Intervista
24 febbraio 2007

D'Alema boccia le urne e apre al modello tedesco

A cura di Stefano Cappellini - il Riformista


II vicepremier spinge il Prodi bis. Ma se fallisce, «votare con la vecchia legge sarebbe un colpo alla democrazia»

Dopo aver ritirato l'Oscar assegnato ogni anno dal Riformista al «politico dell'anno» ed essersi concesso per un'ora alle domande della redazione, un minuto prima di lasciare la sede del giornale per andare a incontrare Haya Rashed al-Kali-fa, la presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, Massimo D'Alema si produce nel bignami giornalistico del suo pensiero sulla crisi di governo.

Forse per antico riflesso professionale, il ministro degli Esteri sinterizza da sé il proprio punto di vista. E dice tutto d'un fiato: «lo penso che ci vuole un governo, che il governo di centrosinistra ha vinto le elezioni e ha il diritto di governare, che noi al Senato la maggioranza ce l'abbiamo perché gli elettori ce l'hanno data, e se qualcuno ce la porta via bisogna capire che questo è innaturale, e non il fatto che noi si continui a governare anche con un margine ristretto, come peraltro accade in tutti i paesi democratici. Penso anche che sopprimere la legislatura sarebbe un reato grave perché, oltre alla necessità di cogliere i frutti della ripresa economica, c'è da fare una riforma che dia al bipolarismo italiano un carattere europeo e ci faccia uscire da questa tradizione stentata e irrisolta, di cui in parte è figlia la crisi di questa settimana».

Così il sunto autoprodotto. Ma nella versione integrale della prima intervista del vicepremier dal giorno dell'inciampo in Senato c'è questo e molto altro: riflessioni politiche e personali, valutazioni di scenario e soprattutto una proposta del tutto inedita sulla riforma delle legge elettorale.

Le ragioni della crisi.

Secondo D'Alema si deve parlare di «concorso di fattori» e sarebbe sbagliato ridurre tutto alla questione dei dissidenti o della sinistra cosiddetta radicale.

«Questa situazione - dice - nasce da ragioni strutturati. Grazie alla sciagurata legge elettorale approvata nella precedente legislatura, al Senato si è venuta a creare una situazione per cui noi dopo le elezioni avevamo due senatori di vantaggio: uno è stato eletto presidente e per una norma non scritta si astiene dalle votazioni; l'altro, De Gregorio, sembra essersi sfilato. Questa situazione si è creata già mesi fa e ci ha tenuto sul filo. Peraltro, dopo il voto avevo sollecitato un'intesa alla Cdl: voi prendete atto che abbiamo vinto e abbiamo diritto a governare, noi prendiamo atto che il risultato è fragile, risicato e facciamo gli accordi necessari per garantire il funzionamento delle istituzioni. L'appello è caduto nel vuoto come tutte le cose ragionevoli, che nel nostro paese non trovano ascolto. È in questo contesto che io sono andato a relazionare al Senato non per spirito di sfida, ma come un soldato, perché era giusto verificare se esisteva un necessario consenso sulle linee guida di politica estera».

Detto delle ragioni di fondo, D'Alema non rinuncia ad assestare qualche colpo agli alleati di sinistra: «Il clima che si era creato nella maggioranza non ha giovato e ha dato un senso di fragilità che incoraggia operazioni di altro segno».

Usa e Vaticano.

Dietro «operazioni di altro segno» si nascondono operatori forti - Stati Uniti, Vaticano, Confindustria - come sostengono molte ricostruzioni da un po' di tempo a questa parte?

Dice D'Alema: «Onestamente non siamo in guerra né col Vaticano né con gli Stati Uniti. Questa raffigurazione del governo assediato, questo clima da Sturm und Drang non corrisponde al vero. Gli Stati Uniti sono una realtà molto complessa, abbiamo avuto una buona collaborazione con loro. Semmai, diciamo che alcuni passaggi della mia relazione non verrebbero apprezzati dall'amministrazione Bush, ma probabilmente nella Camera dei rappresentanti la mia relazione al Senato sarebbe stata approvala a larga maggioranza».

Io e Prodi.

D'Alema rifarebbe lune le mosse degli ultimi giorni? Anche il famoso appello della vigilia, «maggioranza in Senato, oppure tutti a casa»? La domanda è inevitabile e viene formulata anche alla luce del presunto malumore di Prodi circa la tattica dalemiana.

Il leader ds non ci sta: «Non sì può ragionare "alla luce" dei presunti malumori, perché quella non è luce, è buio. Che le scìocchezze producano "luce" è una novità. Magari fosse così, sai che risparmio energetico. Purtroppo è tutto falso. È chiaro che se non ti votano la politica estera il governo non va avanti. Io potevo anche non dirlo, ma cosa sarebbe cambiato? Nessuno si è lamentato delle mie parole che peraltro, tecnicamente, non ho mai pronunciato. Una vostra simpatica collega mi ha chiesto: "Allora, se non avete i voti cadete?". E io le ho risposto:"È un principio che sta in costituzione"». Conclude D'Alema: «Tra i tanti grattacapi che abbiamo, uno non ce n'è: non ci sono problemi di alcun tipo tra il sottoscritto e Romano Prodi».


Allargare si può.

Per il ministro degli Esteri non c'è motivo per cui il governo non debba ripartire da dove aveva lasciato: «Con il documento in dodici punti approvato l'altra sera, Prodi ha introdotto un elemento di novità, perché nel testo ci sono i punti qualificanti sul rilancio dell'azione di governo, c'è una modalità d'azione e c'è una agenda che si sforza di parlare in termini politici, e non soltanto per semplice acquisizione di consenso, anche a forze che non fanno parte dell'attuale maggioranza».

D'Alema spiega che il punto non è l'ingresso di partiti nuovi, ma la legittimità dell'acquisizione di voti aggiuntivi rispetto alla maggioranza di partenza: «Chiediamo a queste forze nuove che consentano al governo, nei modi in cui ritengono, di continuare a svolgere la sua funzione. Non dimentichiamo che noi godiamo di un'ampia maggioranza alla Camera, che viene eletta col voto di tutti gli italiani.
Il governo ha bisogno di essere messo nelle condizioni di agire anche al Senato. Dato che ci sono personalità interne alla coalizione che hanno concorso a mettere in difficoltà il governo, la labilità dei confini è già stata messa in discussione: se dalla maggioranza è legittima l'usata, sarà legittima anche l'entrata».

Dunque sostiene D'Alema che Prodi può e deve ritentare: «Se coesistono rispetto delle istituzioni e disciplina di maggioranza si può andare avanti. Noi abbiamo il dovere di indagare se queste condizioni ci sono. A me pare di si. D'altra parte, in un paese normale si può governare anche con pochissimo margine. I socialdemocratici hanno governato una intera legislatura con un voto in più. Nei paesi democratici avanzati, categoria alla quale non possiamo essere annoverati, se uno della maggioranza ha l'influenza, uno dell'opposizione esce dall'aula».

Non dico più?

Dodici punti, si diceva. Il tredicesimo scomparso sono i Dico?

«No, assolutamente no. I dodici punti sono un'agenda di governo. Sui Dico il governo ha già fatto la sua parte approvando il disegno di legge che ha mandato alle Camere e con questo ha fatto una scelta non scontata, coraggiosa, che ha determinato problemi forse non estranei alle tensioni che si sono verificate in Senato. I Dico sono ora all'esame del Parlamento e rappresentano una questione che determinerà un ricomporsi di maggioranze trasversali come è sempre avvenuto su questioni che riguardano i diritti civili».

Di solito, però, questo non accade su un ddl del governo.

Risponde D'Alema: «Non è che possiamo mettere la fiducia sui Dico. La parola è al Parlamento, lì si discuterà, ma comunque il governo ha adempiuto al suo impegno».

«Il voto anticipato è un reato».

Il piano A di D'Alema è chiaro. Tocca ancora a Prodi. E se il Professore non ce la facesse?

«Io penso che l'interruzione traumatica della legislatura sarebbe un disastro per il sistema democratico, non solo per il centrosinistra, perché segnerebbe il fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica. Penso che questa legge elettorale, che è stata un delitto contro il paese e su cui pende anche un referendum, va obbligatoriamente cambiata. L'idea di far saltare tutto, impedire il referendum, precipitare la situazione verso elezioni anticipate e tenerci questa legge sarebbe un colpo per la democrazia. Ma oggi il tema è rilanciare il centrosinistra sulla base di un programma stringente, più riformista, coerente in politica estera e che non lasci spazio ad ambiguità».

Ich bin D'Alema.

In tema di riforma elettorale D'Alema ha sempre parlato francese: maggioritario a doppio turno. La vera notizia è che ha preso a studiare un'altra lingua.

Interrogato sulla questione, il leader ds la prende larga: «È incredibile il divario tra le potenzialità del paese dal punto di vista economico e i risultati concreti, limitati dalla fragilità che ha epicentro nel sistema politico. Se non rimediamo introducendo alcune riforme di carattere istituzionale e costituzionale siamo tutti responsabili dell'inevitabile declino. E la legge elettorale è parte importante della riforma complessiva. Personalmente, non avrei dubbi nell'andare verso un doppio turno, il modello efficace che ha consentito alla Francia di uscire dalla frammentazione della Quarta Repubblica. Se però non è possibile, allora preferisco il modello tedesco».

Obiezione dei maggioritari: non ha premio di maggioranza. Obiezione dei bipolaristi: non ha vincolo di coalizione.

Risponde D'Alema: «Il modello tedesco ha un premio di maggioranza implicito, che è la soglia di sbarramento, e può dare vita a un bipolarismo più civile del nostro, imperniato su due grandi partiti, senza soffocare altre forze che abbiano un peso reale nella società. C'è il candidato cancelliere, chi ha più voti riceve l'incarico, è anche un sistema coerente con la necessità di dare vita al Partito democratico da una parte e a un'altra grande formazione dall'altra. Noi abbiamo bisogno di un modello che, coi dovuti aggiustamenti, non ci esponga più ai ricatti di liste e listarelle. In queste ore il capo dello Stato ha dovuto consultare due partiti monopersonali».

Obiezione dei realisti: dura da varare questa riforma, con una maggioranza composta da tredici partiti di cui dieci non supererebbero una seria soglia di sbarramento.

E D'Alema; «Il panorama dei partiti è cambiato sette-otto volte negli ultimi anni. Mettiamoci in cammino in questa direzione, anziché mantenere uno status quo che palesemente non funziona».

lo e Casini.

Si sbaglia a interpretare questa come l'offerta di una interlocuzione privilegiata a Pier Perdurando Casini, storico sostenitore del modello tedesco?

«Non è un offerta a Casini. Parlo al paese, non ho pensato a interlocutori. La mia è un'analisi della situazione politica e delle istituzioni. Questo bipolarismo è confuso, instabile, costrittivo, rozzo e incoraggia la frammentaapne in due grandi calderoni fatti di partiti e partitini. Così non si governa. Anziché continuare a incaponirsi, vediamo tutti insieme come uscirne. Naturalmente mi fa piacere se vi sono altri che condividono questa analisi e soprattutto intendono darsi da fare per trovare soluzioni».

Io e Berlusconl.

A proposito di interlocutori, ci sarebbe anche il Cavaliere.

D'Alema la vede così: «Ho una certezza pressoché assoluta, conoscendo Berlusconi e avendo già provato due volte a trovare un accordo con lui, con la Bicamerale e il governo Maccanico. Siccome Berlusconi pensa che gli conviene andare alle elezioni ed è sempre guidato dal calcolo delle sue convenienze, perché l'interesse del paese non è questione che lo abbia mai sfiorato, non ho il minimo dubbio che il giorno in cui uno affidasse la sopravvivenza della legislatura a un accordo con lui si andrebbe a elezioni anticipate. Persino al di là di quello che Berlusconi pensa e dice, al momento della stretta prevarrebbe il suo istinto».

Ammesso che sia così, come si fa una riforma istituzionale senza il leader del centrodestra?

«Serve una vasta maggioranza già determinata per conto suo», ipotizza D'Alema. Il quale, chiamato a commentare Marcelloe Dell'Utri che dalle colonne del Corriere della sera sogna «Silvio a braccetto con Massimo», non resiste alla battuta: «Se sogna così, ha mangiato pesante»

Appunti per la riforma.

Dice l'ex premier «Bisogna dare al presidente del Consiglio poteri accresciuti, di nomina e revoca dei ministri, fermandosi su quello di scioglimento delle Camere, una funzione arbitrale estrema che non può essere sottratta al capo dello Stato.
Persino in Gran Bretagna o in Svezia, dove i primi ministri possono sciogliere le Camere, lo fanno sulla base di un voto maggioritario in Parlamento. L'altro punto decisivo è il superamento di questo obsoleto bicameralismo perfetto. La Camera da cui il governo deve ottenere la fiducia deve essere una. Al Senato vanno lasciate altre prerogative».

Le dimissioni e il precedente Amato.

C'è stato un momento in cui D'Alema ha pensato di non tornare comunque a fa-
re il ministro degli Esteri, a prescindere dall'esito del tentativo bis di Prodi?

«No. Assolutamente no. Quando mi dimisi da premier lo feci sulla base di una valutarione politica. Valutai che in quel momento, lasciando, potevo dare al centrosinistra una opportunità per risalire la china in vista delle elezioni, cioè cambiare leadership per mettere a palazzo Chigi chi avrebbe poi guidato la coalizione al voto (Giuliano Amato, ndr). Poi altri decisero diversamente, quando io me ne ero andato. Adesso non ho l'impressione che tirandomi indietro rafforzerei il governo e la maggioranza. Credo piuttosto il contrario: continuo a fare il mio lavoro in un rapporto leale di collaborazione con Prodi e questo è stato finora un punto di forza del governo. Ringrazio per la stima Emesto Galli della Loggia che, lodandomi sul Corriere, mi ha chiesto un gesto, ma credo che lui sia meno affezionato di me al destino del centrosinistra. Se guardassi solo alla mia biografia, in questo momento dire "me ne vado" rappresenterebbe forse una pagina gloriosa, e magari meriterei anche l'elogio di Panebianco, ma non faccio politica per scrivere la mia biografia».

Qualcuno, come Andrea Romano nel suo ultimo libro, scrive che D'Alema non fa più politica, e basta.

Il vicepremier preferisce non commentare i giudizi del suo ex collaboratore alla fondazione Italianieuropei. Infastidito, dice solo: «Romano è un ragazzo intelligente, che avrebbe i mezzi per affermarsi in veste diversa da quella di ex».

Il Partito democratico e la scissione Ds.

Uscirà meglio o peggio il progetto del Pd dalla crisi di governo?

«Questa vicenda conferma quello che era evidente anche prima. Questo paese ha bisogno di una grande forza politica che sia decisiva negli assetti di governo. Siamo a buon punto: ci siamo presentati con un solo simbolo alle elezioni, fatto un solo gruppo in Parlamento. Celebrati i congressi di Ds e Margherita, col manifesto del partito già in campo, si arriverà abbastanza rapidamente al primo congresso».

Anche al prezzo di una scissione dei Ds?

«La risposta è nel fatto che il congresso l'abbiamo già promosso, decidendo di andare avanti. Non si poteva restare fermi in mezzo al guado, ma credo che la scissione sarebbe un grave errore ed è una scemenza sostenere, come ci attribuisce qualcuno, che sia una prospettiva auspicabile. Cercare noi la scissione per liberare il Pd da quelli che sono un po' più a sinistra sarebbe sbagliato e moralmente inaccettabile. Io sono stato educato in un grande partito e dunque penso che sia meglio fare la sinistra di un grande partito che non un partitino a propria immagine e somiglianza».

Chi è il leader ideale del Pd? E sarà lui il candidato premier del centrosinistra al prossimo giro?

«Se ci sarà la legge alla tedesca candideremo come cancelliere il leader, ma non è regola fissa. I socialdemocratici candidarono Schroeder quando il leader della Spd era Lafontaine. Quel che è certo è che non si può arretrare rispetto alla scelta delle primarie».

E a chi dice che la fondazione del Pd rappresenti l'abbandono della famiglia socialista?

«E' un tema su cui su cui abbiamo ampiamente delibato, ci ho scritto anche un libro per spiegare come per creare una grande forza politica riformista che sia in grado di svolgere la funzione che hanno negli altri paesi i grandi partiti socialisti occorre fondare un partito in cui confluisca anche il riformismo cattolico».

E per spiegare quanto sia necessario andare avanti e pensarsi in scenari nuovi, D'Alema la chiude sul personale: «Tutto potevo pensare quando ero giovane colonnello berlingueriano tranne di trovarmi un giorno al governo avendo tra i miei principali collaboratori Intini e Craxi. E' il segno che nella vita le cose cambiano, e molto».

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