Intervista
22 maggio 2008

D’Alema: sugli immigrati norme incivili

Intervista di Umberto De Giovannangeli - L'Unità


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Medio Oriente, Iran, Stati Uniti. L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema mette a fuoco alcune delle questioni cruciali dello scenario internazionale e avverte che «il rischio vero per l’Italia è quello di tornare ad essere irrilevante». Sul tema della sicurezza, poi, l’ex vice premier sottolinea: «Manca una politica di integrazione. Questo è un problema che riguarda l’Europa, non soltanto il nostro Paese. E chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida su cui ci dobbiamo tutti misurare». D’Alema, inoltre, definisce «incivile, giuridicamente insostenibile e criminogena» la norma sul reato di immigrazione clandestina voluta dal governo Berlusconi.

Partiamo dal Medio Oriente. La discontinuità nei confronti del «filo arabismo» di Massimo D’Alema è il concetto su cui il centrodestra, durante la campagna elettorale, ha molto insistito.
«E io credo che il rischio vero, al quale è esposto il nostro paese, sia quello dell’irrilevanza. E penso che un’Italia che si precludesse il dialogo con il mondo arabo - così come viene prospettato - non serva a nessuno, né ad Israele, né all’Occidente. Inoltre, sarebbe un atteggiamento gravemente lesivo dei nostri interessi nazionali. D’altra parte, il corso della politica è un altro».

Ovvero?
«Guardiamo proprio al Medio Oriente, dove due eventi dominano la scena. Da un lato, l’accordo in Libano lungo la strada che noi avevamo tracciato: un accordo che comprende Hezbollah... Altro che il cambio delle regole d’ingaggio. Dall’altro, i contatti con Hamas, avviati sia da Israele che li conduce attraverso l’Egitto, sia da diversi Paesi europei e non solo dalla Francia. Tutto questo non perché ci piaccia Hamas, ma perché vi è consapevolezza che solo coinvolgendo Hamas - vincolandola, naturalmente, al rispetto della sicurezza d’Israele - si possa raggiungere la pace. D’altro canto, la questione mediorientale non è riassumibile nella lotta al terrorismo, che è un aspetto di una vicenda ben più ampia. C’è una questione nazionale libanese, c’è una questione nazionale palestinese. Il terrorismo lo si sconfigge dando anche delle risposte ai problemi da cui esso trae origine o che sono utilizzati dai terroristi come pretesto. Né si possono ridurre a gruppetti di terroristi movimenti che sono rappresentativi di milioni di persone. Insomma, i problemi sono innanzitutto politici e non solo militari. Ricordo ancora una volta che Hamas ha vinto le elezioni e che Hezbollah è il partito che rappresenta la comunità sciita, la più grande del Libano. Al di là delle dichiarazioni, nella sostanza la diplomazia europea si muove nella direzione di costruire le condizioni di un processo di pace, il che lo si fa attraverso un dialogo in grado di coinvolgere il mondo arabo nelle sue diverse componenti. E una importante riprova dell’incisività di questa politica è l’avvio di colloqui di pace fra la Siria ed Israele, con la mediazione della Turchia».

Rimaniamo sulla discontinuità, spostandoci sullo scenario iraniano. Il nuovo ministro degli esteri Franco Frattini ha sostenuto che il governo chiederà di entrare a far parte del gruppo «5+1», recuperando un treno perso...
«Sì, certo, da loro... Ricordo, infatti, che l’Italia venne esclusa dal “5+1” nel 2003. Fu un grave errore del governo Berlusconi ed una chiara testimonianza di quel rischio di irrilevanza di cui ho parlato e che vedo correre anche oggi per il nostro Paese. L’esclusione da quel gruppo è stata gravemente dannosa agli interessi dell’Italia per diversi motivi. Intanto per ragioni di immagine, visto e considerato il valore simbolico che quell’organismo ha assunto, essendo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dalla Germania che ne vuole entrare a far parte. Poi, perché è diventato un luogo di consultazione politica di primaria grandezza. Ma, soprattutto, perché lì si è discusso del contenuto delle sanzioni ed è evidente che chi era a quel tavolo si è preoccupato che le sanzioni non fossero lesive dei propri interessi nazionali. Non a caso, spesso noi siamo stati tra i paesi che hanno pagato il prezzo più alto. In questi anni, mentre il governo Prodi ha lavorato per cercare di tutelare gli interessi dell’Italia, la destra ci ha accusato di essere filo iraniani, mentre noi eravamo semplicemente filo italiani nelle condizioni difficili in cui ci aveva lasciato il governo Berlusconi, costretti a partire da un gradino più in basso. Nonostante questo, ci siamo fatti sentire e alla fine siamo stati coinvolti in un meccanismo di consultazione a livello tecnico e diplomatico, recuperando possibilità di incidere sulle scelte e arrivando a raggiungere risultati importanti. Spero che questa operazione si concluda positivamente con l’inclusione dell’Italia nel gruppo “5+1”. Se questo accadrà, sarà frutto di un lavoro avviato dal governo Prodi».

Più in generale, quale politica verso l’Iran?
«L’Italia ha sempre condiviso l’obiettivo di evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, sostenendo in pieno le sanzioni e - ripeto - spesso pagandone i prezzi più alti. Detto ciò, continuo a pensare che non bastino le sanzioni o una politica muscolare. Occorre un approccio più aperto verso quel Paese. Insomma, una politica di sanzioni più ferma, ma, contemporaneamente, un’offerta politica più significativa e consistente di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento del ruolo dell’Iran nella regione. D’altra parte, parliamo di un Paese essenziale per la ricerca di una soluzione dei problemi in Iraq, in Afghanistan e in Medio Oriente. A mio parere, solo in questo modo potremmo riuscire ad offrire una sponda internazionale alle forze riformiste e moderate, alla società civile di un Paese che non può essere paragonato all’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che dico non è una eresia, ma è quello che sostengono anche i candidati democratici americani».

Berlusconi si è detto impegnato a «ricucire» lo strappo con gli Usa, provocato dalla vostra politica...
«Noi abbiamo sempre avuto rapporti corretti e leali con gli americani. Rapporti improntati all’amicizia e alla collaborazione, ma anche alla franchezza. Ad esempio, abbiamo sostenuto la necessità che gli Stati Uniti tornassero ad impegnarsi maggiormente per la pace in Medio Oriente, così come li abbiamo incoraggiati a riprendere la strada di un ragionevole multilateralismo, abbandonando la politica unilaterale delle “coalitions of willings”. Dunque, non c’è nulla da ricucire. Il problema, semmai, è il contributo che può dare un paese come l’Italia. Noi siamo nel cuore del Mediterraneo e il nostro ruolo, in un mondo che rischia uno scontro di civiltà, è essere crocevia del dialogo, dell’iniziativa politica, della ricerca del confronto. Questa è la nostra vocazione».

Questa «vocazione» come si concilia con le politiche che si preannunciano sul fronte dell’immigrazione?
«La destra ha cavalcato il tema della sicurezza, con argomenti e toni pericolosi che speriamo il governo corregga rapidamente. Evocare le ronde o affermare che i cittadini possano provvedere da soli, crea un terreno favorevole a gesti violenti come gli incendi dei campi rom. Sui temi della sicurezza, viceversa, occorre grande equilibrio. Naturalmente, servono fermezza contro la criminalità, procedure rapide per l’espulsione, insomma quelle misure ragionevoli per la sicurezza che già avevamo predisposto noi, con il pacchetto Amato, che poi, purtroppo, non è stato approvato. Sappiamo anche per responsabilità di chi e il prezzo elettorale che abbiamo pagato».

Il governo ha presentato il ddl sul reato di clandestinità...
«Sarebbe una norma incivile, giuridicamente insostenibile, contraria ai principi europei. In più, sarebbe totalmente controproducente, perché criminogena: spingerebbe la povera gente che viene nel nostro Paese per disperazione e miseria - e che nella grande maggioranza è onesta - a diventare manodopera per la criminalità. Il problema vero è che noi non abbiamo una politica dell’integrazione degna di questo nome. Si tratta di una grande questione europea, non soltanto italiana. Ma io domando: che razza di società democratica è quella in cui il 15% della forza lavoro che produce tra il 6 e il 10% del Pil non gode di diritti civili e politici? Che razza di democrazia è quella nella quale chi vive e lavora in Italia da 15 anni non ha diritti? In definitiva, è la sostanza della democrazia ad essere intaccata. A mio parere, società di questo tipo non si reggono. Ecco perché lo considero un problema cruciale, che - insisto - riguarda l’Europa e il suo futuro. E che chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida sulla quale ci dobbiamo tutti misurare. Una politica di sicurezza, con il rigore verso chi delinque e la certezza della pena, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è una coraggiosa strategia dell’integrazione, che punti sui diritti civili, sociali, politici e su una accelerazione delle procedure della cittadinanza. Così, a mio giudizio, una seria politica dell’integrazione diverrebbe fattore fondamentale della sicurezza. Altrimenti, temo che avremo una società squilibrata, in cui persino certi valori fondamentali come quelli democratici saranno fortemente intaccati».

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