Intervista
11 maggio 2007

Orizzonte Massimo

Intervista di Gigi Riva - L'Espresso


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Un anno alla Farnesina per un lavoro "talmente appassionante che affronto con serenità i rimanenti quattro". Il ministro degli Esteri Massimo D'Alema liquida con una battuta i bilanci personali e accetta, in questa lunga intervista con 'L'espresso' di analizzare le questioni aperte sulla scena internazionale.

Rivela retroscena del vertice di Sharm El Sheikh dove gli è stato affidato, alla cena ufficiale dei ministri, un ruolo di 'facilitatore' del dialogo con Siria e Iran. Conferma che "diverse informative dell'intelligence" sembrano indicare movimenti di armi in Libano, anche se fuori dall'area controllata dal contingente Unifil. Non esclude il rischio di attentati contro i nostri militari condotti da elementi riconducibili ad Al Qaeda che si infiltrano nei campi profughi palestinesi.

La missione internazionale a suo avviso sta aiutando Israele che altrimenti "si sarebbe trovato in una situazione drammatica". La crisi di leadership nello Stato ebraico, effetto dei risultati della Commissione Winograd ma non solo, è in questo momento particolarmente grave, perché impedisce di cogliere le opportunità che si sono aperte col piano saudita, una base di discussione, "mentre noi non conosciamo oggi quali sono le controproposte concrete di Israele perché sinora non sono emerse con chiarezza". Parla anche di Kosovo, Russia e Turchia. L'elezione di Sarkozy all'Eliseo è stretta attualità e merita la sua prima riflessione.

Massimo D'Alema, che lezioni trarre da quanto è successo in Francia?
"Anzitutto mi ha colpito la straordinaria partecipazione che conferma la vitalità del sistema a doppio turno. Ha un forte contenuto di legittimazione perché il presidente è voluto dalla maggioranza assoluta dei cittadini. Anche in Italia l'elezione che funziona meglio è quella a doppio turno del sindaco. E poi i socialisti hanno ottenuto un grande risultato".


I socialisti o Ségolène Royal?
"I socialisti grazie a Ségolène Royal. Il 47 per cento è insieme un risultato importante e l'indicazione di un limite. I socialisti dentro uno schema di sinistra tradizionale hanno dato il meglio. La candidatura si è rivelata forte e con una notevole carica innovativa. Tuttavia c'è bisogno di una sinistra in grado di costruire una capacità di rappresentazione della società nuova rispetto alla sinistra tradizionale".

La sinistra da sola non riesce a essere maggioranza. Per questo si deve alleare col centro.
"Alleanza col centro è un'espressione da politica classica. Il problema, più complicato, è come costruire una proposta di governo in grado di rappresentare un arco di forze sociali e culturali più ampio. Chi ha votato Bayrou? Anche parte dei giovani delle grandi aree metropolitane, acculturati, che non rappresentano il centro moderato in termini tradizionali, ma il nuovo centro della società. Il New Labour ha vinto quando si è presentato come center-center-left. Schroeder ha vinto quando ha lanciato il 'neue mitte', il nuovo centro. Noi ci siamo posti il problema dopo la sconfitta del '94 e abbiamo adottato la formula dell'Ulivo in modo abbastanza anticipatore".

Dunque l'Italia è più avanti?
"Penso di sì, anche se un pezzo di sinistra non lo vede e piuttosto guarda indietro. Il Partito democratico che vogliamo costruire non è un partito centrista, ma di centro-sinistra, la fusione di Royal-Bayrou se vogliamo usare il paragone francese".

Ci sarà un futuro politico per Ségolène Royal?
"Spero che il partito socialista apra un'ampia discussione su come innovare la sinistra allargandone i confini. La Royal dovrà rispondere a questi interrogativi. Di sicuro è uscita fortemente legittimata come leader della sinistra francese".

Sarkozy all'Eliseo cosa significa per l'Europa?
"Si rimetterà in movimento la Francia come grande Paese che concorre al processo europeo. Dopo lo choc del referendum sul Trattato (bocciato) è stata, oggettivamente, più un peso che un traino. Questo è innaturale per la Francia. Adesso uscirà da questa condizione. Sarkozy ha dato alla soluzione del problema un titolo non brillante 'mini traité', mini trattato. Formalmente, abbassa il profilo del trattato, lo scarnifica, ma recupera molte delle novità che si vogliono introdurre come le decisioni a maggioranza e non più all'unanimità, il ministro degli Esteri europeo, la presidenza stabile".

Sarkozy viene dipinto come filo americano.
"Un'analisi sbagliata. È più filo americano, tra virgolette, nel modo di vedere la società. Probabilmente andrà verso un processo di liberalizzazione degli aspetti più chiusi e corporativi della società francese. Ma non sposterà l'asse. E poi verso dove? Siamo in uno scenario nuovo in cui la politica unilaterale americana è in crisi e la sua capacità di attrazione è ridotta persino negli Stati Uniti. L'orientamento di tutti è quello di lavorare per rilanciare la visione multilaterale e correggere gli errori degli ultimi anni. Immagino che Sarkozy darà una mano in questo senso".

È contro l'ingresso della Turchia in Europa.
"E questo è sbagliato. È un punto sul quale dovremo avere un confronto. Noi stiamo negoziando con la Turchia, ci sono delle decisioni prese dai Consigli europei, non è un dibattito culturale, è in corso una trattativa complessa. Un conto è dire 'non ha adempiuto a certi criteri', un altro è avere una posizione pregiudizialmente negativa".

Sarko inchioda la Turchia alla carta geografica, dice: Ankara è in Asia minore.
"Penso sia un errore. La Ue deve accogliere nel suo seno un grande Paese islamico e aiutare la Turchia a consolidare la sua tradizione laica. Sbatterle le porte dell'Europa in faccia, in questo momento in cui è aperto un dibattito sui caratteri della società, significa dare una spinta verso l'islamismo. E questo sarebbe grave".

I politici europei sono accusati di essere troppo benevoli con il presidente russo Vladimir Putin per le violazioni dei diritti umani in Cecenia.
"Dobbiamo esercitare verso la Russia una pressione critica. Preferisco si ponga alla Russia il tema dei diritti umani anziché aprire un contenzioso sul monumento all'Armata rossa in Estonia, che mi pare una persecuzione verso la storia, visto che il sacrificio dell'Unione Sovietica per bloccare il nazismo è un dato acclarato. Noi la incalziamo sui diritti umani come si fa con un Paese amico e non nei termini della Guerra Fredda".

Alle porte dell'Europa preme il problema del Kosovo che reclama l'indipendenza. Qual è la posizione italiana?
"La stessa dell'Europa. Sosteniamo la linea di Ahtisaari, l'inviato speciale dell'Onu: una forma di indipendenza sotto 'supervisione' internazionale. Del resto è la presa d'atto di uno stato di fatto".

I serbi non l'accettano.
"I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e facendo la pulizia etnica. Nessuno può pensare di ripristinare la sovranità serba laddove nemmeno un poliziotto serbo può più mettere piede. L'alternativa è tra un'indipendenza di fatto senza garanzie e un'indipendenza con garanzie. Credo sia nell'interesse dei serbi trovare una definizione dello status. La Serbia è un grande Paese e io mi batto per riaprire il negoziato per l'Accordo di Stabilizzazione, anche in vista di una futura adesione alla Ue".

Anche se non consegna il criminale Mladic?
"Mandiamo avanti il negoziato e poi però non firmiamo l'accordo finale se non consegnano Mladic. Si esercita così una pressione più forte".

Non teme l'effetto domino nell'area con l'Erzegovina croata, o la Bosnia serba che potrebbero pretendere analogo trattamento?
"Abbiamo sempre detto che consideriamo il caso del Kosovo del tutto eccezionale, un caso che non costituisce un precedente. Nessuno può pensare che il Consiglio di sicurezza dell'Onu possa mai stabilire l'indipendenza dell'Erzegovina".

La Cina o la Russia potrebbero esercitare il diritto di veto.
"La Cina non mi pare fortemente interessata al problema. Con la Russia bisognerà discutere, offrire garanzie. Certo non era il momento di mettersi a piantare missili in Europa durante un dibattito di questo tipo".

Andiamo in Afghanistan. Lei si è detto preoccupato per le conseguenze sul nostro contingente dei bombardamenti americani nella zona di Herat.
"Lo ha detto anche Karzai, ma la stampa italiana lo ha in buona misura ignorato. Fini ha sostenuto che le mie parole erano motivate dal fatto che non so cosa stia succedendo in Afghanistan. Forse Karzai si deve far spiegare da Fini cosa succede. Le azioni che finiscono per colpire in modo indiscriminato anche la popolazione civile sono controproducenti. Se l'obiettivo è conquistare consenso e isolare il terrorismo bisogna che la lotta contro i talebani sia condotta in modo da non generare diffidenza".

I soldati hanno mezzi adeguati.
"Hanno ciò che chiedono. È una valutazione che il ministero della Difesa compie regolarmente sulla base delle richieste dello Stato Maggiore. È una strana polemica. Vorrei ricordare che, purtroppo, nel corso degli ultimi anni abbiamo avuto diversi caduti in Afghanistan. Quelli che erano al governo quando i nostri militari morivano non hanno mai fatto nulla, adesso che siamo al governo noi, reclamano mezzi adeguati. La differenza è che noi glieli diamo".

Come sono i rapporti col governo Karzai dopo il caso Mastrogiacomo.
"Abbiamo motivi di gratitudine verso il governo afgano. Se non avessero liberato i cinque prigionieri non avremmo potuto salvare la vita di Mastrogiacomo. La vicenda presenta poi aspetti che non sono del tutto chiari, in particolare la mancata liberazione dell'interprete. Tutto si è svolto in un territorio dove ci sfuggiva la reale possibilità di controllo".

Hanefi, il mediatore di Emergency, potrebbe chiarire, ma è in galera.
"Hanefi non è stato arrestato per aver fatto il mediatore per il governo italiano, che sarebbe un'assurdità. Il punto è che non so sulla base di quali elementi sia detenuto. Noi abbiamo esercitato ogni pressione, anche al di là di quanto possiamo rendere pubblico, perché il caso si concluda al più presto. In Afghanistan c'è un regime che prevede un lungo fermo di polizia, ci sono regole discutibili circa le garanzie giudiziarie. E infatti le discutiamo".

Lei è stato al vertice di Sharm el Sheikh sull'Iraq. Una vera svolta?
"In Iraq ha messo radici un terrorismo legato a un conflitto interno per cui non basterà la collaborazione di Iran e Siria per vedere risultati apprezzabili. Quel che è certo e che si è trattato di un evento nuovo per la politica internazionale. È finito l'unilateralismo, si torna all'approccio multilaterale e si cercano soluzioni basate sul dialogo".

L'iraniano Mottaki non ha voluto sedersi al tavolo con la Rice, adducendo come pretesto la presenza di una violinista sexy.
"Ero a quel tavolo, posso raccontare come è andata. La Rice era stata messa su un lato con il ministro degli Esteri egiziano e quello del Bahrein. Davanti c'ero io, in mezzo, con il siriano e Mottaki in quello che ho ribattezzato, scherzando con i miei interlocutori, il 'bad boys corner'. Nei fatti mi era stato assegnato, a quella cena, il ruolo di 'facilitatore', di 'forza di interposizione', visto il buon rapporto personale con la Rice e il fatto che Siria e Iran vedono l'Italia come Paese del dialogo".

'Bad boys corner': qualcuno in Italia potrebbe sottoscrivere la battuta...
"Ma era la prova di quanto siamo tenuti in considerazione! Il tutto avveniva in una situazione in cui i ministri di altri importanti Paesi europei stavano piuttosto decentrati da quello che era, in quella circostanza, il focus dell'evento. Comunque arriva Mottaki e rifiuta di sedersi col pretesto della violinista. È il segno di alcune rigidità difficili da superare. Stati Uniti e Iran erano però alla stessa Conferenza, questo conta. La Rice poi, il giorno dopo, ha avuto una battuta spiritosa quando ha ringraziato l'Egitto per il vertice e 'per l'evento straordinario di ieri sera'".

Lei ha in programma una visita in Siria?
"Ci andrò presto. Nel corso della Conferenza il ministro degli Esteri di Damasco Walid Muallim ha avuto comportamenti autonomi rispetto alla posizione iraniana. Andatosene Mottaki, sono rimasto a parlare con lui per un paio d'ore".

Gli ha chiesto perché a Hezbollah continuano ad arrivare armi che transitano dalla Siria?
"Lui nega. Sostiene di fare ogni sforzo per controllare la frontiera. Ha anche aggiunto che se abbiamo prove, come delle foto aeree, sarebbero interessati a conoscerle per scoprire da dove passano le armi. Si è detto disposto a collaborare".

A lei risulta che Hezbollah si stia riarmando?
"Diverse fonti di intelligence ci dicono questo. Ci dicono anche che non avviene nella zona controllata da Unifil. È falso che si stiano riempiendo gli arsenali tra il Litani e il confine di Israele. In altre zone del Libano è possibile. I controlli li dovrebbero fare le Forze armate libanesi. Ma il blocco politico-istituzionale in Libano, la paralisi del governo e del Parlamento, aumentano i rischi ed è di fatto bloccata anche la piena e completa applicazione della Risoluzione 1701".

Anche qui i nostri soldati rischiano?
"Premesso che l'azione Unifil gode di generale apprezzamento, i rischi più che dalle fazioni libanesi riguardano azioni terroristiche di gruppi legati ad Al Qaeda. Esiste un pericolo di infiltrazioni in campi profughi palestinesi e nonostante l'opera di vigilanza svolta da Fatah in collaborazione con le autorità libanesi. Unifil è un grande risultato positivo perché ci sono, assieme, l'Europa, la Turchia, il Qatar, non c'è scontro di civiltà. E il terrorismo, che punta proprio sullo scontro di civiltà, potrebbe entrare in azione".

Israele attraversa una profonda crisi politica. La commissione Winograd ha mosso a Olmert e Peretz accuse assai più gravi di quelle che fece lei l'estate scorsa.
"Dissi che Israele aveva avuto una reazione eccessiva e aveva provocato troppe vittime civili. Era la posizione europea. Ma l'Italia è l'unico Paese dove si viene crocifissi e accusati di antisemitismo semplicemente se si fanno constatazioni di buonsenso. Il buonsenso è considerato eversivo. Certo aver scatenato un'offensiva militare senza sapere cosa si voleva e dove si voleva arrivare è stata un'operazione estremamente grave. Se non fossimo intervenuti noi con Unifil, Israele si sarebbe trovato in una situazione drammatica. Quindi noi abbiamo aiutato Israele, questa è la verità, perché era giusto. Li abbiamo aiutati molto di più di quelli che elogiano continuamente gli israeliani senza fare però nulla di utile per Israele".

Cosa prevede possa succedere dopo gli esiti della Commissione Winograd.
"Quel che accade in Israele è un segno di vitalità della democrazia che si esprime malgrado l'asprezza delle sfide esterne. Dall'altra parte un presidente sotto accusa per scandali sessuali, un ministro della Giustizia che si è dimesso, i risultati della Commissione, sono segni di difficoltà. Speriamo che Israele ne esca con un governo nella pienezza delle sue funzioni e in grado di cogliere opportunità nuove".

Si riferisce al piano di pace saudita?
"Mi riferisco al vertice della Lega araba, all'iniziativa saudita, al fatto che c'è un interlocutore, Abu Mazen, che vuole lavorare per rimettere in marcia il processo di pace. Ci sono decisioni importanti che devono essere prese. L'iniziativa della Lega araba dice che sulla base dei confini del 67 si può aprire una prospettiva di pace nella regione e chiede il ritorno dei profughi. Capisco che per Israele quest'ultimo punto sia inaccettabile perché metterebbe in discussione il carattere ebraico dello Stato. Ma l'iniziativa definisce il terreno del confronto. Il problema è sapere come risponde Israele, quali sono le controproposte concrete. Sinora non mi pare che siano emerse con chiarezza".

Lei aveva lanciato anche l'idea dei caschi blu a Gaza.
"Una eventuale presenza internazionale a Gaza è legata a un accordo tra le parti. Il giorno in cui ci fosse l'accordo, quell'ipotesi potrebbe diventare non solo realistica, ma forse anche necessaria".

L'Occidente sta vincendo la guerra al terrorismo?
"L'espressione generica e onnicomprensiva di 'guerra al terrorismo' è sbagliata. Intendiamoci: il terrorismo va senz'altro combattuto, ma gli strumenti militari non sono affatto sufficienti. Il problema è isolare il terrorismo, ridurre il pericolo sapendo che è un male endemico di lunga durata. Si risolve soprattutto con strumenti culturali e con l'intelligence, non con la guerra. Perché la guerra si fa contro gli eserciti e gli Stati. Fare la guerra a qualcuno che rappresenta una minaccia asimmetrica dà dei risultati assai dubbi. Spesso l'uso massiccio della forza militare rischia di causare vittime civili innocenti e paradossalmente di creare il terreno favorevole perché il fenomeno si espanda".

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