Intervista
8 febbraio 2007

D’Alema: Italia-Usa, ecco la verità <br>

Intervista di Claudio Sardo - Il Mattino


Il caso Afghanistan; i rapporti con Washington; il peso e il ruolo dell’Italia nella politica internazionale. In un’intervista al Mattino, il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, traccia le linee della futura azione di governo in politica estera. Sulla polemica con gli ambasciatori di Usa, Gran Bretagna, Australia, Canada, Olanda e Romania per la lettera aperta che invitava l’Italia a restare a Kabul, D’Alema spiega: «Dovevamo difendere la dignità dell’Italia e non potevamo non rispondere a fronte di un’iniziativa totalmente irrituale. C’è chi cerca sponde all’estero per metterci in difficoltà». Sul vertice dell’Unione per la missione in Afghanistan: «La prossima settimana ci sarà un dibattito in Senato. Presenterò una relazione e, alla fine, si voterà. La verifica dell’intesa avverrà davanti a tutti...». Intanto a Roma rinviato a giudizio il marine Mario Lozano che sparò e uccise Nicola Calipari a Baghdad. Gli Usa: nessuna estradizione, per noi il caso è chiuso. Oggi D’Alema vede l’ambasciatore americano Spogli.

«Dovevamo difendere la dignità dell’Italia. Non potevamo non rispondere a fronte di un’iniziativa totalmente irrituale, che non mi risulta abbia avuto luogo altrove in Europa. In un Paese normale anche l’opposizione avrebbe condiviso. Invece ho trovato stupefacente la reazione acquiescente del centrodestra». Nello studio del ministro alla Farnesina, la cui austerità è mitigata da una personale collezione di civette portafortuna, Massimo D’Alema racconta la sua verità sulla lettera di «disapprovazione» inviata agli ambasciatori. Il caso, per la tutta la giornata di martedì, si è intrecciato con la preparazione del vertice del centrosinistra. E non c’è dubbio che la nota di D’Alema - scritta dopo che il Dipartimento di Stato Usa ha approvato l’operato del suo ambasciatore e dopo le pubbliche scuse del governo rumeno - abbia contribuito alla soluzione unitaria della riunione.

Il chiarimento sulla politica estera è una delle condizioni di sopravvivenza del governo Prodi: «Dobbiamo cambiare strada rispetto alla politica che ha prodotto la guerra in Iraq» insiste il ministro degli Esteri. Comunque non è la sola condizione per il governo. Oggi D’Alema riceverà l’ambasciatore americano Ronald Spogli. Un incontro che, dicono alla Farnesina, era previsto da tempo. Tuttavia, anche se D’Alema ripete che considera ormai chiusa la vicenda della lettera, nell’incontro non mancherà certo un ulteriore chiarimento.

E’ vero, come scrive qualcuno, che i rapporti Italia-Usa sono tornati tesi come ai tempi di Sigonella?
«Non è così. Le relazioni con gli Stati Uniti sono solide e la collaborazione è proficua in molti campi. In questa occasione, però, non potevamo far finta di niente perché si tratta di un’evidente anomalia. Nessuno contesta, in Paesi democratici come i nostri, il libero scambio di opinioni e il diritto di critica. Nessun problema se un senatore americano o un leader politico di un altro Paese, su un giornale italiano o straniero, avesse mosso contestazioni anche dure verso una nostra scelta. Ma gli ambasciatori, se hanno qualcosa da dire, devono parlare con i governi». Il centrodestra replica: l’anomalia non è l’iniziativa di Ronald Spogli e degli altri cinque ambasciatori, ma la mancanza di unità nella coalizione di governo. «La verità è che in Italia c’è qualcuno che si illude di cercare sponde all’estero per mettere in difficoltà il governo del proprio Paese».

Ma chi assicura che l’Unione, nel vertice dell’altra sera, abbia davvero ritrovato l’intesa sulla politica estera?
«La prossima settimana ci sarà un dibattito in Senato. Presenterò una relazione e, alla fine, si voterà. La verifica dell’intesa avverrà davanti a tutti, nelle sedi istituzionali».

Al di là della lettera irrituale degli ambasciatori, sono sciolti i dubbi sulla nostra partecipazione alla missione Onu in Afghanistan?
«Siamo impegnati a sviluppare la nostra politica di pace. Per questo non ci sottrarremo alle responsabilità. Insieme ad altri ministri degli Esteri, ho chiesto nelle sedi Onu e Nato di rilanciare una strategia politica imperniata sull’impegno civile, sulla cooperazione economica, sul coinvolgimento dei Paesi confinanti. Una strategia che potrebbe essere rilanciata con forza da una Conferenza internazionale di pace. La soluzione a Kabul non può essere militare. Ma questo non vuol dire trascurare i problemi di sicurezza di quel Paese».

La missione italiana è attualmente composta da duemila uomini. Perché non andare via da Kabul come siete andati via dall’Iraq?
«Andare via dall’Iraq ci ha aperto nuovi, grandi spazi di iniziativa. Abbiamo sottoscritto un patto di cooperazione civile con il governo iracheno al di fuori della coalizione dei volenterosi, artefice della guerra, e questo ci ha consentito di migliorare e intensificare i rapporti con il mondo arabo. Non sarebbe stato possibile svolgere il ruolo importante che abbiamo avuto in Libano senza il ritiro dei militari dall’Iraq. In Afghanistan invece è diverso. Se andiamo via noi, non solo la situazione non migliora, ma si indebolisce la prospettiva di pacificazione».

Non sta sopravvalutando il peso dell’Italia?
D’Alema prende da una cartella la copia di un articolo del Washington Post: «Ecco il reportage di una giornalista americana dalla Mushai Valley. Finché c’era l’esercito Usa, la popolazione stava con i ribelli. Da quando sono arrivati i nostri militari è iniziata una vera pacificazione sul campo. I talebani, è la conclusione della giornalista, non vi metteranno più piede. Ma le nostre responsabilità vanno anche oltre il lavoro quotidiano dei militari. La prossima settimana il presidente Karzai sarà in Italia e in quei giorni si svolgerà a Roma un convegno su un progetto italiano per i diritti delle donne afghane. Ci siamo anche presi l’incarico di presentare noi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite le relazioni sulla missione civile Unama e sulla missione militare Isaf. Dal nostro rapporto si svilupperà il dibattito sulla conferma o meno del mandato Onu. In Parlamento discuteremo ancora se e come potenziare, da subito, il nostro impegno di cooperazione: ma andare via adesso sarebbe la negazione della politica».

Al vertice dell’altra sera comunque è rimasto il dissenso sull’allargamento della base di Vicenza. Alla manifestazione del 17 parteciperanno i partiti della sinistra radicale. Non è troppo per un governo che ha appena annunciato la ritrovata unità?
«La decisione sulla base è stata presa dal governo Berlusconi e noi avevamo il dovere istituzionale di confermarla. Va detto, peraltro, che il trasferimento di militari americani avviene nel quadro di un ridimensionamento della presenza Usa in Europa, e non come dice qualche disinformato, di un processo di riarmo. Infatti, in contemporanea, gli americani hanno deciso di lasciare la Maddalena. Comunque, la scelta del “se” non contiene la scelta del “come”. Il sito indicato nei progetti è infelice. Il comune di Vicenza ha mosso rilievi sull’impatto ambientale delle nuove costruzioni e confido che il governo degli Stati Uniti, che si è comportato fin qui correttamente, tenga conto delle preoccupazioni e delle richieste dei vicentini».

I numeri del Senato però rendono precario ogni vostro compromesso. Bastano pochi dissidenti, sull’Afghanistan oggi o sulle unioni civili domani, per mandare il governo gambe all’aria.
«Stiamo lavorando in una situazione di emergenza. Spero che tutta la maggioranza ne sia consapevole. L’emergenza è determinata da una legge elettorale antidemocratica, da un autentico colpo di mano operato dai leader della Cdl alla fine della passata legislatura. Dando per scontata la sconfitta elettorale, hanno tentato di rendere ingovernabile il sistema. E purtroppo in parte ci sono riusciti. Per portare avanti il nostro programma dobbiamo darci, come ripete Fassino, una disciplina particolarmente rigorosa. In Senato, visti i numeri, il dissenso deve manifestarsi in forme diverse dal voto. Vanno discusse le modalità. Ma non si può far finta di non sapere che, se si vota contro il decreto sulle missioni, l’effetto non sarà il ritiro dall’Afghanistan ma la crisi del governo e il ritorno a Berlusconi».

Anche sulle unioni civili il governo pare a rischio, solo che stavolta i dissensi marginali vengono dalle aree cattoliche moderate.
«Il disegno di legge sulle unioni civili, a cui stanno lavorando Pollastrini e Bindi, mi pare talmente ragionevole, talmente prudente e civile, che non riesco a immaginare come possa essere respinta. Mi sento parte della grande maggioranza degli italiani che vive con orgoglio e convinzione in una famiglia: ma la legge non cambierà nulla per questa maggioranza. Semplicemente aiuterà quel milione di italiani che convivono in coppie di fatto ad esprimere meglio la loro reciproca solidarietà e a godere di tutele assistenziali. Come avviene in tutta Europa. Non è un caso che tutti i sondaggi attribuiscano grandi consensi a questa iniziativa del governo».

Il «non possumus» di Avvenire e la chiamata a raccolta da parte della Cei dei parlamentari cattolici ricordano però la contrapposizione della legge sulla fecondazione assistita. Non teme una rottura del Partito democratico?
«Il Partito democratico sarà un grande partito di laici e cattolici. Non solo perché vi aderiranno donne e uomini di credi diversi. Ma anche perché in esso confluiranno le tradizioni della sinistra laica e del cattolicesimo democratico. Due storie, due culture che hanno già trovato nella Costituzione una forte condivisione del valore della laicità della politica. Sarebbe ben strano che il Partito democratico arretrasse rispetto alla storia della migliore Dc, la quale, seppure ispirata ai valori cattolici, era rispettosa della laicità dello Stato. Ma così non sarà. Romano Prodi, l’altra sera, ha detto parole importanti sulla sovranità del Parlamento. Che considero fondamento di un’idea di democrazia. Tutto ciò non limita in alcun modo il diritto della Chiesa di dire ciò che ritiene opportuno sui temi della politica. Ma la politica laica non può sfuggire alle proprie responsabilità».

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