Intervista
3 maggio 2007

"Il leader? Al Pd per ora basta un coordinatore"

«Una scelta immediata sarebbe destabilizzante per l'esecutivo»
Intervista di Fabio Martini - La Stampa


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Dopo un anno trascorso nel candido, monumentale palazzo della Farnesina, il ministro degli Esteri Massimo D’Alema distilla uno dei suoi proverbiali paradossi: «Il nostro è un Paese che all’estero gode di un credito che non è percepito dagli italiani: il massimo del disprezzo per l’Italia è in Italia. Sulla scena internazionale giochiamo in serie A, abbiamo messo in sicurezza la politica energetica per i prossimi 20 anni, ma di tutto questo non c’è il minimo orgoglio: il dibattito interno è autodistruttivo, manca la consapevolezza di essere classe dirigente».

In queste ore si è accesa una polemica sulla Corte Costituzionale, organo rispettato ma storicamente non impermeabile alle pressioni politiche: condivide l’allarme lanciato dal giudice dimissionario?

«Io penso che se la Corte Costituzionale difende la propria indipendenza, è indipendente. Non ho mai fatto dichiarazioni per dire cosa debba fare la Corte o il Presidente della Repubblica perché questa è una cattiva abitudine. Ma non credo che la dichiarazione di un ministro possa ledere l’autonomia della Consulta che, nel corso della sua storia, è stata indipendente, ha dimostrato di essere un organismo di alta tutela e ha assunto decisioni anche coraggiose».

Non le è parsa poco istituzionale la forte critica del presidente della Camera all’istituto del referendum?

«Il referendum è uno strumento prezioso di partecipazione democratica. Ma è legittimo che si possa discutere su come viene usato il referendum. Anche per una piccola ragione: da un numero imprecisato di anni non si raggiunge il quorum e lo strumento ha finito per essere vanificato. Non sarei contrario ad una riforma che rafforzi lo strumento referendario sulla base di tre principii. Intanto la possibilità di istituire il referendum propositivo accanto a quello abrogativo che, nel tempo, si è prestato a tanti equivoci. E anche al paradosso di fare referendum abrogativi su una legge - quella elettorale - che non si può cancellare perché il Paese non può restarne senza. E dunque si è costretti a fare referendum che in realtà non abrogano».

Altri correttivi per rilanciare il referendum?

«Alzare in modo consistente la quota delle firme, per renderlo meno “facile”; ma anche abolire il quorum, per renderlo più incisivo, perché è troppo facile dire “non votiamo”, svuotando uno strumento di partecipazione democratica».

Questo referendum le piace?

«Rispetto questa iniziativa, ma auspico che si faccia una nuova legge elettorale, meglio se prima del referendum. La legge che abbiamo è pessima, ma il referendum, per le costrizioni nelle quali si muove, non risolve. In realtà l’intenzione giusta dei referendari rischia di non produrre gli effetti desiderati: si andrebbe incontro a due listoni senza preferenze, dando luogo soltanto a negoziati e spartizioni».

La legge elettorale di Massimo D’Alema?

«Un sistema limpidamente maggioritario che non cancelli le voci minori ma non le renda discriminanti ai fini della governabilità. Io preferisco il sistema uninominale a doppio turno. D’altro canto l’elezione del sindaco, tanto apprezzata in Italia, funziona così».

I giornali saranno spesso pettegoli, ma per la leadership del Partito democratico è tutto un fiorire di candidature e autocandidature. La fine di tante ipocrisie? O come nel primo miglio delle maratone gli outsider si mettono in luce prima di crollare alla distanza?

«Io penso che la politica dovrebbe essere in grado di dettare i tempi. Ciò detto, ho sentito la domanda sulla leadership fatta a Pierluigi Bersani. Lui ha risposto: “Al momento opportuno ci saremo tutti”. Titolo dei giornali: “Bersani: io sono candidato”. Prodi ha annunciato che allo scadere della legislatura considererà esaurito il suo mandato e dunque il problema della leadership del Pd verrà affrontato al momento opportuno».

Alcuni sostengono che il momento debba arrivare prestissimo...

«Io penso che il momento opportuno dista anni. E se vogliamo parlarne per anni, io non partecipo!».

Un leader incoronato subito, darebbe argomenti a chi vuole buttar giù il governo? Visto che il leader nuovo è già pronto...

«Io credo che leadership del Pd debba definirsi in funzione della guida del Paese e dunque in vista delle elezioni politiche. Che ci mettiamo noi a fare delle operazioni il cui effetto, magari non voluto, è quello di destabilizzare il quadro politico e spingere verso elezioni, mi sembra irragionevole».

In autunno sarà eletta l’Assemblea costituente e nella primavera 2008 nascerà il nuovo partito. E’ così?

«No. Il partito nascerà molto prima. Abbiamo previsto che in autunno si elegga attraverso una larga partecipazione popolare l’Assemblea costituente e una volta fatta quell’Assemblea, il partito è costituito. Anche perché l’opinione pubblica ha percepito i congressi Ds e Dl come dei momenti veri. Se noi torniamo in tv come Quercia e Margherita, l’italiano medio potrebbe restare scosso: ma come? Non avevate fatto il partito democratico? Anche nella transizione bisogna dare il senso di decisioni rapide e un contributo credo di averlo dato, non candidandomi a rifare il presidente dei Ds. Si tratta di trovare modalità per un percorso molto aperto, coinvolgente, rapido. Ciò che ci proporrà Piero Fassino nei prossimi giorni andrà in questa direzione».

Ma se il leader verrà eletto fra anni e con Prodi a Palazzo Chigi, il partito chi lo plasma? Un coordinatore?

«E’ chiaro che dovremo darci una struttura. Il partito democratico ha bisogno di una sua rappresentanza istituzionale e ce l’ha - i gruppi parlamentari, il governo - e di una struttura operativa che costruisca il partito con caratteri nuovi. Questo è un impegno fondamentale, che richiede un enorme lavoro per tutto il Paese. Serviranno dei responsabili e qualcuno che coordini questo lavoro».

Quando arriverà il momento della sfida per la leadership, perché Massimo D’Alema non dovrebbe essere della partita?

«Devo manifestare il mio grande fastidio verso il modo in cui si sta avviando il dibattito sulla leadership. Siamo l’unico Paese al mondo nel quale leadership è diventata una parolaccia, una specie di virus. La gente dice: “Ti sei preso la leadership?”. Io ho degli anticorpi e non prenderò questa malattia!».

Senza far nomi, Marco Tronchetti Provera ha accusato il gotha del governo di averlo danneggiato. Si sente chiamato in causa?

«Questo è un Paese nel quale tutti danno la colpa agli altri. Se il compito di noi politici è render conto del nostro operato e quando perdiamo le elezioni non possiamo dar la colpa agli imprenditori o ai giornalisti, così anche gli imprenditori devono render conto del loro operato di imprenditori».

Per un’azienda quotata in Borsa il silenzio dei politici più influenti non è un obbligo? Su Telecom non è stato così...

«Su Telecom non ho detto nulla, non ho partecipato a campagne, ho sempre avuto un rapporto corretto con Tronchetti Provera, non ho nulla da recriminare. Ma se posso dare a tutti un consiglio, nello stile del rispetto, suggerirei qualche intervista in meno».

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