Paese democratico.

Accettabile da chi? Certo non da Confalonieri che ha già protestato. A proposito, le ha telefonato?
No, non mi ha telefonato. Per tornare al tema, osservo che in altri Paesi, magari campioni della cultura liberale, i casi di concentrazione si risolvono con norme assai più drastiche, come accade negli Stati Uniti. La proposta Gentiloni è equilibrata e assai rispettosa degli interessi di Mediaset. Provare a farla passare per una legge punitiva è davvero improbabile.

E se per ragioni tecnologiche e di mercato in futuro si arrivasse a una convergenza Mediaset-Telecom che posizione prenderebbe?
A parte il fatto che questa della convergenza tecnologica è una tesi contrastata, io non entro nel merito. Credo solo che noi dovremmo sviluppare una grande industria nazionale dei contenuti. L’Italia sarebbe naturalmente, per vocazione culturale, un content provider competitivo, ma ancora non si investe abbastanza nei contenuti, nella qualità. Siamo importatori di format e tendiamo a omologarci. Comunque, tornando alla domanda, se l’evoluzione tecnologica richiedesse la nascita di imprese miste tv-telefono non porrei barriere. Il problema di Mediaset semmai è di evitare di essere trasformata in un partito.

A proposito di tv e partiti. Molti vedono in lei uno dei principali sponsor del terzo polo tv che vede protagonista il gruppo De Agostini.
Io non sponsorizzo nessuno e non conosco neppure i protagonisti di queste iniziative editoriali. Qualche tempo fa si disse che io sponsorizzavo la scalata di Ricucci al Corriere della Sera. Non ho mai incontrato Ricucci e non mi occupo di scalate. La verità è che vi sono nel nostro Paese alcuni operatori dell’informazione, i quali, anziché informare, fanno servizi a qualcuno. A volte anche bassi servizi.

Anche la nomina di Iozzo voluta da Piero Fassino alla testa della Cassa depositi e prestiti è una leggenda metropolitana? Cosa dovrà fare la Cassa in futuro?
Iozzo non è stato nominato da Fassino e, semmai, lei si dovrebbe preoccupare se egli abbia i requisiti professionali ed etici per l’incarico a cui è stato chiamato. A mio giudizio li ha. La Cassa depositi e prestiti eroga crediti per gli enti locali e può contribuire a finanziare investimenti nelle grandi infrastrutture di cui ha bisogno il Paese. L’importante è che lo faccia sempre di più in una logica di mercato e non in una logica "politica".

La presenza del "partito di Prodi" nell’economia sembra aumentare dopo l’operazione Intesa-Sanpaolo. È una leggenda metropolitana anche questa? È solo un gossip il fatto che i Ds siano in grande affanno perché devono recuperare terreno?
Leggende. Se fosse vero che Prodi controlla l’economia dovrei esserne lieto, sono il suo vicepresidente.

Però lei è andato in vacanza pensando che si sarebbe fatta la fusione Sanpaolo-Monte Paschi e al ritorno si è trovato Intesa-Sanpaolo.
Non ho mai sospettato nemmeno per un momento che si sarebbe arrivati a Monte Paschi-Sanpaolo. Mi si accusa di un’ingenuità assoluta.

Nel senso che lei conosce troppo bene i senesi per credere che siano disposti a fondersi?
Nel senso che so quanto siano gelosi della propria autonomia.

Dunque si aspettava Intesa-Sanpaolo?
Non posso nascondere che sia stata una sorpresa per me come per tutti. Anche Prodi mi ha detto che è stata una sorpresa pure per lui. E io non ho motivo di dubitarne.

Tuttavia si è creata una concentrazione di potere notevole attorno all’area di Bazoli o Guzzetti certo più vicini all’area culturale del premier che non alla vostra. .
Ho delledifficoltà, conoscendo un po’ Bazoli, a pensare che sia la longa manus di qualche pezzo della politica

Un’altra delle voci-notizie che la riguardano è che sarebbe favorevole al matrimonio tra il Monte e Capitalia.
Se ci fosse un codice deontologico serio del giornalismo italiano, l’espressione "voce-notizia" dovrebbe essere messa al bando. Com’è noto, mi occupo di politica e non sono azionista né del Monte dei Paschi, né di Capitalia.

Veniamo al cuore del rapporto tra politica e finanza: l’italianità delle Generali. In queste ore si decide il futuro del patto di Mediobanca e dunque il futuro della Compagnia. I francesi hanno una strategia precisa. Lei che ne pensa?
È una questione che non può essere interamente risolta in una logica astratta di mercato. Deve trovare una soluzione equilibrata. È chiaro che il mercato resta il riferimento essenziale, ma quando si tratta di interessi strategici dei Paesi dovunque entra in gioco la politica. Non possiamo pensare che il cuore finanziario dell’Italia lo prenda qualcun altro.

Dunque deve restare italiano?
Penso proprio di sì. Ma non in senso chiuso. I francesi già sono in Mediobanca ed è stata una presenza utile. Del resto ho sempre sentito il presidente delle Generali dire nel suo elegante francese che occorreva difendere l’italianitè delle Generali.

Con i francesi ci sono varie partite aperte, da Finmeccanica ad Alitalia. Come vanno trattate?
Credo che nessuno possa toglierci Finmeccanica. È una società forte, un pezzo di economia italiana in grado di integrarsi con il mondo e non in modo subalterno. In settori complessi come quelli degli armamenti e delle tecnologie integrarsi può significare cedere la guida a chi è più avanti, mantenendola nei settori dove esiste invece la propria eccellenza. Credo che il futuro sia nella forte integrazione europea del sistema delle imprese, in modo coerente anche con la crescita politica dell’Europa. Naturalmente il nostro interesse è che alcune mantengano la testa in Italia.

La privatizzazione Fincantieri è un caso politico. Il Tesoro vuole vendere, la sinistra radicale no. Qual è la sua opinione?
Fincantieri è un’azienda che va bene: ha bisogno di capitali per crescere ancora di più. Il Governo non esclude che possa andare in Borsa, ma la premessa è che occorre un piano industriale serio, poi si vedrà.

Cooperative. Fu proprio da un’intervista al Sole-24 Ore che nacquero molte polemiche politiche per il suo appoggio all’Unipol di Consorte. A oltre un anno dall’estate dei "furbetti" cosa pensa?
Penso quello che pensavo allora. Credo che ci fosse una vicenda con profili assai discutibili anche dal punto di vista della liceità — che è il caso AntonVeneta — e credo che Unipol sia rimasta impigliata — vedremo la conclusione delle indagini — probabilmente in modo marginale. Ma è del tutto evidente che questo ha offerto il pretesto per stroncare un’operazione che dava fastidio. C’è stato un eccesso di ingenuità: non si fanno operazioni di quella portata senza adeguate alleanze e protezioni. Questa è la verità, l’errore vero.

Viene da pensare che ad esempio Colaninno ai tempi dei "capitani coraggiosi" seppe muoversi meglio. E a Palazzo Chigi c’era lei.
Colaninno non fece nessuna mossa particolare, ma, per la prima volta nella storia del nostro Paese, comprò una grande azienda sul mercato remunerando tutti i possessori di azioni grandi e piccoli. Il Governo non fece nulla, perché restò assolutamente neutrale. Colaninno, poi, ha dimostrato di essere un bravo imprenditore.

Tornando all’Unipol, dunque concorda con la ricostruzione che fa Mucchetti ne "Il baco del Corriere", certo molto critico nei confronti di Tronchetti, Della Valle e Geronzi?
Sì, quella è la verità. C’è un sistema di poteri — ed è anche ovvio che sia così — che si tutela nei confronti dei new comers.

Come?
Ad esempio con l’informazione. D’altro canto quando uno deve difendersi e dispone di un bastone che fa? Lo usa.

Ma i giornali sono giornali, non bastoni. E i giornalisti fanno il loro mestiere, piaccia o no, ed esercitano autonomia di giudizio.
Purtroppo non sempre è così. Quando sono in gioco interessi vitali finisce per pesare l’interesse della proprietà. D’altra parte è inevitabile, visto l’assetto del tutto peculiare dell’editoria italiana. Non esistono editori puri, si possiede un giornale non per cercare di fargli vendere tante copie, ma per avere uno strumento di pressione. Per un certo periodo ho sostenuto che bisognava introdurre una norma anti-trust di tipo americano: chi ha interessi privati in altri settori non può possedere giornali. Un’utopia in Italia dove, però, continuo a considerare del tutto assurda l’idea che chi ha televisioni non debba avere giornali. È una cosa che non ha logica.

Torniamo al capitalismo all’italiana: proliferano i soggetti del neo-socialismo municipale, le cooperative. Protagonisti che godono di condizioni di favore dettate dalla politica.
Un conto sono le coop che sono imprese.

Imprese agevolate.
Sono imprese con qualche agevolazione e con qualche limitazione nelle loro possibilità di manovra. Altro conto sono le società municipali. I cooperatori sono dei bravi imprenditori e lo dimostra il fatto che ogni qualvolta le cooperative danno vita a società per azioni che vengono quotate in Borsa, normalmente ottengono un grande successo. Nel mondo cooperativo ormai ci sono realtà molto diverse: da un lato ci sono moltissime piccole cooperative, fatte da pochi lavoratori che si associano tra loro; e poi ci sono poche grandi strutture — nella distribuzione, nelle costruzioni, in una parte del sistema dei servizi — che sono ormai grandi imprese e hanno problemi propri della grande impresa. Alcune possono diventare delle Spa, ma si possono immaginare anche altre ipotesi. Su questi temi nel movimento cooperativo è in atto una riflessione. Credo che il prossimo congresso della Lega possa essere un momento importante di elaborazione e definizione delle strategie di questo che è uno tra i più vitali settori dell’economia italiana.

E l’invadenza degli enti locali?
C’è un problema di riforma del sistema dei servizi pubblici locali: vanno aperti al mercato, magari anche privatizzati. Ma occorre distinguere: ci sono aziende gioiello — e non voglio parlare del solito, efficiente modello emiliano — come, ad esempio, la Asm di Brescia e altre che sono dei veri e propri enti pubblici. È ovvio che hanno bisogno di interventi diversi.

La piazza pro Berlusconi di Roma e le tante piazze al Nord che hanno unito piccole imprese, commercianti e artigiani denunciano tutte la stessa cosa: non si sentono rappresentate da voi. Vorrebbero una riconoscibilità sociale diversa, chiedono di uscire dal paradigma fiscale che li vedrebbe evasori.
Intendiamoci: siamo un Paese diviso. Quando c’era il centro-destra al Governo lo stesso problema di riconoscibilità sociale l’avevano gli insegnanti che erano tutti in piazza contro il Governo. Le divisioni politiche sono normali, ma se diventano fratture territoriali o sociali sono un danno. È vero: con il mondo della piccola impresa in questo momento abbiamo un problema. Ma il nostro è stato ed è soprattutto un problema di messaggio, non di sostanza. I fatti ci daranno ragione. Come già si vede, la lotta all’evasione sta dando risultati e questo consentirà a breve agli italiani onesti di pagare meno tasse. Non c’è stata alcuna demonizzazione fiscale.

Una certa volontà di rappresentare il Fisco come implacabile persecutore però esiste.
Semplicemente le tasse vanno pagate in ragione di ciò che si guadagna. Punto. Il tema è questo. Purtroppo la nostra debolezza è la forza di Berlusconi. Lui incarna naturaliter quel fastidio per le norme, quel sentimento anti-statale che è molto diffuso. C’è l’idea di fondo che lo Stato non serva perché è solo parassitismo. Lo slogan è: noi produciamo loro consumano e sperperano. Ma sono sentimenti con i quali ci dobbiamo confrontare. Ora il futuro passa dal patto per la produttività di cui abbiamo parlato nel seminario di Italianieuropei, il nuovo patto sociale.

Sì, ma se viene percepito come la distruzione della legge Biagi non farà molta strada.
Damiano ha impostato questa questione con grande serietà ed equilibrio. Il vero problema è quello di incentivare flessibilità e meritocrazia, colpendo, però, forme intollerabili di precarietà e di supersfruttamento. Questo può essere la base di un accordo serio tra sindacati e imprenditori.

E la politica cosa ci mette?
Una intelligente capacità di governo. Penso all’eredità lasciata in Veneto e in Emilia dai grandi partiti storici Dc e Pci. Hanno governato facendo il patto con la piccola e media impresa locale. Quel compromesso sociale credo sia ancora valido. C’è, in più, una grande questione di fondo nel nostro Paese: la paura delle tecnologie, una sorta di diffidenza culturale verso la scienza e le sue applicazioni. Su questo dovremo riflettere. E molto. È in gioco il futuro.

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